Il progetto BUDD-e vince il Premio per l’Innovazione in Sanità Digitale

Agenas premia il robot guida per ciechi sviluppato dal Politecnico di Milano e Ospedale Niguarda

 

Budd-e, il robot a servizio di chi non vede, ha vinto il premio “Innovazione in sanità digitale”.

Budd-e è uno speciale robot a guida autonoma che ha l’obiettivo di guidare le persone non vedenti all’interno di spazi strutturati come ospedali, centri sportivi e commerciali, musei.

Progettato e messo a punto dai ricercatori del Politecnico di Milano e sperimentato e validato all’Ospedale Niguarda, Budd-e è in grado di apprendere i percorsi interni alla struttura ospedaliera e di accompagnare persone non vedenti dall’ingresso dell’ospedale fino al reparto o ambulatorio di destinazione, e ritorno.

Il progetto ha l’obiettivo di offrirsi come soluzione per migliorare l’accessibilità e la qualità della vita delle persone non vedenti. È stato finanziato da Politecnico di Milano attraverso Polisocial Award 2021, che premia la ricerca ad alto impatto sociale con il 5×1000 devoluto al nostro ateneo.

L’iniziativa “Innovazione in sanità digitale”, è organizzata da Agenas – Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, in collaborazione con la SICS – Società Italiana di Comunicazione Scientifica e Sanitaria. Budd-e è stato premiato nella categoria “Innovatività del progetto in relazione all’uso dell’ICT – concretezza – sostenibilità e replicabilità”.

 

Per saperne di più
Il sito ufficiale di Budd-e
Su Frontiere: intervista a Marcello Farina, responsabile del progetto

BUDD-e: un progetto a supporto dei cittadini con disabilità visive

Il progetto di ricerca BUDD-e è un programma che si impegna a migliorare la qualità di vita dei cittadini non vedenti con l’obiettivo di contribuire alla costruzione di una società più equa e inclusiva sfruttando al meglio le innovazioni tecnologiche.

 

La pandemia da SARS-COV2 ha impattato sulla vita di tutti in maniera significativa, modificando abitudini e il modo di interagire gli uni con gli altri e con lo spazio circostante. Tra le persone più colpite ci sono quelle con disabilità visive, considerate più a rischio di contagio per la necessità di contatto tattile con persone e spazi per potersi muovere e orientare con maggiore agio.
Private quindi del tatto queste persone hanno visto ancora più limitata la loro autonomia e qualità di vita.

L’isolamento è stato ancora più severo per chi ha disabilità visive più o meno gravi. In Italia sono circa 2 milioni di cittadini, mentre a livello globale si tratta di circa il 4% della popolazione. Una “fetta” importante di società per la quale la tecnologia potrebbe giocare un ruolo importante per migliorare la qualità di vita.

Come sfruttare l’innovazione tecnologica per garantire l’accesso autonomo e in sicurezza a diversi ambienti, come un centro commerciale, un museo, un ospedale e, o addirittura una pista di atletica?

Migliorare la qualità di vita dei cittadini con disabilità visive attraverso la possibilità di fruire di questi e altri spazi in maniera autonoma e sicura è l’ambizioso obiettivo del progetto di ricerca multidisciplinare “BUDD-e” (Blind-assistive Autonomous Drive Device), risultato tra i vincitori del bando Polisocial Award – Edizione 2021, il programma di impegno e responsabilità sociale del Politecnico di Milano finanziato con i fondi 5 per mille.
BUDD-e è un innovativo sistema persona-robot basato su un droide a guida autonoma, ideato in base alle esigenze specifiche di persone non vedenti o ipovedenti e alla progettazione degli spazi affinché siano accessibili grazie alle funzionalità dello stesso robot. BUDD-e contribuirà alla costruzione di una società civile più equa e più inclusiva. BUDD-e sarà in grado di guidare e supportare la persona non vedente o ipovedente durante le sue attività quotidiane – inclusa la possibilità di trasportare beni –, mantenendo i profili di velocità e/o traiettoria richiesti, trasmettendo informazioni rilevanti sul percorso tramite segnali acustici ed evitando collisioni,

Il progetto di ricerca della durata di 15 mesi e coordinato dai Professori Marcello Farina del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria e dal Prof. Emanuele Lettieri del Dipartimento di Ingegneria Gestionale – è caratterizzato dall’integrazione di più competenze distintive del Politecnico di Milano, che spaziano dall’ingegneria all’economia-gestionale, dall’architettura al design dei servizi.

