Da capo contabile ad abilitatore strategico: l’evoluzione del CFO

«Se il pilota di un’azienda è il CEO, il ruolo di co-pilota spetta senz’altro al CFO». La dichiarazione di Matteo Rinaldi, CFO di Sandoz Italia e già allievo della Graduate School of Business del Politecnico di Milano, esprime bene il ruolo centrale che oggi rivestono i direttori finanziari negli organigrammi aziendali. Il Chief Financial Officer negli ultimi cinque-sei anni ha conosciuto un’evoluzione molto rapida, che l’ha portato a una sempre maggiore partecipazione ai processi decisionali. Matteo Rinaldi ne ha parlato recentemente nel corso di una presentazione online dell’International Part Time MBA del MIP Politecnico di Milano.

Le quattro funzioni principali della sezione finanziaria di un’azienda possono essere viste come una piramide con alla base l’elaborazione dati e, man mano che si sale, la rendicontazione e il controllo, fino al vertice che è costituito dal supporto al processo decisionale. «Fino a qualche anno fa le prime tre funzioni erano preponderanti. Negli ultimi tempi, invece, la partecipazione ai processi decisionali ha assunto un peso sempre maggiore, a discapito delle altre tre» ha spiegato Matteo Rinaldi. «Elaborazione dati, rendicontazione e controllo hanno perso peso non solo in proporzione alla ‘Business partnership’ ma anche in valori assoluti. Infatti, una buona parte di quelle attività è migrata verso servizi centralizzati a livello aziendale. Ciò fa sì che nelle aziende multinazionali i team finanziari di ciascun paese siano numericamente più snelli che in passato, e che le attività dei CFO siano ora molto più focalizzate sul business».

Oggi il Chief Financial Officer misura il proprio successo sulla base dell’impatto che la sua attività ha sul business, piuttosto che sulla semplice accuratezza delle cifre e della rendicontazione. Questa evoluzione non va però intesa come spostamento da un modello a un altro, ma come l’aggiungersi di nuove funzioni a quelle originarie. «In Sandoz abbiamo sintetizzato questo processo con la frase ‘We drive the business to create value’. La base del nostro lavoro resta la capacità di leggere i dati, ma oggi dobbiamo anche essere capaci di interpretarli per prendere decisioni strategiche. Il primo passo è l’accuratezza dei dati, aspetto non banale, se è vero che, secondo una ricerca dell’Harvard Business Review, circa il 47% delle raccolte di dati contiene almeno un errore critico. In secondo luogo dobbiamo ‘unire i puntini’ dell’organizzazione, approfittando della trasversalità del settore finanziario rispetto alle altre funzioni aziendali. Accanto alle hard skills, sono poi importantissime anche le soft skills, necessarie, oltre che per gestire le persone, anche per negoziare e per capire tutti gli aspetti della propria azienda».

In sintesi, nel passato il CFO era soprattutto un contabile: il suo approccio era descrittivo e guardava al passato. Oggi è diventato un business partner, che deve essere dotato di competenze analitiche e adottare un approccio predittivo, quindi rivolto al futuro. «Il prossimo passo è rappresentato dal diventare un abilitatore strategico. Abbiamo cioè bisogno di usare sempre più le tecnologie digitali, di adottare un modello operativo agile. E di trasformare l’azienda in una ‘data driven organization’: oggi abbiamo a che fare con un’enorme quantità di dati, ma molti non sanno come impiegarli. Sandoz, in collaborazione con il Politecnico di Milano, sta usando strumenti di Intelligenza Artificiale per costruire un modello previsionale che le consenta di produrre con maggiore precisione la giusta quantità di ciascuno dei suoi 800 prodotti».

 

 

Fluida, integrata e mista: ecco l’editoria del futuro

Il New York Times ha recentemente annunciato di aver totalizzato nel 2018 ricavi per 700 milioni di euro solo dal digitale. Per contro, a livello globale il fatturato dell’industria dell’informazione è in calo e in molti Paesi, Italia compresa, le testate giornalistiche faticano a interpretare il contesto comunicativo attuale in modo economicamente sostenibile. Come si sta trasformando il mercato dell’informazione?

