Privacy e Covid: le vere domande da porsi

Le applicazioni che tracciano gli spostamenti dei cittadini per prevenire il diffondersi incontrollato del contagio sollevano diverse preoccupazioni sul fronte della privacy.
Eppure ogni giorno esponiamo e cediamo i nostri dati volontariamente senza rendercene conto.

 

Tommaso Buganza, Professore di Leadership and Innovation
Daniel Trabucchi, Assistant Professor di Leadership and Innovation
School of Management Politecnico di Milano

 

Stiamo vivendo una situazione senza precedenti. La pandemia globale che abbiamo visto in molti film hollywoodiani è oggi una realtà e – senza popcorn – ha un aspetto completamente diverso.
In Italia – come si spera avvenga presto in altri paesi – il tasso di diffusione ha iniziato finalmente a scendere e la discussione si sta spostando sulla gestione della “Fase 2”. Come sarà il “new normal”? Come sarà vivere in un mondo in cui il virus è sotto controllo, ma ancora presente?

Gli esperti digitali stanno proponendo possibili “scenari futuristici” in cui le applicazioni mobili ci tracceranno per informare immediatamente le persone potenzialmente esposte e interrompere la catena di trasmissione del contagio (si veda, ad esempio, il progetto paneuropeo Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing project). È notizia del 17 aprile la firma del governo per la stipula del contratto per l’app “Immuni”, con l’obiettivo del contact tracing tramite bluetooth.

Nel frattempo, Google ha condiviso dati anonimi per aiutare le forze dell’ordine nell’identificazione di assembramenti durante il lockdown (Giuffrida, 2020; Hamilton, 2020) e ha stretto una partnership con Apple per sviluppare una tecnologia di tracciamento dei contatti (Apple, 2020). Allo stesso tempo, il mondo comincia a guardare avanti, chiedendosi “come” – dato che “se” non è più un’opzione – questa emergenza globale cambierà la nostra vita negli anni a venire. In un articolo sul Financial Times, Yuval Harari descrive le possibili implicazioni dell’utilizzo delle tecnologie disponibili per tracciare i movimenti e i comportamenti delle persone. Da un lato questo aiuterebbe i sistemi sanitari nazionali, ma, dall’altro, il costo potrebbe essere una “nuova normalità” in cui le nostre funzioni vitali sono costantemente misurate, memorizzate e analizzate. È facile immaginare come questa enorme banca dati, insieme alla crescente conoscenza della biomeccanica umana e all’impressionante progresso dell’intelligenza artificiale, possa portare a una riduzione della democrazia e dei diritti civili nei nostri Paesi (Harari, 2020).

Le persone sembrano spaventate, non solo dalla pandemia, ma anche dalla perdita di privacy (Brody and Nix, 2020). Stiamo lentamente ma inesorabilmente perdendo la nostra libertà?

Cosa sappiamo già sull’utilizzo dei nostri dati? I dati sono il nuovo petrolio, sempre più considerati una risorsa preziosa da sfruttare. Sono preziosi perché ci permettono di capire cose che altrimenti non capiremmo. Ci mostrano qualcosa che non conosciamo, sia come individui che come collettività. Ci mostrano cose che sono proprio davanti a noi, ma che sono troppo complicate per essere viste dai singoli cervelli umani.

Pensate a Netflix, uno dei servizi che molti di noi usano intensamente in questi giorni di isolamento. Scegliere un nuovo film o una nuova serie è un’avventura epica. Questo è vero. Ma forse non sapete che Netflix vi ha già reso le cose molto più facili. Probabilmente avrete notato che il “match score” (la percentuale che indica quanto sia probabile che apprezziate il contenuto) è spesso molto alto. Netflix traccia tutti i vostri comportamenti, i film e le serie tv che avete visto, la frequenza di visione e altri dati per proporvi solo contenuti che vi dovrebbero piacere. Se siete curiosi, potete provare a cercate in tutto il catalogo, scoprirete molti altri contenuti che non avete mai notato… e che probabilmente non vi piaceranno!

