La sfida di perseguire l’impatto nella ricerca

Intervista a:
Federico Caniato, Full Professor of Supply Chain & Procurement Management, School of Management, Politecnico di Milano
Stefano Magistretti, Assistant Professor of Agile Innovation, School of Management, Politecnico di Milano

 

Le università sono sempre più impegnate a dimostrare l’impatto della loro ricerca. Qual è l’impatto della ricerca? 

L’impatto della ricerca è fondamentale non solo per il Politecnico di Milano, ma per l’intero sistema universitario italiano e più in generale per le università di tutto il mondo. Non è facile definire quale sia l’impatto della ricerca. Possiamo dire che l’impatto della ricerca comprende tutti i risultati, le implicazioni e le conseguenze derivanti dalle attività di ricerca scientifica volte a generare conoscenza, ma ci si aspetta anche che forniscano benefici concreti. Nella nostra scuola, abbiamo definito l’impatto della ricerca secondo tre livelli progressivi di maturità: diffusione, adozione e benefici. Per diffusione si intende la diffusione dei risultati e delle scoperte tra gli stakeholder, l’adozione è l’uso dei risultati della ricerca da parte degli stakeholder e i benefici sono le conseguenze di questa adozione.

Perché l’impatto è così importante per la ricerca?

La ricerca è spesso accusata di essere autoreferenziale, cioè di «parlare» solo ai membri della comunità accademica senza fornire un contributo significativo alla società in generale. Al contrario, la ricerca può avere un impatto molto più ampio e significativo del previsto. Pertanto, è fondamentale illustrare tali impatti a un pubblico più ampio, richiedendo ai ricercatori di imparare a valutare e condividere il valore del loro lavoro con un maggior numero di stakeholder.

Qual è l’approccio alla valutazione dell’impatto nella School of Management?

Nel 2017, abbiamo iniziato un percorso nella School of Management per sviluppare una cultura della valutazione dell’impatto della ricerca. Questo percorso ha comportato una riflessione sul quadro di valutazione, lo sviluppo di un metodo e la raccolta e l’analisi delle valutazioni di impatto della ricerca. Abbiamo iniziato esaminando la letteratura per le valutazioni d’impatto, intervistando esperti e interagendo con il nostro comitato consultivo internazionale per definire il nostro quadro. Il quadro comprende i tre livelli di maturità (diffusione, adozione e benefici) e cinque settori degli stakeholder (istituzioni, imprese, studenti e docenti, cittadini e comunità accademica). Il secondo passo è stato l’adozione del quadro, avviata inizialmente nel 2019 con una serie di 16 progetti pilota, che si sono poi estesi a una serie più ampia di progetti (42 nel 2020; 43 nel 2021).

L’idea convenzionale di «impatto» ha senso in un modello lineare: i cambiamenti o le scoperte nella scienza e nella ricerca dovrebbero causare cambiamenti nella società, ma i quadri di valutazione dell’impatto sono generalmente molto più complessi, può spiegare perché?

La valutazione dell’impatto della ricerca è più complessa perché l’impatto non è lineare. Alcuni elementi hanno un impatto su una delle parti interessate, causando effetti indiretti su altre parti interessate. Ad esempio, i risultati della ricerca adottati dalle istituzioni pubbliche possono andare a beneficio dei cittadini, oppure i risultati diffusi agli studenti possono essere adottati in seguito, quando gli studenti sono professionisti all’interno delle aziende. Pertanto, la rete di impatto è intrecciata. Vedere il legame tra i settori e il livello di maturità e come un’iniziativa possa influenzare altre aree di impatto richiede un quadro in grado di riunire tutti gli elementi. Facciamo un esempio. Quando si pubblica un articolo accademico, c’è una diffusione all’interno della comunità accademica, ma se lo si condivide in classe, vi è anche un impatto sugli studenti; se si usa nella formazione aziendale, quel nuovo progetto di ricerca può diventare il seme di un potenziale progetto aziendale. Quindi da una singola azione – la diffusione della ricerca tra la comunità accademica – si può avere un impatto su più stakeholder a diversi livelli.

In che misura questa analisi d’impatto deve essere effettuata ex ante, durante la pianificazione dell’attività, e in che misura ex post?

La valutazione dell’impatto è uno strumento utile in ogni momento di un progetto di ricerca. Abbiamo visto colleghi adottarlo nel presentare proposte per un progetto dell’UE o un’iniziativa di ricerca interna. Questo perché l’impatto è sia ex ante che ex post. La cosa più importante è immaginare il potenziale impatto ex ante, che aiuta a stabilire le aspettative e l’obiettivo del progetto. La valutazione ex post mira invece a misurare i risultati ottenuti in termini di impatto, monitorare i risultati delle attività pianificate e dimostrare i risultati effettivi. Pertanto, non c’è un solo momento per l’analisi d’impatto; è sempre bene misurarlo prima, durante e dopo l’iniziativa di ricerca.

L’impatto è «originale» o costruito nel tempo? Abbiamo bisogno che i nostri dottorandi siano «impattatori nativi» o è un orientamento che può essere incoraggiato e sostenuto nel tempo?

La cultura dell’impatto non è nativa. È qualcosa per cui i dottorandi e i ricercatori in generale dovrebbero ricevere una formazione. In effetti, alcuni impatti sono facili da progettare e ottenere, ma gli impatti di livello superiore sono più impegnativi e richiedono un’attenta considerazione, quindi è importante costruire un impatto nel tempo. In effetti, è difficile ottenere tutto con un unico nuovo programma di ricerca. Per quanto riguarda i dottorandi, è probabilmente qualcosa che dovremmo condividere con loro e su cui incoraggiarli a riflettere. Abbiamo avviato questo approccio durante l’ultima Summer School AIiG (Associazione Italiana Ingegneria Gestionali) tenuta dal Politecnico di Bari nel settembre 2021, in occasione della quale abbiamo condiviso il framework con più di 50 dottorandi italiani e abbiamo chiesto loro di applicarlo alla loro ricerca di dottorato. I dottorandi sono rimasti positivamente sorpresi dagli esiti inaspettati di questo esercizio di valutazione. Diffondere la cultura della valutazione d’impatto della ricerca è qualcosa che dobbiamo fare a tutti i livelli.