«Questa situazione non mi sorprende e ha radici molto profonde – afferma Giuliano Noci, docente di Strategia & Marketing presso la School of Management del Politecnico di Milano e Prorettore del Polo territoriale cinese del medesimo ateneo –. In passato qualcuno si aspettava che l’advertising da solo potesse sostenere un’attività di business online, previsione che si è rivelata una chimera. Inoltre, vent’anni fa molti editori hanno reagito all’arrivo del digitale tagliando i costi e abbassando di conseguenza la qualità. Si è rivelato un errore, perché le news oggi sono diventate delle commodity: la notizia non ha più un valore in sé, la può dare chiunque. Bisognava e bisogna saper offrire profondità di analisi, capacità di leggere i fenomeni nel medio e lungo periodo. Gli americani hanno lavorato proprio in questa direzione, rafforzando sempre più la componente di interpretazione rispetto alla pura e semplice notizia di attualità, e facendo leva sulla reputazione derivante dal prestigio dei loro marchi».

Il web non ha portato a un abbassamento della qualità, piuttosto a una polarizzazione fra chi bada solo al prezzo e quindi cerca contenuti gratuiti e chi invece cerca la qualità ed è disposto a pagarla. «C’è poi anche una questione organizzativa, su cui l’Italia è particolarmente in ritardo – prosegue Noci –. Fare informazione oggi non significa solo produrre dei testi ma lavorare in una prospettiva multimediale, il che implica newsroom centralizzate in luogo delle redazioni giornalistiche separate dalle aree web».

Alla base del successo di alcuni modelli editoriali c’è quindi anche un ripensamento del rapporto fra il mezzo digitale e il giornalismo “tradizionale” in un’ottica di maggiore integrazione delle due componenti.
Inoltre si assiste al rovesciamento di alcuni flussi di lavoro, con le notizie che vengono costruite direttamente per i canali digitali e le versioni cartacee dei giornali che fungono da raccolta o “best of” di contenuti apparsi in digitale anche diversi giorni prima.

Non stupisce, dunque, che alcune testate iconiche del giornalismo mondiale vengano rilevate e rilanciate da grandi imprenditori del web. Recentemente Marc Benioff, fondatore e Ceo di Salesforce, e sua moglie hanno annunciato l’acquisto del celebre settimanale Time. E dietro la rinascita del Washington Post c’è Jeff Bezos, che nel 2013 lo raccolse, pieno di debiti, dalle mani della famiglia Graham. A chi gli ha chiesto il perché di quell’acquisto, Bezos ha risposto che Internet ha distrutto la maggior parte dei vantaggi che i quotidiani avevano costruito nel tempo, ma ha offerto loro un regalo: la distribuzione globale gratuita. Per trarre beneficio da quel regalo, Bezos ha implementato un nuovo modello di business basato non più su un alto ricavo per lettore ma sull’acquisizione di un maggior numero di lettori.

Ma l’informazione in lingua inglese oggi trae vantaggio anche dalla numerosità dell’audience e da una sua diversa predisposizione culturale? «No – risponde Giuliano Noci –. Se i media italiani tenevano vent’anni fa, non c’è motivo per cui non possano farlo anche nel contesto attuale, in cui anzi, a saperle cogliere, ci sono prospettive di maggiore crescita. La mia esperienza nell’omnicanalità mi fa dire che la presunta immaturità dei consumatori è in realtà un’inadeguatezza dell’offerta, che poi alla lunga finisce per influenzare negativamente anche la domanda. Se in Italia e in Europa molti editori sono in difficoltà è perché non si sono adeguati ai cambiamenti della società e non offrono qualcosa che viene percepito come valore».