Questo è solo un esempio… ma la lista di servizi che usiamo quotidianamente, basati su questi meccanismi è molto lunga. Spotify può suggerirci canzoni, Amazon prodotti, la nostra app per il fitness -Runkeeper, Runtastic, Freeletics… – la prossima sessione di allenamento ottimizzata per noi, sulla base delle precedenti.
Potrebbe sembrare qualcosa di distintivo dell’app economy, ma non lo è. Google ha costruito il suo impero su un modello di business basato sui dati, partendo con gli annunci mirati sul loro motore di ricerca, usando gli utenti per taggare le immagini (con il gioco Google Image Labeler) ed anche i captcha per rilevare gli indirizzi (Perez, 2012) o identificare meglio le immagini di street view… con il fine ultimo di supportare lo sviluppo di algoritmi per le auto a guida autonoma (Kid, 2019). Anche imprese non native digitali ormai utilizzano pienamente i dati. Basti pensare a Starbucks che utilizza i dati della sua app per ottenere informazioni sulle abitudini e sui gusti dei propri clienti (Gallea-Pace, 2020).

Le grandi aziende digitali ci conoscono perfettamente, ci conoscono molto di più di quanto immaginiamo. E alcune di loro, nel corso degli anni, sono diventate estremamente brave a trarre profitto e a catturare valore dai dati (Trabucchi et al., 2017, 2018).
Ci “ripagano” con servizi personalizzati o, in alcuni casi, gratuiti… che ci piacciono ancora di più.
Le aziende – ovviamente – devono rispettare tutte le leggi sulla privacy, e il GDPR in Europa ha giocato un ruolo enorme in questo. Tuttavia, possono fare molto con i dati che forniamo loro perché accettiamo i termini di utilizzo… solitamente senza leggerli.

È curioso, ma non è nemmeno la prima volta che la questione della privacy genera degli scandali molto diffusi. Due anni fa, sui social media di tutto il mondo impazzava l’hashtag #LeaveFacebook.
Lo scandalo di Cambridge Analytica ha messo in evidenza il modello di business di Facebook basato sui dati, le sue implicazioni per la nostra privacy, e persino l’impatto che i dati possono avere sulla nostra vita attraverso il micro-targeting e fenomeni simili (Cadwalladr, 2019). In quelle settimane, sembrava che il mondo si stesse rendendo conto di quello che stava succedendo da anni: i dati sono preziosi, le aziende li usano. Guardando Mark Zuckerberg in giacca e cravatta davanti al Congresso degli Stati Uniti, molti di noi pensarono che Facebook sarebbe diventato vuoto come le nostre città in queste settimane. Ma non è successo. Dopo il clamore iniziale, siamo tornati alle nostre abitudini… godiamo troppo dei nostri servizi digitali gratuiti per preoccuparci di come li paghiamo.

Ed eccoci di nuovo qui. In questo momento storico unico, ci ritroviamo a pensare molto a come sarà il “new normal”. Se abbiamo davvero a cuore la nostra privacy, dovremmo chiederci: il nostro prossimo futuro sarà diverso solo in termini di relazioni sociali e di come ci muoviamo o metterà in discussione anche la nostra consolidata vita digitale?
Possiamo ancora riavere la nostra privacy… se vogliamo. Ma, siamo pronti a rinunciare a quei meravigliosi servizi forniti da Netflix, Waze, Amazon, Spotify, Instagram, Facebook, TikTok, Twitter, Snapchat e tutti gli altri?

Questo è il nostro punto: l’improvvisa paura legata all’utilizzo dei dati personali per proteggere la salute pubblica è davvero giustificato? Forse dovremmo invece accettare il fatto che la “nuova normalità” pone domande ancora più difficili da affrontare:

Diamo più valore ai servizi gratuiti che alla salute pubblica?
Ci fidiamo più delle aziende private che dei nostri governi?

Covid-19: l’impatto sull’eCommerce B2c

Il lockdown ha cambiato profondamente le abitudini dei consumatori: gli acquisti online di prodotti alimentari e beni di prima necessità sono cresciuti in modo esponenziale. La reazione dei retailer è stata diversa e condizionata dal comparto merceologico e dalla presenza di un’iniziativa eCommerce. Nella fase di ripresa, una profonda ristrutturazione attende il mondo Retail.