Transizione alle tecnologie verdi nei Paesi emergenti: come la ricerca può aiutare a indirizzare le risorse

Selezionare le aree geografiche e le tecnologie verdi per il finanziamento di successo di una crescita economica sostenibile è un compito difficile, soprattutto nei Paesi emergenti. La ricerca accademica è fondamentale per fornire strumenti a supporto delle istituzioni pubbliche e private in questo compito.

 

Enrico Cagno, Full Professor in Industrial Systems Engineering, School of Management, Politecnico di Milano
Giulia Felice, Associate Professor in Economics, School of Management, Politecnico di Milano
Lucia Tajoli, Full Professor in Economics, School of Management, Politecnico di Milano

Di recente, la crisi del COVID ha portato alla luce nell’opinione pubblica in che misura la ricerca è per molti versi fondamentale per la sopravvivenza della comunità. Ciò è parso estremamente evidente per le discipline con un impatto diretto e riconosciuto sulla vita umana e sullo sviluppo. Tuttavia, l’impatto diretto e indiretto della ricerca accademica in molte altre aree e discipline potrebbe essere considerevole per il benessere delle persone e l’evoluzione delle società in numerosi ambiti.

Un caso importante, particolarmente rilevante nell’attuale fase economica, è il ruolo della ricerca accademica nel fornire analisi e metodologie che possano supportare le istituzioni pubbliche e private nel veicolare e utilizzare in modo appropriato le risorse in paesi, regioni, settori per favorire una crescita economica equa e sostenibile.

Un esempio pertinente riguarda le risorse a sostegno della transizione dei Paesi verso le tecnologie verdi. I finanziamenti per il clima svolgono un ruolo fondamentale nella lotta al cambiamento climatico e nella promozione di una crescita sostenibile dal punto di vista ambientale nelle economie in transizione e in via di sviluppo. Un presupposto per avere successo è la capacità di selezionare quei paesi in cui il sostegno agli investimenti green non va a scapito degli investimenti privati, ma apre invece spazio alla loro espansione, in linea con il potenziale di mercato esistente. Diverse banche e istituzioni operano con questo obiettivo e, come è noto, gran parte dei finanziamenti di Next Generation EU è destinata al Green Deal europeo. Contemporaneamente, il vertice Cop26 di Glasgow ha evidenziato ancora una volta l’inevitabile dimensione globale della transizione green e la posizione asimmetrica delle economie in via di sviluppo e mature a causa del loro diverso stadio di sviluppo.

Una questione importante nel mantenere i diversi approcci delle economie in via di sviluppo e mature verso le tecnologie green è che in molti casi non è facile sostenere la transizione green nei paesi in via di sviluppo a causa della mancanza di informazioni adeguate sull’accesso e sulle opportunità offerte dalle tecnologie. I finanziamenti potrebbero essere allocati in modo errato, vale a dire, potrebbero essere convogliati laddove eliminano gli investimenti privati o dove non vi è alcun potenziale per la diffusione dell’investimento nella nuova tecnologia dopo il sostegno iniziale. È qui che la ricerca diventa utile. È possibile sviluppare metodologie e strumenti a supporto delle istituzioni nella selezione di aree e tecnologie per un finanziamento di successo.

In questo contesto e a questo scopo, la ricerca del SOM può contribuire a sviluppare un quadro concettuale e fornire metodologie per ottenere una valutazione complessiva della disponibilità di paesi, regioni o settori ad adottare tecnologie verdi, classificando paesi o aree in termini di esposizione a queste tecnologie. In un recente progetto sviluppato per la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), l’obiettivo finale era quello di cogliere la misura in cui i paesi interessati potrebbero trarre vantaggio dal finanziamento delle tecnologie green, in particolare quei paesi in via di sviluppo ed emergenti per i quali i dati sulla diffusione di queste tecnologie sono scarsi o non disponibili. La creazione e l’utilizzo di una tecnologia da parte di un Paese o di un’impresa è il presupposto per la sua diffusione ed eventuale adozione. Pertanto, per beneficiare della promozione degli investimenti verdi, il paese target dovrebbe già disporre di un livello e di un mix adeguati di utilizzo e produzione della tecnologia verde. Questo mix dipende dalla situazione economica complessiva e dal livello di sviluppo del Paese, come indicato, ad esempio, dal reddito pro capite, dalla capacità produttiva installata e dal livello di tecnologia nei prodotti a economia chiusa. Non esiste una definizione o misurazione specifica universalmente accettata della diffusione di una tecnologia. Il commercio internazionale di prodotti che incorporano una tecnologia specifica rivela la presenza di tale tecnologia nei paesi commerciali. Pertanto, il commercio è spesso utilizzato nella letteratura economica per tracciare la diffusione della tecnologia. I vantaggi dell’utilizzo di dati commerciali e metodologie avanzate per elaborarli sono che sono affidabili e disponibili per la maggior parte dei paesi a un livello di categoria di prodotto molto raffinato e per un lungo arco di tempo.

Seguendo questo approccio, i ricercatori del SOM hanno utilizzato i dati commerciali e pubblici ufficiali dei “green goods” (come definiti dall’Organizzazione mondiale del commercio e dall’OCSE) che coprono tutti i paesi per valutare la potenziale diffusione e adozione di tecnologie “verdi”, costruendo una serie di indicatori per misurare la maturità del mercato e la capacità di produzione di un paese per un determinato prodotto. Sulla base di questi indicatori, è stata sviluppata una sequenza di passaggi per identificare l’opportunità di azioni di successo. La metodologia è stata poi discussa e migliorata durante l’attuazione del progetto con gli esperti della BERS che l’avrebbero utilizzata, per poi essere validata con gli esperti del Paese sull’effettiva diffusione dei prodotti analizzati in termini di domanda e capacità produttiva.

