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6 maggio 2020 Condividi

coronavirus covid19 privacy

Privacy e Covid: le vere domande da porsi

Le applicazioni che tracciano gli spostamenti dei cittadini per prevenire il diffondersi incontrollato del contagio sollevano diverse preoccupazioni sul fronte della privacy.
Eppure ogni giorno esponiamo e cediamo i nostri dati volontariamente senza rendercene conto.

 

Tommaso Buganza, Professore di Leadership and Innovation
Daniel Trabucchi, Assistant Professor di Leadership and Innovation
School of Management Politecnico di Milano

 

Stiamo vivendo una situazione senza precedenti. La pandemia globale che abbiamo visto in molti film hollywoodiani è oggi una realtà e – senza popcorn – ha un aspetto completamente diverso.
In Italia – come si spera avvenga presto in altri paesi – il tasso di diffusione ha iniziato finalmente a scendere e la discussione si sta spostando sulla gestione della “Fase 2”. Come sarà il “new normal”? Come sarà vivere in un mondo in cui il virus è sotto controllo, ma ancora presente?

Gli esperti digitali stanno proponendo possibili “scenari futuristici” in cui le applicazioni mobili ci tracceranno per informare immediatamente le persone potenzialmente esposte e interrompere la catena di trasmissione del contagio (si veda, ad esempio, il progetto paneuropeo Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing project). È notizia del 17 aprile la firma del governo per la stipula del contratto per l’app “Immuni”, con l’obiettivo del contact tracing tramite bluetooth.

Nel frattempo, Google ha condiviso dati anonimi per aiutare le forze dell’ordine nell’identificazione di assembramenti durante il lockdown (Giuffrida, 2020; Hamilton, 2020) e ha stretto una partnership con Apple per sviluppare una tecnologia di tracciamento dei contatti (Apple, 2020). Allo stesso tempo, il mondo comincia a guardare avanti, chiedendosi “come” – dato che “se” non è più un’opzione – questa emergenza globale cambierà la nostra vita negli anni a venire. In un articolo sul Financial Times, Yuval Harari descrive le possibili implicazioni dell’utilizzo delle tecnologie disponibili per tracciare i movimenti e i comportamenti delle persone. Da un lato questo aiuterebbe i sistemi sanitari nazionali, ma, dall’altro, il costo potrebbe essere una “nuova normalità” in cui le nostre funzioni vitali sono costantemente misurate, memorizzate e analizzate. È facile immaginare come questa enorme banca dati, insieme alla crescente conoscenza della biomeccanica umana e all’impressionante progresso dell’intelligenza artificiale, possa portare a una riduzione della democrazia e dei diritti civili nei nostri Paesi (Harari, 2020).

Le persone sembrano spaventate, non solo dalla pandemia, ma anche dalla perdita di privacy (Brody and Nix, 2020). Stiamo lentamente ma inesorabilmente perdendo la nostra libertà?

Cosa sappiamo già sull’utilizzo dei nostri dati? I dati sono il nuovo petrolio, sempre più considerati una risorsa preziosa da sfruttare. Sono preziosi perché ci permettono di capire cose che altrimenti non capiremmo. Ci mostrano qualcosa che non conosciamo, sia come individui che come collettività. Ci mostrano cose che sono proprio davanti a noi, ma che sono troppo complicate per essere viste dai singoli cervelli umani.

Pensate a Netflix, uno dei servizi che molti di noi usano intensamente in questi giorni di isolamento. Scegliere un nuovo film o una nuova serie è un’avventura epica. Questo è vero. Ma forse non sapete che Netflix vi ha già reso le cose molto più facili. Probabilmente avrete notato che il “match score” (la percentuale che indica quanto sia probabile che apprezziate il contenuto) è spesso molto alto. Netflix traccia tutti i vostri comportamenti, i film e le serie tv che avete visto, la frequenza di visione e altri dati per proporvi solo contenuti che vi dovrebbero piacere. Se siete curiosi, potete provare a cercate in tutto il catalogo, scoprirete molti altri contenuti che non avete mai notato… e che probabilmente non vi piaceranno!