Il digitale è in crescita ma, secondo dati R&S Mediobanca, il 91,6% del giro d’affari mondiale proviene ancora dalla carta stampata. Inoltre, editori interamente digitali come Buzzfeed annunciano tagli, mentre molti nuovi progetti editoriali nascono in forma mista carta-digitale.
L’editoria cartacea è allora destinata a sparire progressivamente o conserverà un suo ruolo? Risponde ancora il Professor Giuliano Noci: «Oggi prevale il modello misto, perché le persone prediligono una fruizione mista. Sbagliano sia gli integralisti del digitale sia quelli della carta. Tutti i più recenti studi ci dicono che i comportamenti di consumo vanno segmentati non sulla base degli individui ma del contesto di vita in cui gli individui sono calati. Così, non c’è chi preferisce in assoluto essere informato via radio, via tv, via web o leggendo un giornale, ma chiunque, in base al momento della giornata e della situazione in cui si trova, fruisce dell’uno o dell’altro mezzo. Si tratta di comportamenti molto fluidi che possono essere intercettati solo da un’offerta altrettanto fluida».

 

 

 

 

 

 

 

 

Milano va sempre più di moda

Dal 19 al 25 febbraio Milano è al centro del mondo. Il motivo? La Settimana della Moda, evento di portata internazionale che celebra uno dei fiori all’occhiello della città: sei giornate dense di incontri che richiamano professionisti e appassionati da ogni continente.

Il calendario della manifestazione, organizzata dalla Camera Nazionale della Moda Italiana e dedicata alla moda donna autunno/inverno 2019, è ricco di appuntamenti e prevede 60 sfilate, 81 presentazioni, 33 eventi, per un totale di 173 collezioni. Come già nelle ultime edizioni, non mancano manifestazioni aperte anche ai non addetti ai lavori che permettono al grande pubblico, e in particolare agli studenti del mondo fashion, di conoscere da vicino la realtà del Made in Italy, dalle grandi aziende che ne hanno segnato la storia fino ai talenti emergenti.

“Grande attenzione verso i nuovi talenti e l’internazionalità”, ha dichiarato Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda a proposito di questa edizione. “Sono molti i brand presenti a Milano per la prima volta, grazie al nostro supporto. Sostenere i nuovi talenti è uno dei nostri pillar, accanto alla sostenibilità”. Tra gli esordienti figurano Gilberto Calzolari e Tiziano Guardini, vincitori del Franca Sozzani GCC Award rispettivamente nel 2017 e nel 2018, che presenteranno le loro collezioni. Attesissimi anche i debutti di Marco Rambaldi per Marios, della stilista portoghese Alexandra Moura e del brand di Mayo Loizou e Leszek Chmielewsk. Quanto ai big, questa edizione è segnata dal ritorno di Gucci, Angel Chen e Bottega Veneta con Daniel Lee.

«L’evento milanese è una delle quattro grandi “settimane della moda” che si svolgono due volte all’anno nel mondo: le altre sono quelle di Parigi, Londra e New Yorkracconta Alessandro Brun, Direttore del Master In Global Luxury Management presso la School of Management del Politecnico di Milano –. Si tratta di un appuntamento importante sia per le grandi maison, sia per i giovani designer e per i brand emergenti, che hanno la possibilità di mettersi in mostra in un evento “dal vivo”. Inoltre, è un momento importante per l’intera città: le sfilate si svolgono in diverse location, spesso in zone riqualificate come Tortona, Garibaldi-Porta Nuova-Isola, piazzale Lodi, con grandi benefici anche per le attività commerciali locali».

Insomma, la moda milanese va, come confermano i dati dello scorso anno, ed è più viva che mai e in costante crescita. Le imprese presenti sul territorio cittadino sono 13mila, mentre la Lombardia – prima regione italiana nell’ambito fashion – ne conta quasi 34 mila. L’export di tessili del territorio lombardo ha sfiorato nei primi nove mesi del 2018 i 10 miliardi di euro, con una crescita del 3,6% rispetto all’anno precedente. La sola città di Milano ha superato i 5 miliardi, con una crescita del 6,4%, confermandosi leader assoluta.