La BERS utilizzerà la metodologia sopra descritta come strumento per selezionare i potenziali obiettivi del finanziamento, ovvero il binomio paese-tecnologia. La metodologia è facilmente replicabile su dati pubblicamente disponibili e quindi idonea ad orientare l’ente nelle sue scelte. La BERS è di proprietà di una settantina di paesi dei cinque continenti, nonché dell’Unione Europea e della Banca Europea per gli Investimenti. Ciò implica che le sue attività hanno un impatto su una vasta popolazione, di imprese, che saranno sostenute finanziariamente dalla BERS per l’adozione/produzione di tecnologie verdi, e di cittadini che trarranno vantaggio da una crescita sostenibile e da una migliore qualità della vita grazie all’adozione da parte delle imprese di tecnologie verdi.

Il progetto potrebbe potenzialmente incidere su diversi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Salute e Benessere, Acqua pulita e servizi igienico-sanitari, Energia accessibile e pulita, Città e comunità sostenibili, Consumo e produzione responsabili, Azione per il clima) nella misura in cui dovrebbe supportare la diffusione delle tecnologie verdi e merci nei paesi in via di sviluppo ed emergenti.

 

Space Economy: verso una nuova frontiera per l’innovazione e la sostenibilità

La combinazione di tecnologie spaziali e digitali rappresenta una forza pervasiva che abilita una innovazione di tipo cross-settoriale, ed al contempo rende il mondo più sostenibile. Tuttavia le opportunità tecnologiche sono solo un terreno fertile che per concretizzarsi necessita di strategie manageriali ed imprenditoriali per il rinnovamento strategico di organizzazioni consolidate e per la creazione e crescita di startup innovative

 

Angelo Cavallo, Assistant Professor in Strategy & Entrepreneurship, School of Management, Politecnico di Milano

La Space Economy è un fenomeno di frontiera dell’innovazione e della sostenibilità che si concretizza nella combinazione di tecnologie spaziali e digitali utili a sviluppare opportunità di business che danno la possibilità a molte imprese, in svariati settori, di accrescere la propria competitività su scala globale attraverso l’innovazione a tutti i livelli – dal prodotto/servizio, ai processi, sino al modello di business complessivo.

Il valore economico generato dall’uso combinato di tecnologie dello spazio e digitali è stimato per circa 371 miliardi di dollari nel 2021 (Satellite Industry Association). Tuttavia, il valore della Space Economy va oltre una stima di mercato e si distingue per la possibilità di innovare in tanti ambiti ed al contempo contribuire a rendere il nostro pianeta più sostenibile attraverso l’integrazione dei dati terrestri e satellitari, alla base di nuovi servizi space-based.
Mediante delle mappe globali di copertura del suolo ad alta risoluzione, i climatologi possono sviluppare modelli climatici e capire come sta evolvendo il clima sulla superficie terrestre. Tramite immagini multispettrali e radar, combinate con tecniche di machine learning e deep learning è possibile oggi creare modelli predittivi circa la deforestazione. Il monitoraggio tempestivo e continuo delle dinamiche della foresta è fondamentale per l’attuazione delle politiche di conservazione. Un altro campo di applicazione dei dati satellitari è nel monitoraggio dell’inquinamento. Un caso ormai molto noto riguarda il monitoraggio dei livelli di inquinamento durante il periodo di lockdown dovuto alla pandemia Covid-19. Ad oggi moltissime di queste analisi vengono fatte tramite dati provenienti da sensori a terra, largamente diffusi nel territorio europeo. Le tecnologie satellitari sono complementari e utili in aree dove non vi siano sensori terrestri.

Un numero sempre maggiore di studiosi inserisce la combinazione di tecnologie digitali e dello spazio tra i driver che possono abilitare il raggiungimento dei Sustainable Development Goals (SDGs), strumento adottato a livello globale per indirizzare le attività economiche e sociali verso il raggiungimento di obiettivi di sostenibilità.
Ad esempio, servizi space-based contribuiscono al SDG 7 “Affordable and Clean Energy” che si prefigge di garantire l’accesso all’energia per una più vasta platea di utenti e può essere favorito attraverso sistemi di monitoraggio remoto degli impianti in luoghi in cui condizioni atmosferiche e altri fenomeni naturali possono portare ingenti danni all’infrastruttura e dove la manutenzione può risultare difficoltosa.

Lo sviluppo di un mercato delle space economy e di soluzioni space-based passa però necessariamente dalla strutturazione e esplorazione di nuovi modelli di business ripercor­rendo tutta la catena del valore, da chi sviluppa i servizi a chi crea nuove in­frastrutture fino agli utilizzatori finali di tali servizi che possono rendere più efficienti le loro operations e/o creare nuovi prodotti. Innovare i modelli di business tradizionali e muoversi verso una logica di platformization, servitization e open innovation è fondamentale per far sì che i nuovi servizi space-based abbiano impatto economico, ambientale e sociale su larga scala.

 

Il Politecnico di Milano vince la fase italiana della CFA Research Challenge 2022

Cinque ingegneri della School of Management battono Federico II di Napoli e l’Università degli Studi di Pavia con l’analisi finanziaria di Reply e si preparano alla regionale EMEA. La finale globale si terrà il prossimo 16 maggio.

 

Il team della School of Management del Politecnico di Milano vince la finale italiana della CFA Research Challenge 2022, competizione mondiale di finanza targata CFA Institute e promossa nel nostro Paese da CFA Society Italy con il prezioso supporto di FactSet Italia e Kaplan Schweser.