Il gruppo di ricerca potrà contare sul coinvolgimento di partner quali l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti (UICI), la Fondazione Istituto dei Ciechi di Milano (ICM) ONLUS, la ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, DISABILINCORSA ONLUS, il Gruppo Sportivo Dilettantistico GSD Non Vedenti Milano (NVM) ONLUS, Tactile Vision ONLUS, la ASP Golgi Redaelli, YAPE S.r.l. e infine POLIMISPORT.
Infine, il progetto avrà la supervisione clinica e scientifica del Dott. Luigi Piccinini del IRCCS Medea.

Il team di ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, guidati dal prof. Emanuele Lettieri e dall’Ing. Andrea Di Francesco, in particolare sarà impegnato nella valutazione dell’impatto sociale generato dal progetto BUDD-e attraverso lo sviluppo di una metodologia specifica che consenta di coglierne le specificità.

 

Per maggiori informazioni:
Sito ufficiale di progetto BUDD-e e sito del Laboratorio E4Sport del Politecnico di Milano.

“Inclusione: costruire una societa’ migliore per tutti”: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #5 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

In questo numero intitolato “Inclusion: shaping a better society for all” discutiamo del tema dell’inclusione, declinato in ambito universitario, lavorativo e sociale.

Ne parliamo con Donatella Sciuto, Prorettrice del Politecnico di Milano, che ci racconta come le università possano contribuire a ridurre il divario di genere nello studio delle materie STEM, e debbano farsi promotrici di un’inclusione a tutto tondo, creando le condizioni per accogliere la diversità in tutte le sue forme.

Diversità che può essere valore aggiunto nelle aziende, come spiega Guido Micheli nel suo editoriale sull’inclusione dei lavoratori disabili.

Emanuele Lettieri racconta la sfida dell’Healthy Ageing, ossia come invecchiare in salute ed essere “inclusi” come soggetti attivi e partecipativi nella società il più a lungo possibile.

Infine una riflessione di Lucio Lamberti e Alessandro Perego sulla progressiva “remotizzazione” del lavoro e della formazione, che ha stravolto tutti i modelli sociali tradizionali, e la proposta di una piattaforma multidisciplinare per lo studio di benefici e costi sociali della nuova remote economy.

Nelle “Stories” alcuni nostri nuovi progetti di ricerca e azioni sul territorio: dal percorso di dottorato sulla sostenibilità aerea, ai risultati dei Food Hub di quartiere nella lotta contro lo spreco alimentare.

 

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I numeri precedenti:

  • # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”
  • Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses
  • #2 “Being entrepreneurial in a high-tech world”
  • #3 “New connections in the post-covid era”
  • #4 “Multidisciplinarity: a new discipline”

L’inclusione lavorativa: saperci tutti diversi aumenta il potenziale competitivo

Possiamo ancora accettare che l’in-clusione venga spesso sostituita da una re-clusione? Non è solo una questione di etica: il riconoscere che ogni operatore ha un suo potenziale valore per l’azienda diventa una leva per configurare sistemi produttivi sempre più competitivi.

 

Guido J.L. Micheli, Professore associato di Industrial Plants Engineering and Management
School of Management Politecnico di Milano

In ogni cosa esistono dei tempi minimi necessari perché una evoluzione cominci a dare qualche effetto. Nel nostro Paese la costituzione recita che l’Italia è una “Repubblica […] fondata sul lavoro”, tuttavia solo negli ultimi decenni si è cominciato ad affrontare in qualche modo il problema dell’inclusione lavorativa degli operatori disabili, che – salvo rarissimi casi – non presentano le caratteristiche “standard” che le aziende ricercano nei propri impiegati.