La Settimana della Moda dello scorso febbraio ha portato al capoluogo un guadagno di 19 milioni di euro nel solo settore dell’ospitalità, in crescita di 2 milioni rispetto all’edizione del 2017. L’impatto economico complessivo che coinvolge i settori di indotto (trasporti, musei, negozi, ristoranti) ha toccato i 160 milioni di euro, coinvolgendo 137mila addetti e 18mila imprese.

L’edizione 2019, partendo da queste premesse, ha voluto rafforzare, in accordo col Comune di Milano, la connessione tra moda e territorio utilizzando per gli eventi degli spazi inusuali come la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale o lo Spazio Cavallerizze del Museo della Scienza e della Tecnologia. Prevista inoltre la presentazione, da parte della Camera Nazionale della Moda Italiana, il film “Welcome to Milano”, realizzato da The Blink Fish, in cui un gruppo di modelle conduce gli spettatori alla scoperta di Milano e dei suoi luoghi più segreti.

Passano gli anni, quindi, ma la moda a Milano non passa mai di moda. «Però è bene guardare con attenzione ai cambiamenti – racconta ancora Alessandro Brun –. I grandi brand stanno prestando sempre più interesse ai costi rispetto a un tempo. E poi ci sono le nuove tecnologie e le nuove abitudini: Burberry ha lanciato la prima sfilata globale nel 2010 presentando la collezione autunno-inverno in diretta streaming su sette diversi siti e proiettata in 3D nei teatri di cinque diverse città, e qualche anno dopo ha offerto la possibilità di acquistare nei negozi gli stessi capi esibiti contemporaneamente sulle passerelle, rivoluzionando di fatto il paradigma che vedeva le sfilate presentare gli abiti con largo anticipo rispetto alla vendita. Ma non credo che questo possa mettere in crisi l’appuntamento milanese, che vanta una storia di oltre 60 anni. La città, infatti, resta un punto di riferimento dell’intero sistema moda italiano, il cui fatturato complessivo è passato dai 52 miliardi di euro del 2011 ai 54 miliardi del 2017 grazie al contributo di 46mila aziende e oltre 400mila lavoratori. La qualità dei nostri prodotti e la capacità artigianale italiana sono ancora delle eccellenze a livello internazionale».

Milano, la capitale delle startup

Una città a misura di innovazione. Lo dicono i numeri: in un panorama italiano sempre più dinamico, Milano si conferma il luogo più amato dai giovani imprenditori. All’ombra della Madonnina, infatti, si concentra ben il 15% delle nascenti PMI innovative. Su 9.742 realtà imprenditoriali, fra startup e piccole imprese, nate in Italia nell’ultimo anno, ben 1.505 sono sorte a Milano. Ma, al di là del numero, è forse ancora più importante l’altissimo tasso di sopravvivenza (ben il 98%) delle nuove imprese, a riprova di un ambiente molto favorevole allo sviluppo di nuovi business.

Le cifre sono state presentate di recente da Cristina Tajani, assessore al Lavoro del Comune di Milano, che ha anche sottolineato come quest’ultimo abbia investito dal 2012 al 2018 circa 11,5 milioni di euro destinati a nuove imprese. Nello stesso periodo, il fatturato generato da nuove attività è stato di oltre un miliardo di euro.

In Italia, Milano può quindi vantare un primato conquistato ormai da decenni e un ecosistema di servizi, istituzioni e infrastrutture che offrono agli imprenditori tutti gli strumenti necessari per far funzionare al meglio la propria impresa, non ultimo un più facile accesso al credito. Del resto, l’attrattività imprenditoriale del capoluogo lombardo è ormai consolidata e riconosciuta anche a livello internazionale. Nel 2016 il Financial Times aveva eletto Milano come la capitale italiana delle startup. Negli ultimi tre anni, poi, la città ha saputo capitalizzare l’esperienza di Expo 2015, che l’ha riproposta con successo sul palcoscenico mondiale. E, con il Regno Unito alle prese con la Brexit, numerose istituzioni e grandi aziende meditano di abbandonare Londra guardando proprio a Milano come loro prossima sede. D’altra parte, prestigiose multinazionali l’hanno già scelta da tempo per i propri uffici italiani: Microsoft, IBM, Google, Deloitte, Adecco, Gartner e molte altre.

