I cambiamenti nella logistica a fronte del Covid-19

La pandemia Covid-19 ha imposto al settore della logistica, più che in altri, di adattarsi rapidamente alle nuove necessità dei territori, delle filiere e dei consumatori, sperimentando nuovi modelli collaborativi e organizzativi basati su flessibilità e digitalizzazione. Il punto di partenza per affrontare le prossime sfide.

 

Prof Marco Melacini, professore di Logistics Management, Direttore Osservatorio Contract Logistics “Gino Marchet”
School of Management Politecnico di Milano

 

La risposta all’emergenza che la popolazione sta vivendo vede in prima linea il sistema sanitario, a fianco del quale stanno lavorando altri comparti che forniscono i servizi essenziali. A garantire il loro funzionamento attraverso l’approvvigionamento di tutti i prodotti necessari, c’è la logistica, le cui origini in ambito militare hanno fornito i cromosomi per affrontare la sfida odierna. Sebbene siamo ancora in piena emergenza è utile cominciare a pensare alla “fase 2” e a come cambierà la logistica, soprattutto perché difficilmente il Paese riprenderà a funzionare come prima nel medio periodo e ci potranno essere diversi momenti di stop and go, magari con applicazione delle “zone rosse” a aree del Paese più limitate.

Il modo migliore per rispondere alla domanda su come cambierà la logistica è osservare la reazione mostrata nell’ultimo mese, che ha sconvolto la vita di ognuno e delle aziende, con particolare attenzione alla logistica della filiera farmaceutica e di quella alimentare, che hanno mantenuto una piena operatività.

In primo luogo, emerge l’importanza di adottare una strategia “agile” rispetto a una strategia maggiormente orientata alla minimizzazione dei costi in un contesto di domanda prevedibile. Concretamente questo significa lavorare con una maggiore ridondanza di risorse (in primis magazzini) per poter riallocare velocemente le scorte e superare le criticità, come lo stop delle attività, a livello locale. L’implementazione di tale strategia richiede anche un incremento della velocità decisionale, in cui le scelte devono essere sempre più data driven e dinamiche. Per la parte di pianificazione, un metodo adottato è stato lo smart working, la cui efficacia è stata maggiore per le aziende che avevano già sperimentato questa modalità di lavoro da remoto e che adottano tecnologie e software in cloud. Quest’ultime infatti facilitano l’accesso ai sistemi informatici da remoto e favoriscono l’incremento della visibility lungo la filiera.

Esiste poi una parte di attività che rimane forzatamente sul campo, come l’allestimento degli ordini e il trasporto. Su queste è fondamentale declinare il concetto di responsabilità sociale in termini di sicurezza del luogo di lavoro. Concretamente questo si è tradotto nella distribuzione dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) per tutti i lavoratori, nella frequente sanificazione dei luoghi di lavoro (magazzini, cabine dei mezzi di trasporto, ma anche risorse utilizzate come terminali o supporti di movimentazione come le cassette per la consegna dei farmaci), nel monitoraggio delle temperature corporee di tutte le persone prima dell’accesso al sito, oltre che nella revisione delle procedure operative (ad esempio per ridurre la condivisione di risorse, come le cuffie per il voice picking, o aumentare le distanze fra gli operatori). La riduzione dei “contatti” fisici sarà sempre più favorita dalla digitalizzazione della filiera, che consentirà ad esempio di evitare la stampa e la gestione cartacea dei documenti di trasporto.

La strategia “agile” si basa anche sul concetto di flessibilità, che consente di implementare velocemente le soluzioni più idonee per rispondere ai cambiamenti del contesto. In questa situazione le aziende sono riuscite ad essere flessibili grazie alla terziarizzazione della logistica e al modello di terziarizzazione adottato nel Paese. Alcuni operatori logistici hanno riallocato in poco tempo merci per oltre 25.000 m2 di occupazione di magazzino. La collaborazione orizzontale fra gli operatori della logistica conto terzi (un settore che vale oltre 84 miliardi di fatturato) è risultata e sarà sempre più fondamentale anche in un’ottica di sharing economy. La collaborazione ha significato l’impiego di camion/autisti fermi di operatori di altre filiere per gestire le crescite elevate della domanda e soprattutto i picchi improvvisi, generati nei consumi a fronte dei timori della popolazione. Analogamente è stato possibile spostare personale di magazzino da siti le cui attività si erano fermate, supplendo alla riduzione di capacità operativa a fronte di una fisiologica crescita dell’assenteismo. Il rapporto stretto fra azienda e lavoratore, tipico del modello cooperativo, ha favorito la comunicazione all’interno dell’azienda e la risoluzione di potenziali aree di rischio, oltre che una maggiore flessibilità operativa, volta a compensare parzialmente l’inevitabile perdita di produttività. Soprattutto si è passati ad una pianificazione giornaliera delle attività, lavorando in stretto contatto con le aziende committenti per allineare il più possibile la capacità logistica alla domanda di mercato. Tale attività è fondamentale per garantire la sostenibilità economica in un contesto a margini contenuti come la logistica conto terzi.

Il contesto che stiamo vivendo ha portato ad un modello di coordinamento specifico per le emergenze: riunioni frequenti di allineamento, adozione di scelte che nel breve periodo non sempre ottimizzano i costi (si pensi alla maggiore difficoltà di trovare i viaggi di ritorno o le distanze da rispettare in magazzino, a discapito della produttività) ma garantiscono la continuità del servizio, relazione di collaborazione con le aziende committenti che va oltre al contratto di outsourcing, con un approccio open book, e condivisione dei segnali di mercato e delle scelte operative.

A livello di macro-scelte strategiche, accanto all’analisi critica del livello di servizio da fornire in futuro in base alle riflessioni contingenti (ad esempio alcune aziende hanno ridotto il numero di consegne per punto di destino per ridurre la frammentazione degli ordini), emerge la centralità della capacità di consegna in ambito urbano, non solo a livello di consegne a domicilio (l’e-commerce ha fatto il salto definitivo per il suo sviluppo in Italia con crescite superiori al 50%) ma anche a livello di singolo punto vendita con la riscoperta del valore dei negozi di prossimità (spesso utilizzati anche come punti di allestimento per le consegne in ambito urbano in una prospettiva di omnicanalità). La stessa logistica urbana, con origine e destinazione all’interno della città, sarà sempre più importante. Sempre in ambito trasporto, si osserva lo sviluppo dell’intermodalità strada-ferrovia, fondamentale per superare i blocchi nel trasporto fra paesi della Comunità Europea, oltre che per gestire in futuro l’attraversamento/l’approvvigionamento di nuove “zone rosse”. Da ultimo l’automazione di magazzino, ad oggi ancora poco sviluppata, sarà sempre più rilevante anche per favorire il lavoro in luoghi protetti e con minore concentrazione di persone.

Tempi di attraversamento alle “frontiere” fra gli Stati Europei (fonte: sixfold.com/covid-19)

In conclusione, anche per la logistica non si tratta semplicemente di tornare alla “normalità”, ma di trovare nuovi equilibri che ci permetteranno di affrontare non solo questa sfida ma quelle future, quali il rischio di una recessione economica e la necessità di una sempre maggiore attenzione al tema del cambiamento climatico.

 

Resilienza digitale del Paese: il ruolo chiave della PA

La digitalizzazione è considerata uno dei pilastri su cui basare la ripresa post Covid-19, tanto per il settore privato che per quello pubblico. Alla PA spetta ora più che mai un ruolo chiave, complementare alle imprese, nell’adottare e guidare processi di digitalizzazione che possano generare benefici per cittadini e imprese, influenzando la capacità di innovazione di entrambi.

 

Luca Gastaldi, professore di Impresa e decisioni strategiche, e Direttore dell’Osservatorio Agenda Digitale
School of Management Politecnico di Milano

 

Nella Strategia 2025 presentata dal Ministro per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione lo scorso dicembre, le parole “salute”, “sanità”, “crisi” ed “emergenza” non appaiono mai. È una mancanza che salta agli occhi oggi, in tempi di #iorestoacasa, ma che è perfettamente comprensibile in un’ottica – quella di ieri – in cui il digitale è prima di tutto un motore per l’economia e la competitività. Anzi, da questo punto di vista il documento ha rappresentato un passo in avanti, ponendo un forte accento sulla sostenibilità sociale dell’innovazione tecnologica.