Semplificando, il processo si muove attualmente su due fronti. Da una parte, un grande numero di aziende è obbligato per legge ad assumere operatori disabili; dall’altra, esistono aziende (le cooperative sociali di tipo B) il cui fine ultimo è quello di preparare al lavoro persone disabili (anche dette, in questo caso, “svantaggiate”). Nella grande casistica delle aziende che sono obbligate ad assumere personale disabile, la deriva assai frequente è alternativamente l’assunzione di una persona che viene poi “isolata” in compiti di poco valore per l’azienda stessa (in altre parole, assunti ma non inclusi) oppure la scelta deliberata di pagare le penali annesse alla non assunzione, considerate paradossalmente “sostenibili” se confrontate con l’onere della gestione di una persona considerata di poco valore aggiunto.
Perché questa situazione? La motivazione è, tutto sommato, abbastanza semplice: le aziende sono abituate e vogliono continuare a lavorare in situazioni in cui ogni attività, macchina, attrezzatura, luogo, processo è progettato per persone “standard”. Ogni differenza è vissuta come origine di inefficienza.

È senz’altro vero che la formazione iniziale e continua degli operatori disabili è in certi casi significativamente maggiore, ma perché? Una delle risposte è facilmente identificabile: lo sforzo nella formazione/preparazione degli operatori disabili a qualsivoglia mansione lavorativa è collegato all’obiettivo stesso di tale formazione, ossia fornire loro le stesse capacità di operatori non disabili. In altre parole, anche la formazione che le aziende immaginano e mettono in pratica non è inclusiva, bensì volta ad uniformare gli operatori disabili agli altri.

Cosa occorrerebbe fare per cambiare lo status quo?

Serve un profondo cambiamento culturale. Le aziende devono studiare criticamente i propri processi, per identificarne le porzioni che possano essere svolte con caratteristiche “diverse”; così facendo, tali “caratteristiche diverse” non richiedono più uno sforzo per essere adeguate e incluse, ma diventano naturalmente funzionali, e quindi naturalmente incluse.

Questo tipo di analisi è ciò che le cooperative sociali (aziende manifatturiere o agricole vere e proprie, che impiegano primariamente operatori disabili) devono necessariamente fare ogni giorno, per capire ad esempio come un processo di assemblaggio possa essere “suddiviso e supportato” per essere efficientemente ed efficacemente svolto da operatori disabili, spesso diversissimi fra loro.

Questa attenzione ai processi porta come effetto secondario una semplificazione degli stessi, e quindi una riduzione degli errori, che si traduce in una riduzione degli scarti, e complessivamente in un aumento dell’efficienza.
Allora, l’avere coscienza che in azienda tutti sono “diversi”, può diventare un’importante leva di cambiamento: ogni attività, macchina, attrezzatura, luogo, processo, che una volta erano progettati per persone “standard”, possono essere finalmente progettati in maniera operatore-centrica e non standard-centrica.

A cosa serve la flessibilità dei componenti dei sistemi produttivi (macchine, linee, ruoli, …), tanto ricercata negli ultimi decenni, se poi non viene usata in modo continuativo per rivedere i processi e le mansioni, alla ricerca di una sempre migliore configurazione complessiva del sistema? Se questo fosse l’approccio, l’inclusione non sarebbe più da ricercare come tale.
Stiamo comprendendo che l’inclusione non può essere forzata: se viene imposta, come da approccio legislativo , in molti casi si trasforma in reclusione. Invece, il riconoscere che ogni operatore ha un suo potenziale valore per l’azienda diventa una leva per configurare sistemi produttivi e renderli sempre più competitivi.

D’altronde, chi di noi non ha mai pensato “ho in mente la persona giusta per questo”? Ecco, si tratta semplicemente di cominciare a riconoscere in tutte le persone – comprese quelle disabili – i rispettivi punti di forza.
Partiamo da qui. E non chiudiamo gli occhi: qualche azienda già lo fa!