Anche la Regione Lombardia fa la sua parte nel concedere prestiti e finanziamenti alle startup innovative: ne è un esempio concreto il bando Intraprendo, che offre fino a 65mila euro di finanziamenti e si inserisce in un Programma Strategico Triennale di ricerca e innovazione dal respiro più ampio con risorse complessive quantificabili in 750 milioni di euro.

A suffragare empiricamente questa consapevolezza diffusa del ruolo di primo piano giocato dalla Lombardia e, in particolare, da Milano all’interno dell’ecosistema startup italiano, sono anche i dati dell’Osservatorio Startup Hi-tech della School of Management del Politecnico di Milano. L’Osservatorio quantifica gli investimenti effettuati da investitori formali, quali fondi di Venture Capital, e informali, come Business Angel e piattaforme di Crowdfunding, in startup ad alto contenuto innovativo nei comparti Digital, Cleantech & Energy e Life Science.

Dal 2012, anno che ha visto sia la nascita dell’Osservatorio che la promulgazione del Decreto Startup Innovative da parte del Ministero dell’Innovazione e dello Sviluppo Economico, le startup hi-tech lombarde hanno raccolto un totale di oltre 600 milioni di euro, mentre quelle con sede nella provincia di Milano hanno superato i 550 milioni di euro di raccolta. Nel solo 2018, il capitale raccolto dalle 43 startup milanesi finanziate è stato pari a quasi 250 milioni di euro, intorno alla metà dei finanziamenti totali effettuati in Italia.

Oltre alla forte presenza di startup dall’elevata qualità e potenziale di crescita, in città è presente un articolato ecosistema di supporto composto sia da investitori, che con il loro apporto di capitale consentono alle startup di mettere a terra il loro potenziale di crescita, sia da accelerator e incubator, che si concentrano invece sulle realtà nella fase embrionale offrendo supporto e competenze per validare il modello di business.

Tali attori sono talvolta legati agli atenei del territorio, come il fondo di investimento Poli360 – che vede una partnership tra il Politecnico di Milano e il fondo di VC 360 Capital Partners per il finanziamento di idee tecnologiche – e PoliHub, incubatore e acceleratore del Politecnico di Milano, terzo incubatore di startup nel mondo secondo Ubi Index, società di ricerca internazionale specializzata nel settore.

Il terreno è quindi fertile per tutti gli aspiranti startupper che vogliono inserirsi in un tessuto economico e in una fitta rete di relazioni business destinata a crescere. Per conferma, si può chiedere al palermitano Giovanni De Lisi, che a Milano ha trovato l’occasione per fondare Greenrail, progetto basato su una traversa ferroviaria ecosostenibile ottenuta da materiale riciclato e che può già vantare un contratto negli Usa da 75 milioni di euro. Oppure al calabrese Osvaldo De Falco, che ha scelto Milano per la sua Biorfarm, vera e propria azienda “agricola digitale” che ha attirato l’attenzione del Sole 24 Ore grazie a un crowdfunding da record: chiedeva 80mila euro, ne ha ottenuti 300mila. E ora guarda all’estero.

Il richiamo esercitato da Milano, peraltro, non è limitato alle strette questioni di business: la moda, il cibo, il patrimonio artistico, l’offerta culturale la rendono una città in cui la vita è gradevole e stimolante. Un mix vincente.

Startupper si nasce o si diventa? Indubbiamente il talento e l’intuito sono fondamentali. Ma per fare l’imprenditore oggi servono anche competenze in tema di business e innovazione. Così se il PoliHub offre un ecosistema perfetto per incubare e far sbocciare nuove idee imprenditoriali, è sempre all’interno dell’Ateneo milanese, con la School of Management del Politecnico, che gli aspiranti startupper possono acquisire le competenze necessarie allo sviluppo di nuove idee imprenditoriali.