La finale si è svolta in presenza nell’headquarter milanese di Reply martedì 1° marzo e ha visto il coinvolgimento di dieci atenei, 50 studenti e oltre 30 professionisti. Alla fase italiana, coordinata da CFA Society Italy, hanno partecipato i team rappresentanti le seguenti università: Università Cattolica, Politecnico di Milano, Ca’ Foscari di Venezia, Università di Roma Tor Vergata, Università di Firenze, Università di Bologna, Libera Università di Bolzano, Università di Pavia, Università Politecnica delle Marche e Università di Napoli Federico II.

Gli studenti Gianluca Dente, Alberto Gegra, Andrea Rampoldi, Alessandro Criniti e Francesco Saverio Pirolo, sotto la guida dei docenti Laura Grassi e Marco Giorgino e del mentor CFA Alberto Mari, hanno presentato la loro analisi finanziaria sul titolo di Reply a una giuria di sei esperti del settore finanziario: Mauro Baragiola, Luca Forlani, CFA, Marco Greco, Paolo Perrella, CFA, Patrizia Saviolo, CFA, e Carla Scarano. Il secondo e terzo posto sono stati assegnati rispettivamente l’Università di Napoli Federico II e l’Università degli Studi di Pavia.

Il Politecnico di Milano proseguirà direttamente per la finale regionale EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa), che si terrà il prossimo 28 aprile. A testimonianza dell’elevata qualità dei nostri studenti e dei professionisti che li seguono, già nel 2011, 2014 e 2016 l’Italia si è aggiudicata la finale regionale EMEA.
La finale mondiale, invece, si disputerà il 16 maggio 2022, mettendo a confronto i vincitori di EMEA, America e Asia Pacifico, e i vincitori verranno ufficialmente proclamati il 17 maggio 2022.

“CFA Society Italy, nella sua attività pluriennale, ha costruito un’intensa relazione con le università italiane per promuovere i principi di integrità ed eccellenza professionale presso le giovani generazioni”. Ha affermato il coordinatore del progetto, Giuseppe Quarto di Palo, CFA. “Siamo felici di poter offrire alle università e ai loro talenti l’opportunità di misurarsi in una competizione realistica, volta a riprodurre l’esperienza di un ufficio in ricerca di società di gestione o di case di investimento. Ai migliori studenti offriamo, inoltre, borse di studio per accedere al Programma CFA, al fine di ottenere una certificazione globalmente riconosciuta nel settore finanziario”.

La Research Challenge è una iniziativa che incanala verso obiettivi importanti nel mondo della formazione e delle accademie. Diventa sempre più rilevante avvicinare gli studenti al mondo del lavoro, combinando le conoscenze accademiche con le tecniche e gli strumenti utilizzati dai professionisti del settore finanziario. Inoltre, vogliamo dare risalto alle nostre eccellenze universitarie italiane a livello europeo e mondiale”. Ha commentato Giuliano Palumbo, presidente CFA Society Italy. “Questo progetto non potrebbe esistere senza il prezioso contributo dei volontari dell’associazione e dei partner che hanno sostenuto l’iniziativa FactSet, Kaplan Schweser e Reply, società oggetto di ricerca da parte degli studenti”.

Michael Jordan sosteneva che il talento fa vincere le partite, ma l’intelligenza e il lavoro di squadra fanno vincere i campionati. Mi congratulo con gli studenti del Politecnico di Milano che hanno dimostrato non solo competenze tecniche sopra la media, ma anche e soprattutto affiatamento e spirito di cooperazione mirati a raggiungere la vittoria finale” ha sottolineato Stefano Di Rosa, CIIA, Senior Sales Rapresentative di FactSet Italia, sponsor dell’edizione italiana della CFA Research Challenge dal 2016.

Anno dopo anno la competizione permette ai migliori talenti delle università italiane di mettersi alla prova con professionisti di altissima caratura, di approfondire i fondamentali dell’equity research, di sviluppare soft skill e di confrontarsi tra di loro”. Hanno commentato i docenti del Politecnico di Milano, Laura Grassi, Assistant Professor of Investment Banking, e Marco Giorgino, Full Professor of Financial Market and Institutions. “Siamo molto orgogliosi della vittoria della nostra squadra, che ripaga dei grandi sacrifici i nostri cinque membri, e che a loro volta li rende un riferimento per i futuri colleghi/e del prossimo anno. Questo è per loro il miglior ingresso nel mondo professionale e per il nostro ateneo un ulteriore riconoscimento della nostra qualità. Ora guardiamo all’EMEA, con voglia, impegno e desiderio di replicare il medesimo risultato”.

La CFA Research Challenge è stata sicuramente la sfida più dura della nostra vita, e allo stesso tempo l’esperienza più stimolante sia a livello professionale che a livello personale. È stata un’opportunità incredibile che ci ha permesso di lavorare a stretto contatto con il nostro mentor CFA Alberto Mari, e con i nostri docenti Laura Grassi e Marco Giorgino, che ringraziamo di cuore. Ringraziamo anche la CFA Society Italy per aver reso possibile tutto questo e non vediamo l’ora di portare alto il nome del nostro paese in EMEA” queste sono le prime parole espresse dopo la vittoria dal team del Politecnico di Milano.

 

I cittadini la sanno più lunga?

Un team di scienziati hanno chiesto ai cittadini di valutare l’impatto sociale e scegliere quale ricerca sostenere. Ecco cos’hanno scoperto.