La crisi del Nuovo Coronavirus sta però rendendo ancor più evidente quanto a molti già chiaro: il digitale può rendere una società più resiliente, non solo più competitiva ed efficiente. Un Paese resiliente, meno fragile, è capace di reagire di fronte ai traumi e alle difficoltà, di resistere agli urti e di tornare il più velocemente possibile a uno stato di (relativo) equilibrio.
L’urto del COVID-19 è arrivato forte, e solo con la ricerca di soluzioni concrete ed efficaci – certamente nel breve, ma anche nel medio e nel lungo periodo – l’Italia potrà acquisire resilienza rispetto alla crisi presente e a quelle future.

Su quali direttrici agire per abilitare questo processo? Ognuno offre la propria ricetta e non ho certo la velleità di dare la mia. C’è tuttavia un ingrediente che mi sento di consigliare da aggiungere a tutte le ricette in circolazione: accelerare la trasformazione digitale della nostra Pubblica Amministrazione (PA).

 

La centralità della PA nella trasformazione digitale del Paese

L’Italia sembra aver finalmente capito che le tecnologie digitali rappresentano le nuove infrastrutture portanti del paese. Come nel dopoguerra lo Stato ha capito la centralità delle infrastrutture stradali per la crescita economica, progettandole e realizzandole in modo integrato, oggi — anche grazie al Coronavirus — si sta finalmente affermando la medesima visione di lungo periodo e si inquadra la trasformazione digitale come un’imperdibile occasione per realizzare il nuovo sistema nervoso su cui basare la crescita economica dell’Italia, non solo nella cosiddetta “fase 2” della gestione del Covid19, ma per tutti i prossimi anni.

La PA può e deve guidare questo processo, innescando percorsi di digitalizzazione pervasivi. Una PA più semplice e digitale potrebbe infatti:

  • incentivare la richiesta e l’utilizzo di servizi online da parte dei cittadini;
  • aumentare l’uso di internet;
  • incidere sulla progressiva diffusione di competenze digitali;
  • accelerare la digitalizzazione delle imprese.

In un’economia sempre più basata sui dati, se il patrimonio informativo pubblico fosse completamente digitale e interoperabile si aprirebbero opportunità immense per il paese. Se non adeguatamente presidiate, tali opportunità potrebbero essere velocemente colte da soggetti privati che, già oggi, sono capaci di esercitare un efficace ruolo di info-mediazione – in molti casi a discapito della collettività.

La PA deve prendere consapevolezza dell’enorme mole di informazioni e dati in suo possesso e della propria capacità di innescare processi di migrazione al digitale che non solo generino benefici per cittadini e imprese ma che possano influenzare lo spazio per innovare di entrambi. Quando riesce a fare squadra, la PA, grazie alla propria massa critica e alla sostanziale assenza di competitor, è in grado di scatenare processi di cambiamento che – se ben progettati e realizzati – hanno impatti dirompenti.

Mai come oggi è necessario rimettere in discussione il ruolo della PA nella creazione di valore tramite le tecnologie digitali. L’impresa privata è considerata da tutti come una forza innovativa e coraggiosa, mentre la PA è spesso bollata come un essere inerziale, indispensabile per aspetti “basilari”, ma troppo pesante o destrutturata per imprimere accelerazioni all’economia di un paese e concretizzarne la capacità di innovare. Diversi esempi dimostrano quanto tale dicotomia non sia sempre vera. È sufficiente pensare a internet, al protocollo HTTP, alla comunicazione cellulare e al GPS. Tutte queste fondamentali innovazioni tecnologiche sono state prodotte da PA coraggiose che, con un forte spirito imprenditoriale, hanno lavorato efficacemente con le imprese private, guidandole e sapendo gestire i relativi rischi. Così facendo, hanno avviato percorsi di trasformazione digitale che hanno creato incredibili opportunità di business.

La PA non è semplicemente una versione “sociale” e inefficiente del settore privato, ma è un attore chiave da concepire come complementare alle imprese nei processi di digitalizzazione. Se le imprese sono il “motore” dell’economia, la PA deve prendere consapevolezza di essere la “macchina” in cui tale motore funziona, viene indirizzato e valorizzato. Per rendere più digitale e resiliente l’Italia è necessario interpretare la sua PA come una delle più importanti piattaforme di innovazione su cui agire con decisione. Pensare alla PA solo come a un “corpaccione” improduttivo e burocratico, incapace di guidare la trasformazione digitale del resto del Paese, rischia di essere una profezia che si auto-avvera.

 

Come far correre la “macchina” pubblica? 4 elementi necessari

Oggi la PA italiana è ancora inefficiente, poco trasparente e attempata. Le tecnologie digitali rappresentano la leva più importante (se non l’unica) su cui agire per rendere le nostre amministrazioni capaci di bilanciare efficacia e sostenibilità, trasparenti nel loro agire e in grado di attrarre personale qualificato. Per poter correre, la “macchina” pubblica deve prima di tutto digitalizzare se stessa, accelerando le tante iniziative di switch-off in atto e ridisegnando interamente i processi mediante i quali i servizi pubblici sono gestiti ed erogati, in modo da sfruttare a pieno le potenzialità delle tecnologie digitali. È particolarmente importante digitalizzare, integrare e re-ingegnerizzare sia i processi di front-office che quelli di back-office, cambiando il modo di interagire tra l’amministrazione nel suo complesso e cittadini e imprese.

La digitalizzazione, l’integrazione e lo switch-off sono certamente fondamentali per consentire alla PA di guidare la trasformazione digitale del paese ma non bastano e, soprattutto, richiedono tempi molto lunghi per potere essere realizzati. Sono necessari almeno altri tre elementi complementari.

Per prima cosa la PA deve imparare a collaborare maggiormente con le imprese – da quelle più grandi fino alle startup o le PMI ad alto tasso innovativo. Senza una solida cinghia di trasmissione con il “motore dell’economia”, la macchina pubblica farà fatica a digitalizzarsi e non andrà molto lontano. Pertanto, è di vitale importanza ripensare il procurement pubblico, che sembra ancora vittima di un pregiudizio che lo vede come fonte di inefficienza (quando non di corruzione) piuttosto che di innovazione.

Le gare pubbliche sono ancora strutturate e gestite con la principale preoccupazione di prevenire ricorsi e contenziosi, mentre sono ancora troppo poche le PA che cercano di acquisire nel minor tempo possibile la migliore soluzione disponibile. Le imprese, dal canto loro, si concentrano non tanto sul proporre soluzioni efficienti e innovative, che diano reale valore al cliente pubblico, quanto nell’adempiere a ogni formalismo richiesto in fase di gara e prevenire ricorsi pretestuosi dei concorrenti. Così facendo sprecano le migliori energie a recitare liturgie che tutti sanno inutili. Il risultato di questa duplice spinta, alimentato dall’incertezza normativa, è che si finisce per allontanare dal settore pubblico quella parte di mercato sana e dinamica che potrebbe apportare competenze ed energie essenziali alla trasformazione della PA e dell’intero paese.

È urgente un impegno da parte di tutti per trasformare il procurement da ostacolo all’innovazione, quale è ancora in molti casi oggi, a potente leva che consenta a PA e imprese di collaborare maggiormente e meglio nel realizzare la trasformazione digitale dell’Italia. Il vero ostacolo non è la carenza di risorse, ma la povertà di competenze, progettualità e managerialità, che sono spesso risultato di un controllo politico eccessivo e non orientato ai risultati, bensì alla gestione del potere e a una ricerca miope e populista del consenso.

Ancora una volta, tuttavia, non è sufficiente saper collaborare con le imprese private e portare avanti efficaci iniziative di switch-off per rendere la PA capace di giocare un ruolo di primo piano nella digitalizzazione del paese. Switch-off e collaborazione con i privati devono essere indirizzati con in testa una chiara idea del futuro, in particolare delle opportunità offerte dalle tecnologie più dirompenti che, progressivamente, si affacciano sul mercato e dei vincoli legati a una loro efficace implementazione.

In questo momento storico pensiamo all’intelligenza artificiale, alla blockchain, ai big data analytics, all’Internet of Things, ecc. I vantaggi associati a un’efficace applicazione di tali soluzioni in ambito pubblico sono potenzialmente enormi e devono essere colti quanto prima. La PA non può permettersi di sprecare energie preziose nel perseguire iniziative di digitalizzazione obsolete e non può rimanere in balia dei fornitori semplicemente perché non conosce e sfrutta a pieno l’ecosistema di innovazione a cui potrebbe attingere.