I programmi MBA ed Executive MBA, per esempio, integrano nel proprio programma corsi in ambito Startup & Strategy, ma esistono anche dei master specifici come l’Advanced Master in Innovation and Entrepreneurship, offerto in collaborazione con Solvay Brussels School.

Inoltre, la MIP Management Academy offre un ampio catalogo di corsi rivolti al pubblico executive che vuole esplorare il tema Entrepreneurship & Strategy.

 

Francesco De Lorenzis

 

Francesco De Lorenzis, candidato EMBA, è oggi CEO di Financière Fideuram SA a Parigi. Ecco la sua storia!

 

Perchè un MBA?

A più di 10 anni dalla Laurea in “Economia delle Istituzioni e dei Mercati Finanziari” ho iniziato a notare che il mondo lavorativo aziendale stava subendo un profondo cambiamento. Ecco che ho avvertito la necessità d’intraprendere un Executive MBA che mi consentisse una comprensione e una visione delle principali sfide e decisioni che un’azienda si ritrova ad affrontare. Inoltre l’MBA poteva garantirmi, contestualmente, un linguaggio adeguato per interloquire con profili eterogenei.

 

Come hai raggiunto la tua attuale posizione a Financière Fideuram?

La mia esperienza in Financière Fideuram mi ha portato a sviluppare un percorso di crescita professionale ed umano che è stato sempre guidato dal motto “tu fai il tuo dovere e poi lascia che siano gli altri a giudicarti”.
Seguendo sempre il mio motto di vita sono stato chiamato a ricoprire,  negli anni, il ruolo di Financial Controller e poi di Responsabile Investimenti della Società.
Durante tutti questi anni mi sono guadagnato la fiducia ed il rispetto dei colleghi e del Top Management ed ora sono sono stato scelto per guidare Financière Fideuram.
Ringrazio ancora Fideuram per l’opportunità e la fiducia, tutti i miei sforzi saranno mirati a soddisfare gli interessi dei stakeholders.

 

Qual  è la lezione più importante che hai imparato al MIP?

Non penso a una lezione specifica, ma all’apprendimento continuo di un linguaggio trasversale d’innovazione e trasformazione. La capacità di affrontare, analizzare e risolvere in tempi brevi problemi complessi, ricercando soluzioni non tradizionali e sviluppando una capacità di ragionamento laterale. L’affinamento costante delle tecniche per lo sviluppo di capacità per la gestione della multiculturalità dei team e dei contesti in cui l’impresa opera.

 

In che modo applichi gli insegnamenti dell’MBA nella tua attuale posizione?

Lavorando prima di tutto su me stesso, per essere percepito dai miei colleghi non come un Capo ma come un Leader.
Come tale, le mie personali sfide sono: fissare una direzione strategica che sia chiara a tutti i membri della Società; incoraggiare le idee innovative e concordare tempi e modalità di lavoro con i colleghi, sostenere e sviluppare le capacità dei colleghi; costruire un team coeso che affronti gli eventuali conflitti senza lasciarsi travolgere da essi; delegare quanto possibile per creare un clima di fiducia e per responsabilizzare; elogiare i dipendenti per la qualità del loro operato, rilasciando dei feedback e quindi fornire reali opportunità di carriera.

 

Che consiglio daresti agli allievi MBA che vogliono avanzare professionalmente?

Il mio consiglio è che se oggi si vuole intraprendere o si è intrapreso un Executive MBA solo per ottenere un attestato da citare in un CV, si stanno perdendo tempo e soldi.
La competizione sul mercato del lavoro non è solo sugli attestati ma sul saper gestire le idee, innovare dialogando da leader con i colleghi ed il top management.