 

Diletta Di Marco, PhD Student in Management Engineering – Innovation and Public Policy 

La scienza si adopera per migliorare le condizioni dell’Umanità e della natura. Tuttavia, non è sempre facile capire come individuare la ricerca capace di soddisfare le esigenze più impellenti. Per tanto tempo la direzione della scienza è stata decisa unicamente da scienziati professionisti mediante peer review. Esistono però nuove iniziative di democrazia partecipata che stanno tentando di assecondare il desiderio dei cittadini di assumere un ruolo attivo nelle decisioni importanti in ambito scientifico. Ad esempio, un’amministrazione locale danese ha chiesto ai cittadini di scegliere tramite votazione online i progetti di ricerca medica da finanziare.[1] Anche il Canadian Fathom Fund ha scelto di finanziare gli scienziati che presentano i propri progetti su piattaforme di crowdfunding e che raccolgono online almeno il 25% del budget prefissato.[2] 

In un mondo che affronta sfide sociali, ambientali ed economiche senza precedenti, l’idea alla base di queste iniziative è quella di coinvolgere i destinatari principali dei problemi e delle loro conseguenze – ossia i cittadini.

Mentre gli scienziati, gli istituti di ricerca e i finanziatori stanno sperimentando nuove modalità per collaborare attivamente con i cittadini, una delle perplessità è il fatto che la definizione di questione ad alto impatto sociale è problematica e soggettiva. Inoltre, il meccanismo utilizzato per coinvolgere attivamente i cittadini nel processo di definizione dell’agenda può generare preconcetti oppure conferire un’influenza sproporzionata ai gruppi più ricchi e potenti.

Per queste ragioni, la valutazione dell’impatto della ricerca è fonte di emozione per scienziati professionisti, agenzie finanziatrici e politici: ognuno di essi desidera individuare nuovi criteri per giudicare la sostenibilità e il valore della ricerca. Questi integrano quelli tradizionali, più incentrati su prerequisiti quali età, genere, esperienze pregresse nella ricerca e nei progetti nello stesso campo di ricerca.

Nel tentativo di esaminare quest’area tanto importante quanto inesplorata, un team di ricerca della nostra School of Management ha studiato le modalità con cui l’opinione pubblica valuta l’impatto sociale e sceglie di concedere o rifiutare il sostegno alla ricerca scientifica. Il team è composto da Chiara Franzoni e Diletta Di Marco del Politecnico di Milano, in collaborazione con Henry Sauermann di ESMT Berlin.

Il team ha selezionato quattro autentiche proposte di ricerca che hanno raccolto attivamente dei fondi sulla piattaforma Experiment.com. I progetti riguardavano settori molto diversi, e spaziavano dagli studi ambientali sulla diffusione delle lontre in Florida, passando per studi sociali sull’orientamento sessuale e i divari di retribuzione, fino a studi per la ricerca di una cura per la malattia di Alzheimer e il Covid-19. Hanno reclutato oltre 2300 cittadini su Amazon Mechanical Turk e chiesto loro di valutare uno dei quattro progetti in base ai tre criteri normalmente utilizzati nella valutazione delle ricerche: i) impatto sociale, ii) merito scientifico e iii) qualifiche del team.
Successivamente, hanno chiesto ai cittadini se avevano un interesse o un’esperienza diretti del problema che la ricerca stava tentando di risolvere (es. un familiare affetto dalla malattia di Alzheimer in fase di valutazione di un progetto che studiava una cura per l’Alzheimer), e infine hanno chiesto ai cittadini se il progetto in questione andasse finanziato o meno. A tale scopo, hanno utilizzato due meccanismi di voto differenti: i) una raccomandazione semplice e gratuita a finanziare o meno il progetto (voto senza costi) e ii) una piccola donazione destinata al progetto (voto con costi), che i valutatori potevano effettuare scegliendo di non incassare un bonus da 1 USD fornito dal team. Alla fine della giornata, il team ha quindi devoluto i bonus donati a progetti di ricerca autentici.
Il team ha poi analizzato le risposte con modelli statistici ed econometrici, come pure con una codifica qualitativa delle risposte testuali.

Le analisi hanno rivelato tre risultati fondamentali:

  1. In primo luogo, i cittadini hanno posto una forte enfasi sull’impatto sociale. Erano più propensi a sostenere un progetto se gli attribuivano un impatto sociale elevato, anche se a loro avviso il merito scientifico o le qualifiche del team erano ridotti. Un’analisi complementare delle opinioni fornite sotto forma di risposte aperte ha corroborato la suddetta prospettiva. I cittadini tendevano a concentrarsi sull’importanza percepita del problema (es. dimensione della popolazione interessata, gravità del problema), prestando meno attenzione alla capacità del progetto di risolvere il problema.
  2. In secondo luogo, il sistema di voto adottato ha influenzato notevolmente la composizione dei votanti. Il voto con costi ha fatto sì che a votare fossero persone con un livello d’istruzione e di reddito superiori. Se ne deduce che i meccanismi che impongono anche solo un piccolo costo personale spingeranno i cittadini coinvolti a rinunciare ai vantaggi dell’inclusione e della rappresentatività.
  3. In terzo luogo, i cittadini che avevano un interesse personale nel problema affrontato dal progetto erano più propensi a votare a favore del progetto, indipendentemente dal meccanismo di voto utilizzato (con o senza costi). Tuttavia, non sembravano sopravvalutare le aspettative in termini di impatto sociale del progetto. Di conseguenza, il crowdsourcing può conferire un potere maggiore a gruppi di interesse e membri dell’opinione pubblica con interessi personali nella ricerca. Al tempo stesso, persino i cittadini con un interesse personale nel progetto sembravano essere in grado di valutare l’impatto sociale in modo oggettivo, se veniva loro richiesto di farlo indipendentemente dall’espressione del proprio sostegno al progetto stesso.

Le scoperte di questo ampio progetto di ricerca contribuiscono al progresso del dibattito accademico in varie aree, tra cui la gestione delle comunità online (facendo luce sulla correlazione tra i meccanismi di voto, l’auto-selezione e la letteratura che confronta il pubblico e i contributi degli esperti con il finanziamento scientifico).
Soprattutto, tali scoperte hanno un’utilità pratica e immediata per politici, agenzie finanziatrici e gruppi d’interesse che lavorano per promuovere la democrazia partecipata.