È necessario pertanto che le PA avviino iniziative di open innovation, lavorando per essere maggiormente esposte a stimoli con cui mettere in discussione e cercare di migliorare la loro operatività. D’altro canto, non bisogna considerare le tecnologie emergenti come la panacea di tutti i mali. Sono necessarie risorse, competenze e consapevolezza di dove possano essere applicate con successo, per produrre risultati concreti e non infruttuosi “esercizi di stile”.

La PA deve insomma prendere consapevolezza che, invece che rincorrere con affanno il resto del mercato nell’applicazione dei nuovi trend tecnologici, può giocare un ruolo da protagonista a patto che esplori nuovi modi di creare valore con massicce dosi di pragmatismo e buon senso. L’equilibrio da mantenere tra la sperimentazione di nuove modalità di creazione di valore e il non perdersi dietro a ogni trend tecnologico è difficilissimo da mantenere e, pertanto, di vitale importanza.

C’è un ultimo elemento su cui è necessario lavorare per far correre pienamente la macchina pubblica: roadmap condivise di progressiva attuazione dell’Agenda Digitale – sia a livello nazionale che locale. Tali roadmap devono essere basate su solide evidenze empiriche, superare l’attuale parcellizzazione territoriale e tematica dei sistemi di monitoraggio e aprirsi a iniziative di benchmarking a livello territoriale e internazionale. Il Piano triennale e i cruscotti di monitoraggio di AgID e Team digitale hanno rappresentato dei grandi passi in avanti da questo punto di vista, ma molto può essere ancora fatto.

Più in generale, molte iniziative di digitalizzazione sono condotte senza veri e propri studi di fattibilità che ne valutino impatti e sostenibilità, evidenziando potenziali benefici da una parte e attività, tempi e costi del cambiamento dall’altra. È necessario monitorare con regolarità e in modo trasparente lo stato di attuazione dei progetti di innovazione digitale in ambito pubblico, evidenziando gli scostamenti rispetto agli obiettivi intrapresi, le eventuali criticità riscontrate nell’attuazione e le dinamiche di cambiamento dei bisogni dei territori. Altrimenti la macchina pubblica rischia di muoversi senza mappe precise e senza un cruscotto che le indichi a che velocità sta andando.

In sintesi, sembrano essere quattro gli elementi necessari a far sì che la PA giochi il ruolo chiave che può e deve giocare nella trasformazione digitale del paese:

  • accelerazione dello switch-off al digitale e del ridisegno dei processi di gestione ed erogazione dei servizi pubblici;
  • capacità di collaborare con le imprese – da quelle grandi alle PMI e/o startup innovative – mediante un ripensamento del procurement pubblico;
  • mantenimento di un delicato equilibrio nella sperimentazione pragmatica di tecnologie emergenti, evitando di disperdere energia in direzioni di digitalizzazione obsolete o troppo di frontiera;
  • sviluppo di un sistema di monitoraggio teso a fissare chiare roadmap di digitalizzazione sulla base di solide evidenze empiriche e in un confronto continuo con l’estero e tra i vari territori italiani.

Solo con questi quattro interventi si darà un senso ai tanti sforzi fatti finora, rendendo la macchina pubblica veramente pronta a correre e capace di fornire — grazie al digitale — resilienza al nostro Paese.

Reagire alla pandemia: serve una (nuova) politica industriale

La pandemia in corso mette in ginocchio l’economia globale, ma la storia insegna che superare lo shock è possibile: attenzione a nuove opportunità di business, flessibilità e innovazione, sostenute da una politica industriale attiva, sono le azioni indispensabili per reagire

 

Massimo G. Colombo, professore di Entrepreneurship and Entrepreneurial Finance
School of Management Politecnico di Milano

 

La pandemia generata dal coronavirus promette di mettere in ginocchio l’economia mondiale con conseguenze nefaste sul PIL di tutti i paesi, avanzati o meno.
Tuttavia la letteratura scientifica che ha analizzato l’impatto economico delle “tempeste perfette” precedenti all’attuale ci da motivi di speranza. Il sistema capitalista è resiliente e a rapidi crolli della domanda e della produzione segue, in tempi più o meno rapidi, la ripresa, che può essere più o meno vigorosa (si veda The Economist, 21-27 marzo, “Free exchange: from v to victory”).

Che cosa deve fare il governo italiano per rendere la ripresa post-pandemia la più rapida e vigorosa possibile?

Innanzitutto, aldilà delle misure eventualmente messe in campo dalla Commissione Europea, occorre non ripetere gli errori del passato e fare “tutto quello che serve”. Un primo imperativo, sul quale tutti concordano, è di dare sostegno a chi soffre un decremento significativo di reddito, in modo da sostenere la domanda aggregata ed evitare la disgregazione sociale del Paese. Va anche assicurata al sistema produttivo tutta la liquidità necessaria ad evitare la chiusura di imprese sane, temporaneamente in difficoltà, e la conseguente riduzione di lungo termine della capacità produttiva. Il fondo per il finanziamento delle garanzie sui prestiti concessi alle imprese è una misura che va nella giusta direzione. L’importante è di riaprire i rubinetti se la capienza del fondo si rivelasse insufficiente.

Tuttavia, bisogna andare oltre e disegnare una politica industriale attiva per la ripresa. La pandemia, oltre a uno shock negativo sulla domanda e sull’offerta, genera anche nuove interessanti opportunità di business, legate alla trasformazione dei modelli di consumo e del modo di fare impresa. La scoperta che il telelavoro può avere vantaggi unici e l’interesse, anche se forzato, dei consumatori per la spesa e i servizi di intrattenimento a domicilio, ne sono ovvi esempi.

In questa situazione, le piccole imprese, soprattutto le più giovani, sono posizionate in modo ideale per catturare tali nuove opportunità di business, grazie alla loro flessibilità e allo spirito di iniziativa degli imprenditori che le gestiscono, e possono rivelarsi un fondamentale elemento di forza e di dinamismo del sistema produttivo nazionale. Tuttavia, per esprimere il proprio potenziale di crescita, devono essere in grado di ristrutturare e modificare il proprio portafoglio di risorse, investendo in un’ottica di lungo periodo in prodotti e servizi innovativi e nella capacità di commercializzarli su scala globale. Uno studio sulle strategie di un campione di 340 start-up italiane ad alta tecnologia durante la crisi globale del 2008, realizzato dalla School of Management del Politecnico di Milano e coordinato dal sottoscritto, conferma questa visione. Nonostante il calo di domanda che in media tali imprese hanno vissuto tra il 2008 il 2010, le start-up che hanno investito massicciamente nell’innovazione dei prodotti e dei servizi e nell’internazionalizzazione dei mercati hanno avuto una crescita del fatturato in tale periodo superiore di 20 punti percentuali alla media.

È compito del governo italiano assecondare e facilitare i processi di trasformazione di tali imprese. Da un lato il governo deve assicurare che tali imprese abbiamo accesso, a condizioni competitive, alle risorse finanziarie, in particolare nella forma del capitale di rischio, necessarie a sopportare tali processi e a scalare il proprio business. Il fondo per l’innovazione della CDP è uno strumento ideale per questo scopo.

Dall’altro lato, è prevedibile che risorse umane ad alta competenza (manager, tecnici) verranno espulse da imprese grandi e piccole con modelli di business resi obsoleti dalla pandemia, e saranno disponibili nel mercato del lavoro. Tali risorse umane sono preziosissime per la crescita delle piccole imprese innovative. Il governo può facilitare il loro assorbimento da parte di tali imprese, ad esempio tramite il temporaneo azzeramento degli oneri sociali sulle nuove assunzioni di personale qualificato.

 

«Grazie all’EMBA oggi so affrontare l’emergenza mascherine»

PierPaolo Zani, alumnus del MIP e general manager di BLS, azienda produttrice di dispositivi a protezione delle vie respiratorie, ci racconta l’impatto che il coronavirus ha avuto sul business a livello umano e organizzativo. Spiegando che, con basi solide e una mission chiara, anche lo stress test più duro può offrire delle opportunità

Può un momento di grande stress, per un’azienda, tradursi in un’opportunità? Sì, se l’impresa ha basi organizzative solide e una chiara visione strategica del proprio business. In una situazione di di questo tipo si è ritrovata, nel giro di poche settimane, BLS, azienda italiana produttrice di dispositivi di protezione delle vie respiratorie, più comunemente noti come “mascherine”. «Già a fine gennaio, prima che il contagio da Covid-19 si estendesse all’Italia e al resto del mondo, gli ordini avevano subito un’impennata fino a quel momento impensabile», racconta PierPaolo Zani, general manager di Bls e alumnus dell’EMBA Part Time presso il MIP Politecnico di Milano. «Fino a pochi mesi fa la richiesta di mascherine era legata alla necessità di proteggersi da agenti inquinanti, all’interno delle industrie e i nostri clienti erano legati a quell’ambito. Questo ci ha posto un problema: come fare, in questo momento, a soddisfare la domanda dei nostri clienti consolidati, e al contempo far sentire la nostra vicinanza alla Protezione civile e al Paese?»