Inclusione: costruire una società migliore per tutti

Intervista a Donatella Sciuto, Prorettrice del Politecnico di Milano

 

Diminuire il divario di genere è parte dell’agenda 2030 degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, anche in relazione all’incidenza femminile nell’ambito delle materie STEM. Discipline che garantiscono tassi di occupazione molto alti ma sono ancora prevalentemente appannaggio degli uomini. Quali sono i fattori che provocano questo divario?

I fattori sono diversi e riconducibili a mio avviso a tre dimensioni: individuale, di contesto e di cultura. Per individuale intendo le attitudini personali; per contesto l’ambiente in cui le ragazze crescono – la famiglia, la scuola, la comunità a loro più vicina; per cultura mi riferisco a quella di un paese o di un’area geografica, che con le proprie regole può influire nelle scelte individuali.

Ancora oggi esiste nel gioco dei bambini la distinzione tra i ruoli maschili e femminili: fin dall’asilo le bambine sono abituate a confrontarsi con determinati modelli e anche quelle cresciute con modelli diversi quando stanno con le loro compagne tendono ad adeguarsi al comportamento “atteso” per non essere emarginate. E crescendo le cose non cambiano, perché nell’adolescenza l’identità di gruppo è ancora più forte.

A livello di contesto familiare solitamente viene favorita una socializzazione di genere e lo stesso vale per l’esposizione alla scienza, alla matematica o alla tecnologia: le ragazze tendono ad essere meno esposte e quindi meno interessate a questi temi, probabilmente anche in virtù dell’identità di gruppo. Mancano i role model di riferimento, che in questa fase della crescita sono di tutt’altro tipo.
Nelle ragazze c’è spesso un livello di propensione al rischio più basso rispetto ai maschi, e proprio per questo le famiglie tendono a proteggerle maggiormente. In alcuni contesti le carriere scientifiche sono considerate più “a rischio” di altre, o comunque meno appropriate alle ragazze perché a maggioranza maschile, alimentando così la paura di un ambiente di lavoro ostile.

A livello culturale ci sono paesi in cui lo studio delle discipline scientifiche è più diffuso, come alcuni paesi dell’Asia, e le ragazze sono di conseguenza più propense a studiarle, anche se questo non si traduce poi necessariamente in carriere scientifiche. In Europa e nei paesi anglosassoni lo studio della scienza è meno diffuso, con l’eccezione dei paesi scandinavi in cui l’uguaglianza di genere è più radicata a tutti i livelli.

Alla luce di questo contesto, qual è il ruolo che devono avere le università nel ridurre il gender gap in questi percorsi di studi?

Possiamo fare tanto, e fin dai primi livelli scolari: lavorando con le scuole possiamo mostrare che scienza e tecnologia non hanno “genere” e sono divertenti e interessanti per tutti.
Con questo obiettivo al Politecnico di Milano negli anni scorsi abbiamo organizzato lezioni e laboratori scientifici per bambini delle scuole elementari in collaborazione con la rivista Focus Junior.

Per creare consapevolezza e favorire l’orientamento l’11 febbraio scorso, giornata che l’ONU dedica a celebrare le donne nella scienza, abbiamo pubblicato un video per aiutare le ragazze a prendere in considerazione ingegneria come percorso universitario.  Il video è ora in distribuzione nelle scuole superiori con cui siamo in contatto. Lavoriamo infatti molto con le scuole secondarie, e in particolare con i docenti di fisica e matematica per un confronto sull’insegnamento finalizzato all’ingegneria. Organizziamo inoltre le Summer School Tech Camp, dedicate agli studenti del terzo e quarto anno di liceo. I Tech Camp si svolgono in inglese, durano una settimana e prevedono lo sviluppo un progetto tecnologico (teoria e pratica) che vengono presentati alle famiglie.