Considerando che i tradizionali meccanismi di finanziamento della ricerca così come quelli di revisione si concentrano su ciò che potrebbe andare storto e non dedicano la giusta attenzione ai potenziali vantaggi, questi risultati indicano che le valutazioni dell’impatto sociale da parte dei cittadini non sono necessariamente “migliori”, tuttavia potrebbero fornire una prospettiva diversa e potenzialmente complementare.

 

[1] https://www.sdu.dk/da/forskning/forskningsformidling/citizenscience/afviklede+cs-projekter/et+sundere+syddanmark Accesso effettuato il 15 novembre 2021.

[2] https://fathom.fund/ Accesso effettuato il 15 novembre 2021.

P.E.A.S: la app per conoscere l’impatto ambientale della moda

Un sistema intelligente che integra tracciabilità sociale e ambientale dei capi d’abbigliamento con la gamification: P.E.A.S – Product Environmental Accountability System è un innovativo progetto realizzato grazie al supporto di Regione Lombardia dalla School of Management del Politecnico di Milano, dalle aziende MOOD, 1TrueID e WWG, in collaborazione con WRÅD

 

Nuova frontiera nel campo della comunicazione per la sostenibilità del settore moda e abbigliamento, la tecnologia P.E.A.S. non solo rende facilmente visibili per tutti informazioni sull’origine e impatto dei nostri vestiti ma, grazie ad un algoritmo, è anche in grado di comunicarci di quanto l’iniziale costo ambientale di quello che indossiamo viene ammortizzato nel tempo grazie al nostro amore ed utilizzo – incentivandone quindi, con un gioco, un uso duraturo nel tempo.

Ogni secondo l’equivalente di un camion carico di vestiti viene bruciato o gettato in discarica. I problemi sociali ed ambientali causati dall’industria della moda derivano dal fatto che noi tutti siamo stati indotti a disconnetterci emotivamente dai capi che compriamo” afferma Matteo Ward, CEO di WRÅD ed ideatore iniziale di P.E.A.S. “Tutti da anni ci ricordiamo dell’importanza di amare i nostri vestiti e di viverli a lungo per avere un impatto positivo sull’ambiente ma poco, o nulla, è cambiato – anzi! Da questa necessità l’idea di creare P.E.A.S., un gioco intelligente per contrastare in modo innovativo la sovrapproduzione e il sovraconsumo di vestiti”.

La tecnologia P.E.A.S offre ai clienti la possibilità di connettersi con i propri vestiti attraverso lo smartphone, di interagire con loro e di monitorare in tempo reale quanto il nostro modo di viverli può avere un concreto impatto positivo sul loro costo ambientale. Per far questo P.E.A.S. lavora ed elabora dati scientifici ottenuti, per questo primo progetto pilota, grazie ad un Life Cycle Assessment, seguito dalla società Process Factory, che ha calcolato l’impatto ambientale di tutti i passaggi produttivi necessari a trasformare un fiocco di cotone in una felpa. Un’analisi della catena produttiva, tracciata in una blockchain a ridotto consumo energetico, che ha restituito quindi una fotografia del costo ambientale del prodotto rispetto a 13 aree d’impatto diverse, dal cambiamento climatico al consumo idrico, che P.E.A.S. usa ed elabora per aiutarci a comprendere il reale valore della felpa e per ispirarci a viverla a lungo.

Ad ogni interazione con i propri utenti P.E.A.S. riconosce infatti da quanto tempo la felpa è stata utilizzata, restituisce aggiornamenti rispetto alla relativa diluizione del suo costo ambientale, premia comportamenti virtuosi legati al suo utilizzo e ricompensa, in primis, la scelta radicalmente rivoluzionaria di non averla abbandonata. In media, nel mondo, un capo di abbigliamento viene gettato dopo solo 7 utilizzi. Un consumo eccessivo, incompatibile con qualunque strategia di sviluppo sostenibile contemporanea, che deve essere contrastato.

E’ questo l’obiettivo comune che ha motivato questa partnership unica tra la School of Management del Politecnico di Milano, le aziende Mood, 1TrueID e WWG e WRÅD, uniti nella loro diversità di competenze e funzioni dalla volontà di portare la relazione tra persone e vestiti ad un nuovo livello di connessione, per il bene della società e del pianeta.

Dai risultati della nostra ricerca scientifica sulle cause della non sostenibilità del sistema moda e lusso emerge come sia impossibile raggiungere gli obiettivi di sostenibilità di lungo termine senza il contributo attivo di tutti gli attori coinvolti. Pensare che la responsabilità del cambiamento sia in capo ad un determinato soggetto della filiera moda è sbagliato e potenzialmente anche controproducente. Con P.E.A.S. per la prima volta abbiamo fatto il tentativo di mettere assieme tutti gli attori, dai brand di moda ai fornitori a monte lungo la filiera, fino al cliente finale. Solo con un atteggiamento responsabile e collaborativo sarà possibile un cambio di passo per ottenere risultati ambiziosi in tempi brevi” (Alessandro Brun, Professore Ordinario di Quality Management e Supply Management, School of Management del Politecnico di Milano).

P.E.A.S. è una tecnologia che si rivolge sia alle aziende, con design e applicazioni personalizzabili, che, in futuro, al pubblico finale. “La si può definire innovazione solo quando è sostenibile e impatta positivamente sulle persone, sulla comunità e sul nostro ambiente” (Mohamed Deramchi, CEO e founder di WWG).

Il progetto è stato supportato da Regione Lombardia con il bando Fashiontech, misura che sostiene i progetti di ricerca e sviluppo finalizzati all’innovazione del settore “Tessile, moda e accessorio”, secondo il principio della sostenibilità, dal punto di vista ambientale, economico e sociale.