Questo è solo un esempio… ma la lista di servizi che usiamo quotidianamente, basati su questi meccanismi è molto lunga. Spotify può suggerirci canzoni, Amazon prodotti, la nostra app per il fitness -Runkeeper, Runtastic, Freeletics… – la prossima sessione di allenamento ottimizzata per noi, sulla base delle precedenti.
Potrebbe sembrare qualcosa di distintivo dell’app economy, ma non lo è. Google ha costruito il suo impero su un modello di business basato sui dati, partendo con gli annunci mirati sul loro motore di ricerca, usando gli utenti per taggare le immagini (con il gioco Google Image Labeler) ed anche i captcha per rilevare gli indirizzi (Perez, 2012) o identificare meglio le immagini di street view… con il fine ultimo di supportare lo sviluppo di algoritmi per le auto a guida autonoma (Kid, 2019). Anche imprese non native digitali ormai utilizzano pienamente i dati. Basti pensare a Starbucks che utilizza i dati della sua app per ottenere informazioni sulle abitudini e sui gusti dei propri clienti (Gallea-Pace, 2020).

Le grandi aziende digitali ci conoscono perfettamente, ci conoscono molto di più di quanto immaginiamo. E alcune di loro, nel corso degli anni, sono diventate estremamente brave a trarre profitto e a catturare valore dai dati (Trabucchi et al., 2017, 2018).
Ci “ripagano” con servizi personalizzati o, in alcuni casi, gratuiti… che ci piacciono ancora di più.
Le aziende – ovviamente – devono rispettare tutte le leggi sulla privacy, e il GDPR in Europa ha giocato un ruolo enorme in questo. Tuttavia, possono fare molto con i dati che forniamo loro perché accettiamo i termini di utilizzo… solitamente senza leggerli.

È curioso, ma non è nemmeno la prima volta che la questione della privacy genera degli scandali molto diffusi. Due anni fa, sui social media di tutto il mondo impazzava l’hashtag #LeaveFacebook.
Lo scandalo di Cambridge Analytica ha messo in evidenza il modello di business di Facebook basato sui dati, le sue implicazioni per la nostra privacy, e persino l’impatto che i dati possono avere sulla nostra vita attraverso il micro-targeting e fenomeni simili (Cadwalladr, 2019). In quelle settimane, sembrava che il mondo si stesse rendendo conto di quello che stava succedendo da anni: i dati sono preziosi, le aziende li usano. Guardando Mark Zuckerberg in giacca e cravatta davanti al Congresso degli Stati Uniti, molti di noi pensarono che Facebook sarebbe diventato vuoto come le nostre città in queste settimane. Ma non è successo. Dopo il clamore iniziale, siamo tornati alle nostre abitudini… godiamo troppo dei nostri servizi digitali gratuiti per preoccuparci di come li paghiamo.

Ed eccoci di nuovo qui. In questo momento storico unico, ci ritroviamo a pensare molto a come sarà il “new normal”. Se abbiamo davvero a cuore la nostra privacy, dovremmo chiederci: il nostro prossimo futuro sarà diverso solo in termini di relazioni sociali e di come ci muoviamo o metterà in discussione anche la nostra consolidata vita digitale?
Possiamo ancora riavere la nostra privacy… se vogliamo. Ma, siamo pronti a rinunciare a quei meravigliosi servizi forniti da Netflix, Waze, Amazon, Spotify, Instagram, Facebook, TikTok, Twitter, Snapchat e tutti gli altri?

Questo è il nostro punto: l’improvvisa paura legata all’utilizzo dei dati personali per proteggere la salute pubblica è davvero giustificato? Forse dovremmo invece accettare il fatto che la “nuova normalità” pone domande ancora più difficili da affrontare:

Diamo più valore ai servizi gratuiti che alla salute pubblica?
Ci fidiamo più delle aziende private che dei nostri governi?


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