 

Riccardo Mangiaracina, Professore di gestione dei sistemi logistici e produttivi, Responsabile Scientifico Osservatorio eCommerce B2c
Valentina Pontiggia, Direttore Osservatorio eCommerce B2c e Innovazione Digitale nel Retail
School of Management Politecnico di Milano

 

Prima della crisi… l’eCommerce, canale in crescita in Italia e all’estero
Nei mercati più maturi l’eCommerce è diventato un canale di primaria importanza nella generazione dei consumi. Nel 2019 in Cina o in UK, ad esempio, ogni 100 euro spesi dai consumatori, circa 20 sono transitati online. Nei mercati dove l’offerta si è sviluppata con più ritardo, l’online si è comunque appropriato di importanti spazi di crescita del commercio. In Italia, ad esempio, l’eCommerce nel 2019, nonostante abbia rappresentato ancora una piccola parte degli acquisti complessivi (7,3% del totale), ha generato infatti il 65% della crescita Retail complessiva (online + offline) [1] .

Negli ultimi anni, il canale online ha aumentato non solo la dimensione del mercato, ma anche il suo perimetro di azione e di influenza. In prima battuta, l’eCommerce è diventato decisivo nello sviluppo e nella promozione di nuovi modelli di relazione con i consumatori fortemente innovativi che, pur partendo dall’online, si sono propagati a tutto il Retail. Questa trasformazione ha coinvolto l’intera catena del valore: il marketing, dove intelligenza artificiale e realtà aumentata hanno permesso al consumatore di “vivere” il prodotto (sia online sia in store) prima di possederlo; i pagamenti, dove l’utilizzo di biometria, già abbastanza diffuso online, ha acquisito sempre più importanza anche offline; la logistica, dove sono emerse diverse innovazioni sia per migliorare il servizio sia per dare al cliente finale un elevato controllo del processo.
In seconda battuta, il successo dell’eCommerce e la nascita di nuove modalità di acquisto e di interazione hanno cambiato il significato originario del negozio fisico, che non è più l’unica possibilità di accesso fisico al prodotto. In questo processo di trasformazione, i retailer tradizionali hanno attribuito al negozio nuove funzionalità, prevalentemente in ottica relazionale, demandando la fase transazionale all’eCommerce. Tante le sperimentazioni di nuovi format anche sul suolo italiano, in primis su Milano [2].

La rilevanza acquisita dall’eCommerce ha portato con sé anche una maggior attenzione (non sempre in chiave positiva) dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Nuovi obblighi normativi (PSD2 con la cosiddetta Autenticazione Forte del Cliente per autorizzare le transazioni finanziarie online e Web Tax), attenzione ai temi della sostenibilità (non solo economica ma anche ambientale) e la posizione dominante di alcuni grandi colossi, in primis Amazon e Alibaba, sono solo alcuni dei temi più dibattuti.

Durante la crisi… l’eCommerce, strumento per rispondere all’emergenza
Il commercio è uno degli ambiti più impattati dall’emergenza Coronavirus. La reazione dei retailer è stata fortemente condizionata dalla presenza o meno di una propria iniziativa sul canale online.
Molti negozi fisici, soprattutto quelli focalizzati sui beni alimentari e di prima necessità, si sono avvicinati per la prima volta all’eCommerce. La soluzione più immediata è stata l’utilizzo di soggetti terzi già presenti online. Sono diversi i ristoranti che hanno digitalizzato la propria offerta di piatti pronti attraverso piattaforme di food delivery e tanti i supermercati che hanno attivato l’eCommerce mediante alleanze con piattaforme che già da tempo abilitano (dal punto di vista tecnologico e operativo) la spesa online di alcune insegne della grande di distribuzione. Ancora più numerosi i negozi di quartiere che hanno iniziato a lavorare con strumenti digitali meno evoluti dell’eCommerce, ma ugualmente interessanti, come ad esempio i tanti punti vendita di vicinato (negozi di alimentari, farmacie, …) che hanno attivato la presa dell’ordine via whatsapp o per telefono.
Gli attori già presenti online, dall’inizio dell’epidemia, hanno riscontrato un incremento degli ordini riconducibili ai nuovi consumatori, che per la prima volta hanno deciso di utilizzare i loro servizi. In questa emergenza è venuto però alla luce un fatto tanto semplice quanto importante. Nelle iniziative online, soprattutto di prodotti alimentari, le operations hanno dettato con violenza i ritmi e soprattutto hanno imposto i limiti. Fare eCommerce richiede impegno e una macchina operativa perfettamente funzionante ed efficiente: processi ottimizzati di picking e di trasporto, soprattutto quando parliamo di spesa da “supermercato” (che per onor di cronaca è costituita mediamente da 50 pezzi, di basso valore unitario e che richiedono trattamenti speciali come il trasporto a temperatura controllata). Le dipendenze tra mondo fisico e digitale sono emerse anche con altre sfumature: tutti quei retailer multicanale di abbigliamento, beauty, informatica ed elettronica, costretti alla chiusura dei propri negozi, hanno trovato nell’online una preziosa possibilità per mantenere la relazione, in alcuni casi intensificandola, e per creare valore (e non vendite) con i propri consumatori. A questo proposito si citano l’invio di questionari agli utenti per raccogliere opinioni e spunti di miglioramento e l’erogazione di corsi online (di fitness, di cucina,…) correlati ai prodotti commercializzati.
Durante la crisi abbiamo visto, quindi, cadere una dopo l’altra le barriere all’integrazione omnicanale che avevano bloccato per anni lo sviluppo della strategia digitale dei retailer italiani. La gestione dell’emergenza ha convinto anche i più restii al cambiamento, a superare gli scontri interni tra funzioni, a definire chiare responsabilità e a dedicare il giusto commitment per realizzare una nuova idea di commercio, integrato e indipendente dai canali. Via libera dunque agli investimenti per potenziare il canale eCommerce o per favorire modalità di vendita fondate sull’integrazione tra esperienze online e offline, come il click&collect, il drive&collect o l’allestimento degli ordini online in store.