 

Parte Green SUIte: la sfida per la sostenibilità che impegna 60 squadre aziendali

Agos, Gruppo Enercom, Sparkasse, Gruppo Tea, la School of Management del Politecnico di Milano, animati dall’Osservatorio Startup Intelligence, promuovono e premiano i comportamenti virtuosi fuori e dentro l’azienda in collaborazione con la startup Up2You.  

 

Parte Green SUIte, la sfida per l’ambiente che coinvolge i dipendenti di Agos, Gruppo Enercom, Sparkasse, Gruppo Tea e la School of Management del Politecnico di Milano, in un percorso volto a sensibilizzare, educare e attivare comportamenti virtuosi sulla sostenibilità, con il coinvolgimento di Up2You, start up innovativa e azienda certificata B Corp, che promuove lo sviluppo sostenibile.

Il progetto è nato da un’idea di Agos e Up2You in uno dei tavoli di lavoro della settima edizione dell’Osservatorio Startup Intelligence, uno dei 46 Osservatori della School of Management del Politecnico di Milano, rivolto allo sviluppo dell’open innovation e alla contaminazione con le startup. Green SUIte ha l’obiettivo di valorizzare le tematiche legate alla sostenibilità, in linea con gli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e gli ESG, coinvolgendo attivamente e in modo divertente i dipendenti delle società partecipanti. La reazione è stata molto positiva e circa 600 dei 5.000 dipendenti totali hanno risposto organizzandosi in 60 agguerriti team.

Con Green SUite le squadre saranno impegnate per 12 settimane in quiz e missioni da superare, volte a sviluppare cultura e consapevolezza sulla sostenibilità, fuori dal paradigma per cui essere sostenibili possa essere faticoso o noioso. Ingaggiando i partecipanti in piccole azioni quotidiane, come la cucina creativa per ridurre lo spreco alimentare, la ricerca e l’acquisto di prodotti sfusi, a km zero, di stagione, o la mobilità condivisa, oppure un utilizzo più virtuoso delle tecnologie, si sviluppa in tutti i partecipanti una maggiore consapevolezza circa l’impatto ambientale di ogni singola azione, per essere più eco-sostenibili dentro e fuori dall’azienda, e si rilegge la quotidianità in un’ottica nuova. E’ un esempio la missione “Passa al lato oscuro!”, in cui i partecipanti saranno esortati a usare la modalità scura su pc e telefono. “Il nero si sa, è chic! Ma oltre a essere cool (e farti sentire più cool), la dark mode riduce il consumo di energia e quindi, le emissioni di CO2”. Difficile a questo punto non seguire il suggerimento ricevuto su Green SUite!

Green SUIte si configura come una piattaforma digitale innovativa multi azienda basata sullo spirito di squadra e il coinvolgimento di team aziendali in azioni sostenibili, alla cui base c’è il prodotto Play di Up2You, unica azienda in Europa che, oltre a essere autorizzata a gestire Crediti di Carbonio certificati VERRA e Gold Standard, lo fa utilizzando la Blockchain.

Questo progetto è diventato ben presto un virtuoso caso di Open Innovation, approccio che, complice anche la situazione pandemica, sta dimostrando alle imprese sempre più l’importanza dell’ecosistema esterno per l’innovazione e dando prova che spesso la collaborazione è lo strumento chiave per dare alla luce soluzioni in grado di portare effettivo cambiamento e impatto in azienda e nella società.

I dati delle Ricerca 2021 dell’Osservatorio Startup Intelligence parlano chiaro: più di un terzo delle grandi imprese italiane già collabora con le startup, registrando trend positivi rispetto agli anni passati. Un dato veramente confortante per l’intero ecosistema innovativo italiano che rivela un cambio di paradigma in atto e la crescita in dimensione e in casi di successo – afferma Alessandra Luksch, Direttore dell’Osservatorio Startup Intelligence. Il progetto Green SUIte, è stato reso possibile dalle attività sviluppate dall’Osservatorio Startup Intelligence per favorire l’open innovation nelle imprese e grazie alla vivace community di aziende partner che lo caratterizza. L’iniziativa è davvero la dimostrazione che nessuno innova da solo e che la collaborazione porta velocemente risultati concreti e benefici diffusi.”

Donne tra cura e lavoro: cosa possiamo imparare dalla pandemia


Un progetto di ricerca congiunto tra l’università Cattolica e il Politecnico di Milano per studiare l’impatto del Covid sulla vita delle donne lavoratrici

 

A partire da Marzo 2020, il progetto CAREER (CARE for womEn woRk), finanziato dal Fondo Integrativo Speciale per la Ricerca e nato dalla collaborazione tra l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia e Centro di Ricerca sul Lavoro “Carlo Dell’Aringa”-CRILDA) e la School of Management del Politecnico di Milano (Dipartimento di Ingegneria Gestionale), ha voluto indagare in profondità i vissuti delle donne lavoratrici durante la pandemia per identificare ambiti e soluzioni di intervento. Il progetto ha coinvolto 14 ricercatori e ricercatrici dei due atenei milanesi. Mercoledì 1 Dicembre sono stati presentati i primi risultati della ricerca durante l’evento “Donne tra lavoro e cura. Cosa possiamo imparare dalla pandemia”.

Le referenti del progetto Claudia Manzi, docente di Psicologia sociale presso l’Università Cattolica, e Cristina Rossi-Lamastra, docente di Business and Industrial Economics alla School of Management del Politecnico di Milano, raccontano come i risultati del progetto restituiscano un quadro estremamente complesso sul lavoro femminile nell’ultimo anno e mezzo.