 

 

 

 

 

 

IL POLITECNICO DI MILANO TRA I MECENATI DEL XXI SECOLO

In una cerimonia tenuta presso la sede del Parlamento Europeo di Bruxelles, il Politecnico di Milano ha ricevuto il premio Mecenati del XXI Secolo, “per aver trasformato il campus in un museo a cielo aperto con mostre permanenti e temporanee”. A ritirare il premio il Prorettore Delegato, prof. Emilio Faroldi.

L’obiettivo dei premi “Mecenati del XXI Secolo” è rafforzare la visibilità, il riconoscimento e la reputazione di quelle istituzioni, aziende e investitori privati che contribuiscono attivamente allo sviluppo delle arti e della società.

Giunto alla terza edizione, il premio ha visto finora la partecipazione di oltre 300 aziende ed istituzioni da 32 paesi dei 5 continenti. Tra i premiati di quest’anno nella categoria Istituzioni, oltre al nostro Ateneo, figurano il Ministero degli Affari Esteri, la FAO, la Banca Mondiale, Banca d’Italia e il Joint Research Centre della Commissione Europea.

Ideato nel 2016 da pptArt, in collaborazione con LUISS Business School, il programma nasce dalla constatazione che aziende ed enti coinvolti attivamente nel mondo dell’arte tendono ad avere maggior successo in termini di profittabilità e sembrano affrontare meglio molte sfide etiche, ambientali e sociali.

 

Il progetto artistico destinatario di questo prestigioso premio è La dimensione esterna della scultura, la mostra permanente di Gio’ Pomodoro al Campus Bovisa. 22 opere del grande scultore italiano si rincorrono in un paesaggio post-industriale, innestandosi tra le geometrie austere degli edifici della nostra università. Il risultato è una felice armonia di marmi, bronzi ed elementi architettonici.

Dalla fine degli anni Sessanta, Gio’ Pomodoro ha sempre creduto nella dimensione esterna della scultura, nella sua relazione con l’ambiente e con chi la usa, facendone luogo di incontro e di sosta per le persone. Pensava che il particolare linguaggio della scultura fosse assai prossimo a quello dell’architettura e della scienza, e che fosse urgente ricomporne l’unità originaria. Per questo la sua opera è caratterizzata da un coinvolgimento dell’ambiente, che si realizza attraverso un’interazione che muovendo dalla scultura attiva lo spazio esterno.

Crediamo che Gio’ Pomodoro rappresenti efficacemente la cultura politecnica. Scultore, diplomato geometra, studiava la poesia e la scienza, e considerava l’architettura una disciplina sorella. Ha realizzato gioielli e medaglie, ceramiche e mobili; ha disegnato e dipinto; ha lavorato il ferro e il poliestere, il bronzo e il gesso, le pietre e i marmi.

Grazie alla fondamentale collaborazione dell’Archivio Gio’ Pomodoro, siamo fieri di ospitare questo museo a cielo aperto, con la volontà di valorizzare il più possibile le sue opere, rendendole fruibili ai nostri studenti e alla città di Milano.

BENVENUTI SUL NOSTRO NUOVO SITO WEB

 

Abbiamo il piacere di informarvi che è  online il nuovo sito della School of Management.

Un sito che ha l’obiettivo di presentare la Scuola, mettendo in evidenza le caratteristiche distintive delle  sue due strutture “core” DIG e MIP. Verranno così messi in evidenza sia i servizi di ricerca e formazione che tutti gli eventi rivolti alla Community.

Il sito ha un forte taglio editoriale, che ci aiuterà a valorizzare le nostre expertise attraverso la condivisione dei contenuti della ricerca, dei contributi della Faculty e delle storie di successo di studenti e Alumni. Pensiamo che questo rappresenti un ulteriore passo in avanti per la School of Management, in linea col processo di integrazione tra le due anime della Scuola ormai avviato da anni. Da oggi saremo ancora più presenti sul panorama internazionale come un’unica entità.

È anche in questa ottica che abbiamo deciso di creare anche una versione del sito in cinese, disponibile a partire dai prossimi mesi.

Alessandro Perego, Direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale

Andrea Sianesi, Dean – MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business