Dopo la crisi… l’eCommerce, elemento imprescindibile per la ripresa del commercio
In questi giorni di emergenza sono tante le domande che ci poniamo sugli effetti e sulle mutazioni che ci attendono nel mondo del commercio. Tra le poche certezze, ci sono a nostro avviso la vicinanza che i canali online e fisico stanno dimostrando con forza in questo momento difficile e il ruolo indispensabile che l’eCommerce svolgerà per la ripresa del commercio e dei consumi.
Mai come durante l’emergenza sanitaria i consumatori italiani hanno compreso il valore di questo canale: l’eCommerce ha consentito a una larga fetta della popolazione di fruire di servizi a valore aggiunto, importanti ed essenziali come la consegna di cibo. Crescita dei web shopper (che a fine 2019 erano pari a poco più di un terzo della popolazione italiana), maggior dimestichezza e fiducia nell’online e nei pagamenti digitali (anche da parte di chi online acquistava già) potranno generare un effetto positivo nello sviluppo dell’eCommerce.
Dall’altra parte, lo sforzo encomiabile messo in campo da diversi attori non verrà vanificato: a crisi finita rimarranno gli investimenti in tecnologia (per gestire picchi di traffico), la presenza di nuovo personale formato e l’ottimizzazione di processi di prelievo e di trasporto per gestire al meglio non solo questa domanda “straordinaria”, ma anche un futuro in cui il digitale sarà sempre più fondamentale.
L’eCommerce sarà sempre più motore di crescita e di innovazione del Retail: quando avremo lasciato alle spalle questa crisi, cercheremo come consumatori una nuova normalità, sicuramente più digitale. Una sfida importante per il nostro Retail!

 

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[1] Fonte: Osservatorio eCommerce B2c – School of Management Politecnico di Milano.
[2] Per i risultati completi della Ricerca, “eCommerce: motore di crescita e innovazione del Retail” disponibile su www.osservatori.net

Emergenza Covid in Italia: l’effetto startup da non vanificare

Le startup hanno nel proprio DNA la capacità di adattarsi al cambiamento e in questa emergenza hanno messo a disposizione idee, capacità di lavoro e velocità di reazione, spesso pensando prima all’interesse della comunità piuttosto che al ritorno economico. Un asset del nostro tessuto imprenditoriale che va sostenuto e incentivato.

 

Alessandra Luksch, Direttore Osservatorio Startup Intelligence
Osservatori Digital Innovation, School of Management Politecnico di Milano

 

L’emergenza Coronavirus ha stravolto il mondo consolidato delle imprese. Per fare qualche esempio, le industrie manifatturiere sono costrette a condizioni di lavoro inusuali, gli operatori logistici oscillano tra impennate nelle consegne e fermi totali, gli esercizi commerciali, banche comprese, devono attrezzarsi per una nuova gestione della clientela.
In questo contesto di repentino inatteso cambiamento, in cui le imprese tradizionali e le istituzioni sono disorientate, l’ecosistema startup sembra trovare vie per supportare la nuova quotidianità imposta.

