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2 aprile 2019 Condividi

Disuguaglianze Terzo Settore Tiresia

Una nuova stagione di politiche dell’innovazione più inclusive e basate sulle imprese sociali per combattere le disuguaglianze

Incoraggianti i dati 2018 del Centro di ricerca Tiresia della School of Management  del Politecnico di Milano. Di un’imprenditoria attenta ai bisogni del territorio si è discusso a un convegno con Joan Rosés della London School of Economics, docenti, amministratori locali ed esponenti del Terzo Settore

Imprese sociali attente ai bisogni del territorio e alla necessità di impattare positivamente sul benessere delle comunità di riferimento, ma anche economicamente sostenibili, strutturate managerialmente e capaci di usare le migliori tecnologie. È questa, secondo il Centro di ricerca sull’innovazione e l’impatto sociale Tiresia della School of Management del Politecnico di Milano, una delle risposte possibili alle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza che stanno affliggendo anche il nostro Paese, portando alla povertà e allo spopolamento vaste aree marginali persino del Nord, zone interne che pagano la loro lontananza, o i difficili collegamenti, con i centri maggiori dove invece si concentrano ricchezza, benessere e competenze.

Oasi urbane di prosperità in una provincia sempre più povera, create dalla nuova economia della conoscenza. Un fenomeno diffuso in Europa, negli Stati Uniti, in Sud America che purtroppo non ha risparmiato l’Italia, dove invece il boom economico aveva visto il fiorire dei distretti industriali. “Ma invertire la rotta si può – commenta Mario Calderini, docente di Social Innovation e direttore di Tiresia – e i dati che abbiamo raccolto nel 2018 (nei prossimi mesi uscirà il nuovo report) lo dimostrano. La disponibilità di capitali per lo sviluppo di imprese a impatto sociale è in costante aumento: parliamo di capitali pronti a essere investiti per oltre 210 milioni di euro, ma se si guarda a tutti i finanziamenti riconducibili in qualche modo a un modello di finanza sostenibile raggiungiamo i 6,5 miliardi”.

E ancora: nonostante le imprese a impatto sociale mostrino in genere un’intensità tecnologica bassa (76%), quasi il 10% di esse può vantarne una medio-alta, cioè utilizza tecnologie innovative per risolvere sfide e problemi sociali in un settore tradizionalmente ‘labour intensive’. “In Italia – spiega Calderini – le start-up innovative a vocazione sociale, le cosiddette Siav, e le società benefit fanno un uso maggiore delle nuove tecnologie rispetto al resto d’Europa: circa due quinti delle Siav intervistate e quasi un terzo delle benefit rientrano infatti nelle organizzazioni a intensità tecnologica alta o media”.

Delle origini delle disuguaglianze e del ruolo di una nuova generazione di imprese sociali si è parlato il 1 aprile alla School of Management del Politecnico di Milano durante un incontro con il professor Joan. R. Rosés, docente alla London School of Economics and Political Science e autore con  Nikolaus Wolf del volume “The economic development of Europe’s regions. A quantitative history since 1900”. Un’occasione per economisti, docenti, amministratori locali ed esponenti del Terzo Settore di discutere con Rosés non solo delle tesi contenute nel libro, ma anche dei nuovi dati che illustrerà, frutto dell’algoritmo messo a punto con Wolf per definire dove si sta accumulando la ricchezza.

L’introduzione è affidata ad Alessandro Perego, Direttore Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano. Segue una tavola rotonda moderata da Francesco Antonioli, Contributor de la Repubblica, a cui partecipano: Raffaella Cagliano, Politecnico di Milano, School of Management; Claudia Fiaschi, Portavoce del Forum del Terzo Settore; Stefano Granata, Presidente Gruppo cooperativo CGM; Lorenzo Sacconi, Forum Disuguaglianze Diversità e Università degli Studi di Milano; Cristina Tajani, Assessore a Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane, Comune di Milano.

Mappando la popolazione delle imprese sociali italiane, la loro densità non si differenzia molto tra grandi centri (1,55 ogni 100.000 abitanti) e aree interne (1,36 ogni 100.000 abitanti), così come non varia il livello di istruzione degli imprenditori, che nel 55% dei casi (appena un punto in più nelle città)  è in possesso di una laurea di primo o di secondo livello. Un dato che insieme a quelli dello sviluppo tecnologico e della disponibilità di capitali restituisce un quadro incoraggiante di strumenti e competenze diffuse in grado di fare la differenza. “Sono organizzazioni che possono intervenire sul territorio in maniera capillare – conclude Mario Calderini – e farsi promotrici di un nuovo sviluppo industriale maggiormente inclusivo, non dimentico dei bisogni sociali e territoriali e capace di arginare le conseguenze delle disuguaglianze”.

“Non solo le imprese sociali possono avere un ruolo importante in questa direzione – aggiunge Raffaella Cagliano,  professore di People management & organization alla School of Management del Politecnico di Milano -. Infatti un numero crescente di imprese for profit sta abbracciando un approccio strategico alla responsabilità sociale di impresa, integrando l’impatto sociale tra le dimensioni chiave della gestione del core business. E questo avviene molto spesso attraverso partnership con imprese sociali o organizzazioni no profit, instaurando circoli virtuosi di crescita e sostenibilità”.

 

 

 

 

 


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