La sfida di BLS tra emergenze di oggi e tendenze di domani

Un dilemma non da poco, su cui Zani e il suo team hanno dovuto riflettere a fondo prima di prendere una decisione: «Siamo riusciti a trovare un equilibrio. E ci siamo riusciti rifacendoci alla nostra mission aziendale: proteggere le persone, e farlo bene». L’impennata di ordini rischiava di generare una serie di difficoltà organizzative: «Devo dire, però, che avevamo cominciato a osservare la situazione già da un po’ di tempo. È fondamentale porre un’estrema attenzione a tutti i segnali che potrebbero avere un impatto sul proprio business, anche quando si tratta di segnali minimi».

Sempre in un’ottica strategica, poi, diventa necessario prendere in considerazione i cambiamenti che potrebbero derivare dall’epidemia di Coronavirus: «Non sappiamo quanto durerà questa emergenza, a livello globale. Sappiamo però che l’utilizzo delle mascherine in Occidente potrebbe seguire quello che è il modello asiatico, caratterizzato da una maggiore diffusione a livello consumer di questi dispositivi, a prescindere dalla pandemia. Per tutto questo periodo, la sfida sarà tenere la barra dritta, ma a guidarci avremo sempre i principi della nostra mission». Ed è possibile farlo, chiarisce Zani, anche perché l’azienda ha compiuto delle scelte lungimiranti: «Abbiamo lavorato molto per stipulare dei contratti a lungo termine, che assicurano la nostra operatività, e possiamo contare sui nostri fornitori di back-up. Questa situazione è un autentico stress test: ma le basi sono solide, per questo stiamo reggendo».

Ma per Zani c’è un elemento che è ancora più importante, quello che fa davvero la differenza: «Le persone. Mai come ora veniamo ripagati dalla nostra etica, che ci impone di proteggere tanto le persone in generale, tanto quelle che lavorano con noi. In questa fase è fondamentale stabilire un dialogo con la produzione, rafforzare le norme d’igiene, assicurare un luogo di lavoro sicuro».

Un EMBA per mettere alla prova la propria dedizione

Zani, d’altra parte, ha sempre avuto un forte interesse nel ruolo che l’elemento umano svolge nell’impresa. «È stato questo, forse, l’aspetto che più di tutti mi ha spinto a iscrivermi all’EMBA Part Time del MIP. Sentivo l’esigenza di un miglioramento. Mi servivano strumenti nuovi, più efficaci, più approfonditi. Dovevo approfondire i principi del comportamento organizzativo. E sotto tutti questi punti di vista il master mi è stato davvero di grande aiuto». Non solo; il formato part time dell’EMBA ha messo anche alla prova l’impegno e la dedizione di Zani. Una sorta di piccolo stress test personale: «Il consiglio che do a chi si avvicina a questo master è di affrontarlo con il massimo impegno. Può essere impegnativo trovare un equilibrio tra vita lavorativa, privata e accademica; ma il ritorno, poi, in termini di competenze e opportunità di carriera, è altissimo. Vale davvero la pena dedicarcisi con tutte le proprie forze. Mi fa piacere poi ricordare che BLS ha un rapporto strettissimo con il Politecnico di Milano, con il quale stiamo supportando la nascita di una startup, spin-off dell’ateneo, e con cui abbiamo già collaborato per diversi workshop. E guardiamo sempre con molta attenzione ai talenti che incontriamo in aula», conclude Zani.

Non è mai troppo tardi per rialzarsi, non è mai troppo presto per prepararsi

Sebbene non sia possibile prevedere la durata della pandemia Covid 19, è essenziale non lasciarsi assorbire totalmente dalla gravità dell’emergenza e iniziare a pensare alla più efficace strategia per affrontare la fase di recupero.

 

Paolo Trucco, PhD, Centre for Risk and Resilience Management of Complex Systems
School of Management, Politecnico di Milano

 

La brace sotto la cenere

Nel pieno sviluppo della pandemia, con i numeri di nuovi infetti e decessi che crescono ancora di ora in ora, nel nostro Paese come in altre parti d’Europa e del mondo, sembra fuori luogo pensare al dopo; soprattutto al dopo delle attività produttive. Ma una società, una comunità, per vivere ha bisogno di cure e ha bisogno di beni e servizi, che al momento non è pensabile di poter garantire fuori da un modello di economia di mercato.
Dopo due settimane di blocco produttivo decretato dal Governo per la maggior parte dei settori industriali, molte aziende hanno dovuto sospendere ogni attività o hanno trovato soluzioni temporanee per garantire un minimo di continuità operativa. Anche le aziende che rientrano tra i cosiddetti settori essenziali o strategici operano comunque in condizioni di emergenza e quindi con livelli di prestazione fortemente degradati. Se guardiamo al tipico profilo di un evento di disruption operativa (figura 1), tutti, per un motivo o per un altro, ci troviamo in questi giorni nella fase di massimo impatto. Non sappiamo precisamente quanto durerà e per quanto potremo reggerla. Tuttavia, se l’industria e l’intera società italiana vogliono avere un futuro è essenziale non lasciarsi assorbire totalmente dalla gravità dell’emergenza presente e iniziare a pensare alla più efficace strategia per affrontare la fase di recupero, affinché sia veloce e piena. Occorre tenere viva la brace sotto la cenere. Occorre prepararsi per cogliere i primi segnali e trasformare in valore ogni opportunità che potrà presentarsi.

Figura 1. Profilo temporale di una perturbazione operativa con diverse capacità di recupero
Cosa dobbiamo aspettarci?

In questo momento nessuno è in grado, in coscienza, di tracciare quale sarà lo scenario in cui avverrà una ripresa delle attività economiche; tuttavia, alcuni elementi fondamentali sembrano delinearsi con una certa chiarezza:

  • Una ripresa della domanda e dell’offerta avverrà in tempi significativamente diversi in diverse parti del mondo; anche le velocità saranno diverse: per motivi strutturali, per la severità e ampiezza della pandemia o per le decisioni dei governi locali. In breve sarà una ripresa geograficamente asincrona.
  • Ovunque ci saranno imponenti sforzi di stimolo da parte delle istituzioni nazionali e sovranazionali; non è detto che tali azioni saranno del tutto coordinate e coerenti tra loro. Assisteremo ad un periodo di allocazione sub-ottima delle risorse e non tutti ne trarranno beneficio allo stesso modo;
  • Le infrastrutture critiche di energia e trasporto saranno, per vastità e livello di interdipendenza, i sistemi che molto probabilmente più soffriranno della turbolenza creata dai due fattori precedenti; di conseguenza, supply chain globali e industrie energy-intensive potrebbero avere maggiori difficoltà nella ripartenza.
  • La specificità dell’evento ha creato al contempo uno shock di offerta (fermi produttivi) e uno shock di domanda (rapida contrazione dei consumi e blocco degli investimenti). Anche la fase di ripresa sarà contrassegnata dal dover gestire all’interno della supply chain la propagazione di due perturbazioni contrapposte: un ripple effect, da monte verso valle, per effetto del protrarsi di limiti nelle forniture, e un bullwhip effect, da valle verso monte, sotto l’azione di una domanda in ripresa ma ancora altamente incerta e volatile.
Farsi trovare pronti ai blocchi di (ri)partenza

In un precedente articolo sull’impatto del COVID-19 sulle supply chain globali (COVID-19: il “test acido” di resilienza delle supply chain globali) abbiamo già descritto le caratteristiche fondamentali delle supply chain resilienti: capacità di intercettare segnali deboli di cambiamento o anticipatori di shock, capacità di prepararsi anche per l’inatteso e di rispondere a situazioni di crisi in modo rapido e adattivo, riconfigurando processi e modalità operative. Guardando ora in dettaglio la gestione della fase di recupero che ci attende, alla luce del contesto nel quale avverrà, possiamo spingerci a identificare tre elementi di resilienza che giocheranno un ruolo chiave:

  • Visibilità. La fase di ripresa potrà essere gestita con successo solo grazie ad una visibilità end-to-end della supply chain, sia sulle capacità operative di fornitori e sub-fornitori sia sulla dinamica della domanda, in termini di ridistribuzione geografica e canali di vendita. Diversamente da ciò che avviene in regime normale, l’entità e modalità di risposta alla domanda emergente dovrà essere pianificata in funzione della effettiva capacità della filiera di fornitura, fino al raggiungimento di un nuovo stato di equilibrio strutturale.
  • Collaborazione. In condizioni di turbolenza ed emergenza, la trasparenza e stabilità delle relazioni paga molto di più di comportamenti tattici. Chi in questi anni ha saputo costruire relazioni collaborative con i propri fornitori e distributori si troverà in condizione di grande vantaggio. Anche la necessità di rimpiazzare fornitori che non hanno potuto superare il momento di crisi potrà essere utilizzata come opportunità lo sviluppo dei fornitori critici più dinamici.
  • Multicanalità. In condizioni di domanda volatile e in rapida riconfigurazione, la possibilità di utilizzare molteplici canali di vendita e fornitura consentirà maggior rapidità di recupero nel breve e, con ogni probabilità, la conquista di nuove quote di mercato nel medio lungo.
Azioni e strumenti utili per implementare una strategia resiliente

Qui di seguito proviamo allora ad elencare una serie di azioni pratiche, certamente incompleta, che possono aiutare a gestire in modo razionale tanto la situazione presente, per le aziende che hanno possibilità di operare, quanto il momento in cui la ripresa delle attività produttive sarà generalizzata:

  • Monitorare con continuità l’evoluzione della pandemia e delle misure attuate dai governi nei mercati di maggior interesse (Figura 2);
  • Segmentare gli ordini acquisiti per grado di completamento e raggiungibilità del cliente (stato misure controllo pandemia nel Paese di riferimento) e dare priorità agli ordini fatturabili;
  • Ricercare possibili configurazioni alternative per l’esecuzione degli ordini in alta priorità e non ancora avviati;
  • Rivalutare priorità degli ordini su base giornaliera con visibilità a 1-2 settimane (rolling);
  • Mappare lo stato dei fornitori critici (ovvero con massimo impatto sugli ordini prioritari), predisponendo un apposito questionario, per verificare condizioni di continuità operativa (in cui richiedere informazioni sulla business continuity dei sub-fornitori critici).
  • Incrociare la valutazione di business continuity dei fornitori (Figura 3) con la matrice mercati-ordini per identificare il dominio degli ordini fattibili;
  • Concordare piani di continuità operativa e priorità di allocazione capacità produttiva con fornitori critici e rischedulare i tempi di consegna su nuove priorità degli ordini;
  • Valutare opzioni alternative per fornitori critici in lockdown completo.
Figura 2. Esempio di matrice di segmentazione mercati-ordini in funzione delle condizioni di evoluzione della pandemia COVID-19

 

Figura 3. Esempio di matrice per gestire i rischi di Business Interruption (BI) dei fornitori

 

Non c’è da stupirsi se la velocità con cui siamo stati investiti dalla pandemia e il perdurare dell’incertezza, circa i tempi e i modi con cui sarà gestita dalle autorità, abbia lasciato i più spiazzati e sconcertati. E’ comunque questo il momento di rafforzare le capacità di valutazione e azione, facendo leva su competenze e capacità all’interno dell’azienda. Non è mai troppo tardi per rialzarsi. Non è mai troppo presto per prepararsi a quello che dovremo affrontare domani.

Smart Learning al tempo dell’emergenza Coronavirus … e oltre

Federico Frattini, Dean MIP Graduate School of Business

L’attuale emergenza provocata dal Coronavirus ha costretto scuole e università in Italia (ma è probabile che a breve anche altri Paesi si troveranno nella stessa situazione) a passare alla formazione online per garantire continuità ai loro programmi didattici. Alcune istituzioni sono più preparate alla transizione a causa di esperienze precedenti in questo ambito, altre invece si trovano a sperimentare per la prima volta questi nuovi approcci all’insegnamento in risposta all’attuale emergenza. In Italia si riscontra tuttavia un impegno forte e generalizzato in questa direzione, segno che i tempi per la formazione online sono maturi e che è possibile utilizzarla nel concreto.

La più grande sfida in questa transizione è riconoscere che la formazione online non è soltanto questione di usare una piattaforma digitale per insegnare la stessa lezione che si sarebbe tenuta in un contesto fisico. La formazione online richiede in realtà una profonda riorganizzazione dell’approccio didattico e l’utilizzo di diversi strumenti digitali per soddisfare diverse esigenze didattiche. In particolare è necessario riconoscere che in una classica lezione in presenza, il docente combina tre diversi strumenti didattici. Anzitutto occorre trasferire a ciascuno studente concetti, strumenti e nozioni (che potremmo definire nel complesso conoscenze) relative a una determinata disciplina. In secondo luogo, i professori devono incoraggiare gli studenti ad applicare queste conoscenze alla risoluzione di questioni pratiche, trasformando così le conoscenze in competenze. Infine, gli studenti devono socializzare queste competenze, coinvolgendole in discussioni sui punti salienti della lezione e avvicinandole alla loro esperienza personale. Naturalmente l’importanza di queste tre componenti varia a seconda del contesto didattico. Nei programmi post-laurea, l’applicazione delle conoscenze e la loro socializzazione sono di primaria importanza. A scuola invece è prioritario il trasferimento di concetti, nozioni e strumenti.

In un contesto online non è possibile unire e combinare queste tre componenti di una lezione fisica usando un singolo strumento digitale. Esse devono essere scorporate e insegnate usando metodi diversi e opportunamente progettati. Il modo migliore per trasferire conoscenze è l’utilizzo di materiali digitali di autoapprendimento asincrono, come video registrati dal professore o selezionati dalla vastissima offerta di materiali didattici disponibili sul web (per esempio le note piattaforme di MOOC come Coursera o EdX). Per l’applicazione di tali conoscenze a casi ed esempi reali è possibile organizzare sessioni online dal vivo con strumenti come Microsoft Teams, Google Hangout, Cisco WebEx, Slack, Zoom o piattaforme analoghe. Infine, la socializzazione delle competenze acquisite può essere supportata da strumenti di discussione sociale semisincroni adeguatamente moderati da professori o tutor. Soltanto con un’accurata progettazione di queste tre componenti costitutive di un’esperienza didattica efficace le scuole e le università riusciranno a trasferire la loro formazione online con risultati soddisfacenti.

Al MIP, la Graduate School of Business del Politecnico di Milano, questo approccio che utilizziamo già dal 2014 nei nostri master digitali e nei nostri programmi MBA prende il nome di smart learning. Si tratta di un settore in cui abbiamo ottenuto ottimi risultati: gli studenti che hanno preso parte a uno dei nostri programmi digitali dal 2014 sono più di 550 e il nostro International Flex MBA è stato inserito tra i dieci migliori master di tutto il mondo dalla recente classifica degli MBA online del Financial Times.

Il problema dello smart learning non è tecnologico. Gli strumenti digitali utilizzabili a questo scopo sono in larga parte disponibili gratuitamente o a costo molto ridotto (è interessante notare che in questa situazione di emergenza, i maggiori operatori citati stanno offrendo gratuitamente le licenze per le loro piattaforme). Non è nemmeno un problema di connessione internet. Quasi tutte le piattaforme di formazione online disponibili sul mercato infatti funzionano perfettamente anche sui dispositivi mobili, con una comune connessione 4G. Il problema chiave è di natura organizzativa. Strutturare un programma online efficace richiede esperienza e conoscenze in campi quali la progettazione didattica o la moderazione di discussioni online nonché la volontà e la capacità di insegnare ai professori a utilizzare questo nuovo approccio.

La mia speranza è che l’emergenza Coronavirus si lasci dietro una maggiore familiarità con lo smart learning e una migliore comprensione della sua importanza in quanto approccio flessibile e inclusivo all’insegnamento, con enormi possibilità di applicazione anche al di là della situazione di emergenza che stiamo vivendo in questo momento.

Lo Smart Working ai tempi del Coronavirus

Non solo un fatto di modernità, buone pratiche e conciliazione con il lavoratore: lo smart working per le imprese ora è una questione di sopravvivenza. 


