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19 marzo 2019 Condividi

lusso social media

Il lusso ai tempi di Instagram

C’erano una volta le riviste patinate. Oggi c’è Instagram. E i brand del lusso ne approfittano. Con le dovute cautele, però, perché se da una parte l’opportunità di rivolgersi direttamente ai potenziali clienti è immensa, dall’altra stiamo parlando di un mondo le cui regole cambiano in continuazione.

Trovare un equilibrio nel coinvolgimento della community e nella conservazione del proprio status non è affatto semplice. «Il lusso ha sempre lavorato su un’idea di distribuzione esclusiva e su una comunicazione conseguente», spiega il professor Fabrizio Maria Pini, Direttore dell’International Master in Luxury Management della School of Management del Politecnico di Milano. «I media digitali, invece, all’inizio venivano percepiti come qualcosa di indefinito e massificato. In un contesto in cui tutti potevano creare tutto, la messa in scena di un prodotto di lusso, che si distingue per il suo alto contenuto simbolico e narrativo, sembrava perdere la sua fascinazione. C’è una bella differenza tra una vetrina digitale e una boutique».

Il panorama social è così variegato e cangiante che diventa impossibile identificare un modello strategico univoco: «Le aziende del lusso possono adottare strategie estremamente innovative, con le quali si inseriscono in tutto e per tutto nel flusso comunicativo dei social, interagendo direttamente con gli utenti e potenziali clienti, o al contrario rimanere ancorati a modelli che, esagerando, sono ancora molto vicini alla pubblicazione delle campagne sulle riviste».

Di certo, però, negli anni i marchi di lusso non sono rimasti a guardare. «Sono partiti in ritardo, ma ora stanno bruciando le tappe» racconta Pini. E i numeri lo confermano. Instagram in particolare si dimostra il social network più appetibile per i brand fashion. Nel 2017 uno studio condotto da L2, azienda specializzata nelle metriche sulle performance digitali, rilevava una crescita del 53% nel numero di followers. Complici anche i fashion blogger: il professor Pini li definisce dei «traduttori del lusso, che all’inizio hanno saputo approfittare di vere e proprie praterie social. Mentre dapprima venivano percepiti quasi come delle groupies entusiaste, oggi sono forse l’incarnazione concreta del cambiamento dei rapporti di forza subentrati nel mondo del fashion. A discapito, ad esempio, di attori più istituzionali e percepiti come maggiormente qualificati, come i giornalisti».

«Sono proprio gli influencer, ora, ad agire come filtro e anello di collegamento tra la marca e i suoi potenziali consumatori» prosegue Pini. «Mentre in precedenza erano i clienti a inseguire il brand, ora è quest’ultimo che deve cercare di inserirsi nelle conversazioni, perché farsi trovare è diventato più problematico».

L’attuale fase di transizione lascia spazio anche alla sperimentazione di nuove strategie produttive, magari passando per i nuovi strumenti di profilazione degli utenti. Anche in questo caso il leitmotiv non cambia: «Alcune aziende continuano a pensare collezioni e linee in maniera tradizionale, brand più giovani invece partono proprio dal coinvolgimento della comunità».

Osare, però, significa anche rischiare. Basta un passo falso per generare una crisi di reputazione, che è molto più difficile da gestire rispetto al passato: «Le regole della conversazione sono diverse da quelle della comunicazione, e le icone, di solito, comunicano, non conversano» riflette Fabrizio Maria Pini. «Inoltre le conversazioni social sono scandite da tempistiche rapidissime, mentre aziende grandi e strutturate sono per forza di cose più lente nel reagire. Per reperire le informazioni necessarie a una risposta, a volte è necessario coinvolgere diverse funzioni aziendali. Nel frattempo, però, sui social network le altre conversazioni e le altre storie prendono piede e diventano sovrastanti. Così si ha una lotta tra narrazioni e miti. A volte, però, non c’è altro da fare che chiedere scusa e ammettere le proprie colpe. Anche questa è una grande differenza rispetto al passato: in altri tempi i brand non prendevano in considerazione l’idea di dichiararsi in torto».

 


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