Nel nostro ateneo abbiamo anche deciso di sostenere le ragazze con delle borse di studio specifiche. Il programma Girls@Polimi intende favorire la loro iscrizione ai corsi di laurea in ingegneria in cui sono meno rappresentate, offrendo un supporto economico supplementare finanziato da aziende: il primo anno ne avevamo 2, il secondo 12 e ora 20. Poi ci sono borse di studio per studentesse di laurea magistrale, e percorsi di mentoring, sempre in collaborazione con aziende.

Infine, ma questo vale come premessa, oltre a orientamento e sostegno, le università devono garantire l’uguaglianza e bandire qualsiasi forma di discriminazione.

Il nostro paese in Europa registra una percentuale di dottoresse di ricerca, in totale e anche nelle aree STEM, superiore a quelle di Spagna, Regno Unito, Francia e Germania (*rapporto del ministero dell’Istruzione sulle carriere femminili in ambito accademico, marzo 2020). Significa che stiamo andando nella direzione giusta per quanto riguarda la rappresentanza femminile a tendere oppure è solo un primo passo?

Siamo solo ai primi passi. Guardando i dati in maniera più attenta ci si rende conto che sono buoni perché le materie STEM comprendono spesso anche biologia e medicina, che non hanno mai avuto il problema di un divario di genere. Prendiamo ad esempio ingegneria biomedica: nel nostro ateneo le studentesse di questo corso sono il 50%. Tuttavia in altre aree le donne sono pochissime, come elettronica ed informatica ad esempio, in cui da noi il tasso femminile registra meno del 10%, sebbene le professioni informatiche siano richiestissime. A livello di dottorato i dati migliorano perché abbiamo molte studentesse straniere che decidono di studiare qui, quindi la presenza internazionale riduce il divario.

E’ vero che siamo in un periodo storico in cui c’è consapevolezza del problema e si registra un rinnovato interesse da parte delle aziende per ridurre il gender gap, in linea con gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals SDGs), ma la realtà mostra che è il pay gap ad essere ancora importante, e si verifica sin dal primo impiego e a parità di voti negli studi.

Per aiutare le donne dal punto di vista professionale è fondamentale eliminare il pay gap, e per la loro carriera considerarle nella prospettiva della diversità.
Un aumento della rappresentanza femminile è quindi relativo se è riferito solo ad alcune funzioni e a determinate aree aziendali, abitualmente più umanistiche.
In questo senso c’è ancora molto da fare e il giusto spazio nel mondo del lavoro deve essere ancora conquistato.

Oltre alle tematiche di genere, quali sono le sfide di inclusione che a tuo avviso sono più stringenti per il sistema della ricerca e dell’università?

Prima di tutto sostenere la carriera delle donne. Man mano che si sale nella gerarchia accademica le donne sono sempre meno, come rilevato dal rapporto italiano della CRUI. La carriera femminile non deve essere danneggiata dai compiti di cura e da una maternità, per esempio. Noi abbiamo creato un bonus economico per sostenere il rientro delle ricercatrici dopo la maternità e supportarle nella ripresa della loro attività di ricerca scientifica.

A parte questo, credo che in università il tema dell’inclusione debba essere affrontato a tutto tondo: la priorità è creare le condizioni per accogliere la diversità in tutte le sue forme.

Noi lo stiamo facendo con il programma “POP” (Pari Opportunità Politecniche) che ha l’obiettivo di garantire un ambiente di studio e lavoro che rispetti le identità di genere, le diverse abilità, le culture e provenienze. Essendo un ateneo internazionale è importante infatti anche imparare a vivere con persone che appartengono a culture diverse ed è un percorso in cui dobbiamo impegnarci tutti, docenti, studenti e personale amministrativo.  Per raggiungere questi obiettivi, nella riorganizzazione dei servizi del Politecnico dell’anno scorso abbiamo voluto creare una unità organizzativa che segua tutti gli aspetti, chiamata Equal Opportunities, all’interno dell’area Campus Life.

Le persone non devono essere giudicate dalle apparenze, bensì dai meriti.  Solo eliminando ogni tipo di stereotipo o pregiudizio possiamo costruire un mondo inclusivo per tutti.