Mariano Corso, Professore di Leadership e Innovation, Responsabile Scientifico degli Osservatori Smart Working e Cloud Transformation

 

Cos’è lo Smart Working e a che punto è in Italia

Lo Smart Working è una filosofia manageriale fondata sulla restituzione al lavoratore autonomia e flessibilità nello scegliere il luogo, l’orario di lavoro e gli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Troppo spesso lo Smart Working viene confuso con il concetto di telelavoro o viene ricondotto a politiche di welfare e conciliazione.
Il vero cambiamento che deriva dallo Smart Working è ben più profondo: si passa da un management orientato al presenzialismo e al controllo, ad uno orientato alla fiducia, alla collaborazione, alla flessibilità e alla delega.
Per realizzare un progetto di Smart Working le imprese devono agire su quattro leve: policy organizzative di flessibilità di orario e di luogo di lavoro; tecnologie digitali, che ampliano e rendono virtuale lo spazio di lavoro; layout fisico degli spazi di lavoro, che impatta sulle modalità di lavoro e può condizionare efficienza, efficacia e benessere; comportamenti e stili di leadership, legati sia alla cultura dei lavoratori e al loro modo di “vivere” il lavoro, sia all’approccio da parte dei capi all’esercizio dell’autorità e del controllo.
In Italia lo Smart Working ha dal 2017 un quadro normativo tra i più avanzati a livello internazionale [1] è ed è una pratica sempre più diffusa soprattutto nelle grandi organizzazioni: nel 2019 il 58% ha già introdotto un progetto strutturato e il 5% dichiara che lo introdurrà entro i prossimi 12 mesi.
Nelle PMI la diffusione delle iniziative di Smart Working è in crescita ed è pari al 12%; tra queste organizzazioni si continua a prediligere l’approccio informale, seguito nel 18% del campione.
Anche nelle PA inizia a crescere l’interesse verso lo Smart Working: i progetti strutturati sono raddoppiati rispetto allo scorso anno, passando dall’8% al 16%.
Cresce anche il numero degli smart worker [2]: le analisi effettuate su un panel statisticamente rappresentativo di lavoratori, ci portano oggi a stimare circa 570 mila [3] persone, il 20% in più rispetto allo scorso anno.

Perché tanta enfasi sullo Smart Working nel periodo dell’emergenza sanitaria?

L’emergenza Covid-19 ha posto lo Smart Working al centro dell’attenzione mediatica perché il lavoro da remoto è una misura che permette di rispettare le limitazioni dovute all’attuale emergenza sanitaria e, allo stesso tempo, permette di assicurare la continuità del business.
Quello che molte persone stanno iniziando ad applicare, tuttavia, non è il “vero” Smart Working, ma piuttosto una sperimentazione estrema e forzata di “lavoro da remoto” in cui il lavoratore non ha possibilità di scegliere il luogo in cui lavorare, bensì è di fatto vincolato a stare a casa. La preparazione di un vero Smart Working, inoltre, richiederebbe una trasformazione del modello manageriale e della cultura dell’organizzazione, una innovazione profonda del modo stesso di concepire il lavoro e la propria relazione con l’organizzazione. Seguendo i principi dello Smart Working, in particolare, i lavoratori dovrebbero essere spinti ad assumere una sempre maggiore autonomia nella scelta delle modalità di lavoro, sperimentando nuove soluzioni ed imparando a misurarsi sui risultati. Tale passaggio culturale non può però avvenire in tempi rapidi, come richiesto da questa emergenza, ma deve essere supportato da iniziative di comunicazione, formazione e accompagnamento delle persone.
L’emergenza Covid-19, tuttavia, ha rappresentato un preziosissimo test di robustezza e resilienza organizzativa. Le aziende e Pubbliche Amministrazioni che avevano già introdotto modelli di Smart Working, si sono trovate avvantaggiate, ed hanno assorbito con molta maggiore facilità la discontinuità, ritrovandosi in molti casi sorprendentemente pronte e resilienti. In tali organizzazioni, infatti, molte persone avevano già gli strumenti, le competenze e la cultura per lavorare in modo efficace fuori del contesto aziendale, inoltre erano già noti i passi da compiere per permettere anche ad altre persone di lavorare in modo efficace all’esterno della sede (es. quale dotazione tecnologia, che tipo di accessi, che contenuti formativi dare, …).
Tutte quelle aziende e PA che, viceversa, per resistenze di natura culturale e organizzativa avevano rifiutato questo cambiamento, si sono ritrovate tecnologicamente, culturalmente e managerialmente impreparate, scoprendosi fragili di fronte all’emergenza. Molte di queste, pur avendo attività concettualmente eseguibili da remoto, hanno forzato le persone a continuare lavorare dalla sede tradizionale, esponendole a notevoli rischi e disagi. Altre hanno scelto di fermare le attività, magari forzando le persone a prendere ferie o permessi o ricorrendo alla cassa integrazione. Moltissime, infine, hanno cercato di “improvvisare” lo Smart Working, chiedendo alle persone di lavorare da casa, pur senza averne la cultura, gli strumenti e le competenze.

Lo Smart Working dopo il Coronavirus: mai più senza!

Cosa possiamo imparare da questa grande sperimentazione di un nuovo modo di lavorare? Occorre sottolineare ancora una volta che quello che organizzazioni e persone stanno vivendo non è il “vero” Smart Working, ma un lavoro da remoto forzato ed estremo, che porta con sé anche alcune criticità tipiche del telelavoro: senso di isolamento, difficoltà a disconnettersi e a mantenere un equilibrio tra vita privata e professionale.
Pur al netto di questa inevitabile “forzatura”, organizzazioni e persone stanno facendo in poche settimane un percorso di apprendimento e crescita di consapevolezza che, in condizioni “normali”, avrebbe richiesto anni! Molte persone stanno imparando ad utilizzare strumenti di collaborazione innovativi, a relazionarsi e coordinarsi efficacemente in team dispersi, a mantenere relazioni informali positive attraverso una molteplicità di strumenti digitali. Molti manager e lavoratori, un tempo scettici nei confronti dell’applicazione dello Smart Working, si sono resi conto di quante attività, che avevano sempre assunto richiedessero la presenza in ufficio, possano essere fatte da remoto attraverso strumenti digitali, con una efficacia pari o superiore. In molti casi viceversa, ci siamo trovati ad apprezzare e rimpiangere ambienti e situazioni di ufficio che spesso superficialmente davamo per scontate.
Ci auguriamo quindi che questa emergenza duri poco, ma che al suo termine non si torni indietro. Ci auguriamo che aziende, Pubbliche Amministrazioni e la società nel suo insieme, colgano l’opportunità di rivedere alla luce di questa esperienza il modo di organizzare processi produttivi, spazi, modelli di vita e lavoro. Si potrà allora tornare utilizzare con ancora più forza e maturità lo Smart Working per affrontare le tante “emergenze quotidiane”: l’inquinamento, il traffico, le discriminazioni e, soprattutto, l’arretratezza di un mercato del lavoro di una cultura manageriale e di un’economia da rilanciare per il bene e lo sviluppo nostro Paese!

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[1] Si fa rifermento in particolare alla legge 81/2017 sul Lavoro Agile.

[2] Ai fini della rilevazione sono stati considerati smart worker tutti quei lavoratori dipendenti che hanno flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario e del luogo di lavoro e che sono dotati di strumenti digitali adatti a lavorare in mobilità, anche all’esterno delle sedi aziendali.

[3] Rilevazione condotta su un campione di 1.000 lavoratori. Per approfondimenti si veda la nota metodologica

Il Covid-19 cambierà il DNA del sistema Cina?


Giuliano Noci, Professore di Strategy & Marketing, Prorettore del Polo Territoriale Cinese del Politecnico di Milano

 

Nel fatidico 2020, anno in cui la Cina aveva fissato di raddoppiare il PIL rispetto al 2010, si trova ad essere causa di una pandemia e a dover fronteggiare una sfida economica e politica senza precedenti: il Covid-19 originato nella provincia dell’Hubei ha nella sostanza determinato un quasi blocco delle attività industriali e dei viaggi in tutta la Cina, causando pesanti ricadute negative per l’ex Impero di Mezzo e per il resto del mondo.

 

Cerchiamo di procedere con ordine evitando, in primis, di ricorrere a inutili analogie del passato. Non è infatti il caso di trarre ispirazione da quanto successo nel 2003 con la SARS: la Cina pesava allora per il 4% del PIL globale mentre oggi incide per oltre il 16% – 14 trilioni di dollari è il valore aggiunto generato oggi – ed è soprattutto molto più integrata con il resto del mondo – per via degli effetti della sua entrata nel WTO -.