Il lavoro da casa durante la pandemia ha avuto, infatti, significati ed effetti duplici per le donne lavoratrici. Da un lato, si è trattato di un’opportunità per avere maggior equilibrio vita-lavoro e una migliore performance sul lavoro stesso. Dall’altra però, le prescrizioni di genere che vedono le donne protagoniste (quasi del tutto solitarie) della gestione domestica e familiare hanno inibito la conciliazione lavoro e famiglia in un unico confine spaziale, quello domestico. Questo ha avuto conseguenze negative non tanto sulla performance lavorativa, quanto più sui livelli di stress e benessere mentale delle donne lavoratrici.

Come racconta la Prof.ssa Manzi: “Le cause di questa situazione sono il combinato disposto di ciò che accade sul piano culturale, relazionale e logistico-organizzativo. Dal punto di vista culturale, l’adozione, ancora in larga parte inconsapevole, di modelli stereotipici circa il ruolo delle donne nel mondo del lavoro e nella sfera familiare, ha rappresentato senz’altro un grande ostacolo per le lavoratrici”.

Tali modelli stereotipici – conclude la Prof.ssa Rossi-Lamastra  – si traducono in un’ineguale allocazione delle risorse: con il progetto CAREER, infatti, abbiamo visto come alle donne sia mancato più frequentemente uno spazio adeguato al lavoro da casa rispetto agli uomini”.

Gli stereotipi di genere sono stati poi aggravati dai pochi e mal formulati aiuti provenienti dalle istituzioni e dalle organizzazioni, dallo scarso supporto dei partner in alcuni casi, e da soluzioni poco adeguate allo svolgimento del loro lavoro in termini di spazio domestico.

Certamente il quadro è complesso, ma visti gli orientamenti futuri dell’organizzazione del lavoro in Italia per favorire la ripresa e la tenuta del lavoro femminile, occorre guardare il lavoro da casa in modo meno semplicistico, e soprattutto, fornire alle donne lavoratrici una visione identitaria più forte rispetto al loro ruolo nelle organizzazioni e nella società. Il lavoro da casa, infatti, non deve diventare un mezzo per allontanare le donne dalla vita professionale e dalla piena realizzazione della loro identità di lavoratrici.

Il progetto di ricerca CAREER (CARE for womEn woRk) è ancora in corso. Per saperne di più, è possibile visitare il sito ufficiale al seguente link: https://projectcareer.it/

Si rimanda inoltre a recenti articoli che hanno raccontato più estensi sul progetto recentemente pubblicati da Il Sole 24 Ore e IoDonna

Il progetto HAwK tra i vincitori di Switch2Product | Innovation Challenge 2021

Il progetto HAwK proposto da Domenico Nucera (Dottorando del Dipartimento di Ingegneria Gestionale), Luca Bertulessi (Ricercatore del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria) e Tommaso Maioli (Alumnus del Politecnico di Milano) ha vinto il Grant Switch2Product, nella categoria “Industry Transformation“, classificandosi tra i 26 team vincitori su un totale di 250 progetti presentati al programma S2P organizzato da PoliHubTechnology Transfer Office del Politecnico di Milano e Officine Innovazione di Deloitte.

HAwK è un acceleratore hardware per l’analisi di dati provenienti da sensori ad elevato data rate con lo scopo di ridurre costi e consumo energetico, abilitando Intelligenza Artificiale “on edge”.

Il premio di 30.000 euro servirà per lo sviluppo tecnologico del progetto che verrà realizzato con la scientific advisory dei Proff. Marco Macchi e Luca Fumagalli del DIG e del Prof. Salvatore Levantino del DEIB.

Domenico Nucera ha iniziato il Dottorato di Ricerca in Management Engineering nel 37° ciclo e lavora da 2 anni presso il Laboratorio Industry 4.0 del DIG. Luca Bertulessi è ricercatore presso il Laboratorio ARPLab del DEIB.
HAwK potrà quindi favorire anche lo sviluppo di attività cross-disciplinari tra i due citati laboratori di DIG e DEIB.

La cerimonia di premiazione si è svolta al MADE Competence Center Industry 4.0, nel campus Bovisa del Politecnico di Milano.

 

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“From data science to data culture: the emergence of analytics-powered managers”: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #7 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

In questo numero intitolato “From data science to data culture: the emergence of analytics-powered managers” affrontiamo il tema della cultura dei dati che impone, tra le altre cose, anche un ripensamento dei modelli organizzativi e di business.

Ne abbiamo parlato con Carlo Vercellis, che spiega come le tecnologie digitali e gli algoritmi per analizzare i dati abbiano giocato un ruolo cruciale nell’evoluzione umana e nella trasformazione del nostro modo di pensare e di vivere.

Lato imprese, il potenziamento della cultura dei dati è indice generale della necessità di far fronte ai cambiamenti dello scenario competitivo, argomenta Giuliano Noci. E, secondo Filomena Canterino, questo nuovo approccio porta con sé anche la revisione dei modelli organizzativi e di leadership.

Nelle “Stories” raccontiamo lo straordinario risultato ottenuto dagli Hub di quartiere di Milano contro lo spreco elementare: il progetto, di cui la School of Management è partner dal 2017, ha vinto la prima edizione del prestigioso premio internazionale Earthshot Prize per le migliori soluzioni per proteggere l’ambiente nella categoria “un mondo senza sprechi”.
A seguire facciamo il punto sull’impatto della nostra ricerca con alcuni dati relativi al Research Impact Assessment, lo strumento che la Scuola ha recentemente implementato a questo scopo con riferimento a diversi stakeholder e la società in generale.
Infine il progetto Erasmus+ WiTECH (Entrepreneurship for Women in Tech) che ha l’obiettivo di promuovere la presenza femminile nel settore ICT.

 

 

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I numeri precedenti:

  • # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”
  • Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses”
  • #2 “Being entrepreneurial in a high-tech world”
  • #3 “New connections in the post-covid era”
  • #4 “Multidisciplinarity: a new discipline”
  • #5 “Inclusion: shaping a better society for all”
  • #6 “Innovation with a human touch”