In questo quadro, focalizzando l’attenzione sugli effetti interni, è ormai quasi scontato affermare che ben difficilmente la leadership di Pechino riuscirà a rispettare gli obiettivi di crescita fissati per il 2020 (+5,7% di crescita dell’economia domestica). In particolare, per quanto riguarda il primo trimestre, l’eventuale crescita economica sarà molto bassa; non vi è infatti stimolo (monetario o fiscale) in grado di far fronte ad una crisi di domanda e offerta come quella riscontrata nei primi due mesi del 2020. Basti pensare che la domanda di automobili – in quello che è il più grande mercato al mondo – è calata del 90%, si sono ridotti al minimo i viaggi all’interno della Cina proprio nel periodo del Capodanno Lunare – ovvero il periodo in cui è massima la propensione al consumo da parte della popolazione -, le transazioni immobiliari sono state sostanzialmente inesistenti e i siti di e-commerce hanno registrato cali negli acquisti di beni di lusso dal 40% all’80%. Sul fronte produttivo, per quasi un mese si è assistito ad un sostanziale fermo degli impianti e solo nell’ultima settimana di febbraio la produzione ha lentamente ripreso fino a raggiungere livelli ragionevoli – non ancora di pieno sfruttamento della capacità produttiva – nella prima decade di marzo.

Terminata l’emergenza, è lecito attendersi dal Politburo un piano di stimolo che però dovrà, a mio avviso, avere caratteristiche molto diverse rispetto all’imponente piano da oltre 500 miliardi di dollari messo in campo nel 2008. Non potrà infatti basarsi solo su investimenti pubblici (per lo più in infrastrutture) in quanto sarà necessario sostenere il reddito degli individui a causa dei possibili contraccolpi negativi in termini di occupazione; sarà opportuno dedicare grande attenzione al tema dei finanziamenti alle imprese: il debito complessivo cinese è infatti esploso dal 2008 e si attesta oggi al 310% del PIL; si dovrà puntare più sulla qualità che sulla quantità dello stimolo. Cerco di spiegarmi: avendo la Cina deciso di puntare sul New Normal – ovvero trasformare il sistema economico da workshop produttivo del mondo a hub di innovazione -, deve sfruttare questa (drammatica) situazione per varare misure coerenti con il nuovo orizzonte strategico di riferimento. In particolare, tra gli altri, è indispensabile lavorare per: (i) la riduzione della burocrazia che rappresenta un fardello opprimente sul sistema delle imprese – in queste settimane peraltro i vertici di Pechino hanno deciso di abolire la carta per molte pratiche in quanto veicolo di contagio -, (ii) il miglioramento del sistema sanitario nazionale, la cui inefficienza e costo sono causa di una moderata propensione al consumo da parte del cinese medio – in vista della necessità di sostenere autonomamente le spese per le cure in fase di età avanzata -, (iii) la piena valorizzazione delle tecnologie digitali per supportare il fondamentale processo di crescita delle competenze delle maestranze che rappresenta ingrediente fondamentale per l’affermazione di un sistema industriale in grado di creare più valore aggiunto rispetto al passato. La leadership di Pechino dovrà d’altro canto varare misure volte a contenere il probabile processo di re-shoring di parte delle attività produttive di player stranieri che, in nome di un obiettivo di una più oculata gestione delle strategie di sourcing, decideranno molto probabilmente di localizzare, almeno in parte, i siti produttivi precedentemente aperti in Cina in virtù di una logica basata su un criterio di mera efficienza delle politiche di approvvigionamento. Ed è una ed una sola la leva a disposizione del Politburo: liberalizzare ulteriormente, come auspicato dalla Camera di Commercio americana in Cina – le pratiche di business straniere e i diritti di gestione della proprietà intellettuale per quanto riguarda le aziende straniere.

Insomma, solo un vero cambio di passo rispetto al processo di riforma più volte annunciato, ma mai pienamente cavalcato, potrà permettere alla Cina di riprendere nel 2021 la lunga marcia intrapresa con la riforma Dengista nella prospettiva di diventare la prima potenza economica del Pianeta. Avendo ben a mente che la strada è ancora molto lunga e gli ostacoli possono essere del tutto imprevedibili, come l’emergenza attuale dimostra. Una strada che richiede un timoniere della lungimiranza di Deng; ed è qui che vedremo se il pensiero di Xi avrà la cifra non solo per essere inserito in Costituzione ma per traguardare l’ex Impero di Mezzo verso una posizione di leadership economica e tecnologica.

 

Coronavirus: raccolta fondi per gli Ospedali San paolo e San Carlo di Milano

Facciamo squadra, come comunità di studentesse e studenti, alumnae e alumni, personale docente e staff del MIP e della School of Management del Politecnico di Milano, per dare un contributo fattivo al preziosissimo lavoro del personale sanitario che ogni giorno lotta per curare chi è colpito dal virus Covid-19.

La Nostra Comunità è formata da più di 25,000 persone: insieme possiamo fare tanto!

Chiamiamo quindi a raccolta tutta la Nostra Comunità per aiutare gli Ospedali San Paolo e San Carlo di Milano ad attivare nuovi posti di terapia intensiva, essenziali per salvare vite umane, e per far fronte al grande fabbisogno di dispositivi di protezione mono-uso (mascherine, guanti, tute, …) che consentano al personale sanitario di operare in sicurezza.

Gli Ospedali San Paolo e San Carlo di Milano son parte del Sistema Sanitario Regionale pubblico della Regione Lombardia, e sono in primissima linea nell’affrontare questa emergenza sanitaria. Questa raccolta fondi è svolta in stretto coordinamento con la dirigenza e il personale sanitario degli Ospedali San Paolo e San Carlo. I fondi raccolti ogni giorno saranno direttamente e tempestivamente devoluti all’ospedale.

ANCHE UNA PICCOLA DONAZIONE PUÒ FARE LA DIFFERENZA: BASTA POCO, BASTA UN CLICK.

* Le donazioni fatte a iniziative dedicate a combattere l’attuale emergenza sanitaria sono fiscalmente detraibili al 30% per privati cittadini/e, al 100% per le imprese. Maggiori informazioni sono disponibili qui.

COVID-19: il “test acido” di resilienza delle supply chain globali

La pandemia Covid-19 è foriera di scenari imprevedibili e mai sperimentati. Ma la capacità di adattamento delle filiere industriali e un approccio proattivo possono fare la differenza.


Paolo Trucco, Professore di Industrial Risk Management

 

Nel suo Global Risk Report del 2018 il WEF (World Economic Forum) aveva già lanciato un chiaro segnale di attenzione: “Siamo oggi confidenti nella nostra capacità di gestione dei rischi convenzionali, che possono essere isolati in modo relativamente facile e gestiti con i tradizionali approcci di gestione del rischio. Ma siamo molto meno competenti quando si tratta di affrontare rischi complessi all’interno di sistemi interconnessi, quali quelli alla base delle nostre società moderne […]. Quando il rischio si propaga all’interno di un sistema complesso, l’effetto non è incrementale ma esponenziale, generando un “collasso repentino” o una brusca transizione verso un nuovo status quo non ottimale”[1] .
Il quadro che va delineandosi in queste settimane dovuto alla pandemia di coronavirus ha tutte le caratteristiche per essere un rischio di natura sistemica, con effetti prolungati nel tempo e da cui dovremo aspettarci una profonda e duratura trasformazione della società e del sistema economico. Sul piano industriale, molto dipenderà dalla capacità delle aziende di comprendere le dinamiche di evoluzione dello scenario globale e di adottare un approccio proattivo e adattivo. Sia nell’immediato, per rispondere efficacemente agli impatti sull’attività produttiva, sia nel lungo periodo, per adeguare i propri modelli di business al mutato contesto.

High Tech e Automotive: le supply chain globali ad oggi più colpite

Solo nella Provincia di Hubei, ancora oggi in stato di blocco sostanziale delle attività, si producono circa 2 milioni di autoveicoli all’anno, seconda solo per volumi all’area di Guangdong. Nei mesi di gennaio e febbraio 2020, più del 60% degli impianti di assemblaggio cinesi hanno subito dei fermi produttivi o sono stati comunque impattati dal dilatarsi della crisi. Marchi globali come General Motors, PSA, Renault, Honda hanno impianti propri o in JV nella zona, attraverso cui servono tutto il mercato asiatico. Tutti questi impianti hanno subito fermi produttivi per almeno 12 giorni ed ancora oggi operano a regimi ridotti.
La Cina è anche un importante esportatore di componenti di autoveicoli (33,5 miliardi di dollari nel 2019), soprattutto verso USA, EU e Giappone. I produttori nella provincia di Hubei sono tipicamente fornitori di secondo livello (Tier 2) che forniscono fornitori di primo livello (Tier-1) localizzati in altre zone della Cina, i quali a loro volta spediscono i propri prodotti in tutto il modo via mare.
L’intera industria automobilistica mondiale, che adotta modelli JIT molto aggressivi e quindi con scorte ridottissime, ha subito o subirà fermi produttivi in conseguenza della mancanza di componenti critici: FCA ha dovuto fermare alcuni dei suoi impianti in Europa; nelle atutali condizioni GM potrà operare negli USA solo fino alla fine di marzo.
Un terzo elemento infine è di fondamentale importanza per comprendere l’impatto della epidemia di coronavirus cinese sul settore automobilistico; è la rilevanza di quel mercato per la stabilità finanziaria e la redditività di molti marchi americani ed europei. Nel 2019 GM ha venduto più veicoli in Cina che negli Stati Uniti e le JV cinesi di Volkswagen hanno contribuito per il 26% all’EBIT di gruppo nel 2018.

Anche l’industria elettronica mondiale è fortemente dipendente dalla produzione cinese in molti segmenti dell’intera supply chain. Materiali critici quali le Terre Rare (REEs) sono estratti in grandissima quantità a Guangxi e l’intero settore ha già sperimentato nel 2010 gli effetti devastanti su volumi e costi di produzione di una drastica contrazione dell’export cinese di tali materiali. Importanti produttori di componenti, quali chips e circuiti stampati, sono invece presenti nella provincia di Hubei, ma in questo caso i processi altamente automatizzati hanno consentito di mitigare l’impatto favorendo una rapida ripresa della produzione. Aziende di assemblaggio finale, come Foxconn, sono prevalentemente localizzate nelle zone di Guangdong e Shanghai, oppure in altri paesi limitrofi. Le fasi di assemblaggio sono tipicamente ad alta intensità di manodopera e per questo motivo sono quelle che hanno subito le maggiori limitazioni, con impatti significativi su leader di mercato come Apple o Hewlett Packard, che negli anni recenti hanno concentrato gran parte della loro supply base in Cina.

Black swan e darwinismo industriale: vince chi cambia non chi resiste

La crisi globale che stiamo iniziando ad affrontare renderà ancora più evidente che in un mondo in rapido cambiamento e ad alta volatilità, la capacità di adattamento delle organizzazioni e delle filiere industriali è un fattore di successo imprescindibile. Le supply chain resilienti sono caratterizzate da capacità di intercettare segnali deboli di cambiamento o anticipatori di shock, di prepararsi anche per l’inatteso e di rispondere a situazioni di crisi in modo rapido e adattivo, riconfigurando processi e modalità operative. E’ attraverso un simile approccio proattivo e non reattivo che organizzazioni resilienti sono anche in grado di trasformare le minacce in opportunità: performando meglio dei propri diretti concorrenti o adottando soluzioni innovative che modificano strutturalmente il contesto competitivo post-emergenza.

Sia l’industria automobilistica sia quella high-tech hanno affrontato nell’ultimo decennio situazioni di crisi del tutto comparabili a quella attuale e ne hanno tratto importanti lezioni. L’evento più significativo è certamente la tripla catastrofe che ha colpito il Giappone nel marzo del 2011, in cui si sono concatenati il più forte terremoto negli ultimi 140 anni di storia del Paese, uno tsunami di ampiezza e portata devastante e il conseguente incidente nucleare. DELL figura tra certamente tra i giganti high-tech all’epoca più esposti, avendo nella zona più colpita larga parte dei subfornitori di componenti, da cui si rifornivano a loro volta le fabbriche di assemblaggio localizzate in Corea e Tailandia. Grazie al suo modello operativo MTO (Make-to Order) alimentato da canali di vendita unicamente on-line e supportato da relazioni molto forti con i fornitori, DELL è stata in grado governare con successo la crisi attraverso tre sostanziali azioni: gestione dinamica dell’offerta e spostamento della domanda su configurazioni di prodotto fattibili in base ai componenti disponibili; orchestrazione in loco dell’emergenza grazie a tecnici e buyer fisicamente dislocati in Corea e Tailandia; supporto tecnico e operativo ai fornitori, garantendosi così massima visibilità e coordinamento su tutti i livelli della supply chain. Non altrettanto sono stati in grado di fare i diretti competitor che hanno sofferto perdite sia di fatturato nel breve sia di importanti quote di mercato una volta rientrata la crisi.
Anche il settore automotive fu significativamente impattato dal “triple-disaster” che mise in ginocchio l’economia giapponese. Quando, qualche mese dopo, la stagione delle piogge portò ingenti allagamenti e devastazioni in Tailandia, protraendosi da luglio 2011 a gennaio dell’anno successivo, anche Nissan Motors si trovò a fronteggiare una seconda fase di emergenza. Mentre i tre maggiori produttori giapponesi registrarono perdite per più di 300 milioni di Euro, Nissan chiuse l’anno con il record di vendite e con un utile in crescita rispetto all’anno precedente.
Come si spiega una tale differenza di risultati a fronte delle stesse condizioni operative e di mercato? In quel frangente, Nissan diede certamente prova del valore del motto aziendale: “The power comes from inside”. Nei pochi mesi trascorsi tra marzo e luglio, Nissan fu in grado di mettere in atto tutte le lezioni apprese dal disastro in Giappone e le sfruttò al meglio per fronteggiare la nuova calamità: implementazione estesa e consistente di un sistema di Business Continuity Management (BCM) coordinato da un Global Disaster Control Headquarter; revisione delle strategie di sourcing e ridisegno della supply base fondate su un analisi di rischio a più livelli; intenso scambio di informazioni e coordinamento con fornitori e sub-fornitori; revisione dei piani di produzione per sfruttare le finestre produttive dei fornitori in funzione delle politiche di “rolling blackout” messe in atto dal gestore tailandese.

Se da un lato quindi l’epidemia di coronavirus cinese non può essere catalogata come un cigno nero (black swan) è altrettanto plausibile che la sua trasformazione in pandemia mondiale, come decretato nella prima settimana di marzo da parte dell’OMS, sia foriera di scenari imprevedibili e mai sperimentati. Ad esempio, l’estensione dei blocchi produttivi nel nord Italia sulla scia di quanto accaduto finora nel lodigiano rappresenterebbe un durissimo colpo per l’intero settore automotive europeo.

Quello che ci aspetta oltre l’emergenza: minacce e opportunità

La risposta iniziale alla diffusione del virus da parte del governo cinese, a livello centrale e locale, è stata drastica: chiusura totale di fabbriche e aziende e sostanziale divieto di movimento alle persone. Ora, nel momento in cui emergono importanti progressi nel contenimento del virus in diverse aree del Paese, il governo centrale ha lanciato un’aggressiva campagna di “ritorno al lavoro“. Ciò include il sostegno finanziario e le forniture mediche alle aziende che ripartono, nonché ingenti sforzi per ristabilire l’operatività delle infrastrutture e dei servizi essenziali. I governi locali stanno inoltre agendo in modo sinergico con azioni differenziate e specifiche per città e province. Solo la provincia di Hubei è ancora oggetto di importanti azioni di contenimento.

Tuttavia l’economia cinese in ripartenza è significativamente diversa da quella pre-coronavirus: non solo perché molte imprese non hanno retto l’urto e sono fallite, come ad esempio nel settore delle costruzioni, ma anche e soprattutto perché in molti settori il coronavirus ha portato a profonde ristrutturazioni operative e innovazioni nei modelli di business. Un esempio su tutti è l’imponente incremento di capacità del settore medicale, che potrà d’ora in avanti giocare a tutti gli effetti un ruolo da player mondiale. Nel settore abbigliamento e personal care è radicalmente mutato il mix dei canali di vendita; l’uso massiccio di canali B2C e B2B nel periodo emergenziale ha modificato in modo permanente l’assetto di intere supply chain, con effetti di lungo periodo solo per il momento limitati al mercato cinese.
Tutto questo mentre il resto dei Paesi avanzati si sta preparando ad affrontare i picchi di contagio che si abbatteranno in modo sincronizzato in Europa e negli USA. La domanda chiave è allora: cosa succederà quando nella primavera avanzata la Cina si troverà ad essere l’unico Paese industrializzato con una capacità industriale pienamente operativa, profondamente innovata e con una domanda interna in rapida ripresa?
Difficile fare previsioni su scala globale o anche solo nazionale. Quello che è certo è che in occidente come in Cina sopravviveranno e troveranno nuove opportunità di crescita solo le filiere che avendo abbandonato la sindrome dell’ “ultimo giapponese” (resistere), saranno state in grado di adattarsi ai cambiamenti innovando processi e modelli di business.