La bresciana Isinnova ha risposto immediatamente all’emergenza e progettato valvole per i respiratori per i pazienti Covid-19, da installare su maschere da snorkeling. Ha poi rilasciato pubblicamente il brevetto per stampa 3D, a patto che non venisse usato a scopo di lucro. Oggi sono milioni i pezzi stampati in tutto il mondo e decine gli ospedali che provano la dotazione. Ufirst sta fornendo gratuitamente l’app di gestione delle code agli esercizi commerciali, così come si sta diffondendo in modo free la neonata Filaindiana per conoscere la lunghezza delle file nei negozi. Soldo, startup per la gestione delle spese aziendali, sta lavorando con decine di comuni, tra cui Milano, per gestire la distribuzione dei sussidi alimentari. Weschool ha donato a centinaia di scuole italiane la propria piattaforma di didattica a distanza, formando i docenti e sostenendo i costi per il servizio in cloud. E tante si stanno adattando al cambiamento come FrescoFrigo, che ora installa i suoi punti di consegna anche nei condomini. Non mancano anche i casi di fallimento, ma la lista può continuare, come sta monitorando l’Osservatorio Startup Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano.

Non siamo stupiti. Le startup hanno nel proprio DNA la capacità di adattarsi al cambiamento e in molti casi fanno del cambiamento la propria spinta propulsiva. Il modello lean startup, teorizzato da Eric Ries, è agile, resiliente, frugale, orientato alla sperimentazione veloce, alla centralità del cliente. Le startup sono abituate ad ascoltare costantemente il mercato, a testare in pochi giorni nuovi prodotti o nuovi mercati, a cambiare strategia, cliente, modello di business, a sfruttare le tecnologie. In questo frangente esse stanno mettendo a disposizione velocemente le loro principali risorse: idee e capacità di lavoro; spesso pensando prima all’interesse della comunità piuttosto che al ritorno economico.

Questo sforzo prodigioso, questo “effetto startup”, manifestatosi così forte in un momento così grave, non deve essere vanificato nel nostro Paese ma si spera possa essere valorizzato come patrimonio di sistema. Due, almeno, sono le riflessioni da cui parte questo augurio.

La prima riflessione è relativa all’effetto culturale. L’approccio mostrato dalle startup potrà essere la chiave di volta per affrontare le prossime fasi e portarci verso la nuova normalità. Le imprese tradizionali devono imparare a ragionare come le startup, per adattarsi e sopravvivere ai cambiamenti (come recita Darwin). In Italia già oggi il 35% delle grandi imprese collabora con le startup, come emerge dalle ricerche dell’Osservatorio Startup Intelligence, mentre è molto più limitato il fenomeno nelle PMI (4%). Le imprese tradizionali dovranno imparare a uscire dai propri modelli rigidi, dalle procedure impaludate, superare al proprio interno silos funzionali, o ancor peggio culturali. Dovranno saper prendere rapidamente decisioni, anche sulla base di errori perché, parafrasando una famosa citazione del pilota Mario Andretti, in questo momento dobbiamo andare veloci anche a rischio di non avere tutto sotto controllo. Superato questo drammatico momento, le imprese che avranno saputo adottare nuovi modelli culturali e di gestione d’impresa possiederanno un importante vantaggio competitivo rispetto a quelle che avranno solo cercato di limitare i danni.
Pochi giorni fa, lo stesso Henry Chesbrough, padre del concetto di Open Innovation, ha dedicato un articolo all’emergenza Coronavirus, in cui sottolinea che in tempo di crisi, come quello che stiamo vivendo a livello mondiale, la velocità è elemento cruciale. Prima conosciamo, prima possiamo agire. Altrettanto cruciale è sapere collaborare perché questo può potenziare il progresso collettivo, e Chesbrough chiama alle armi alcune note aziende affinché mettano a disposizione i propri bevetti (magari inutilizzati) e i propri asset per fronteggiare l’emergenza.

La seconda riflessione riguarda l’effetto sul sistema economico. Molte imprese stanno soffrendo l’assenza di liquidità. L’emergenza ha portato uno shock nell’offerta ma anche un profondo shock nella domanda. Si stima una caduta del Pil interno di quasi dieci punti percentuali (Confindustria); non va meglio nel resto del mondo (primo trimestre 2020 in Cina -6,8%) e per quasi tutte le imprese permane l’incertezza per il futuro. In questa condizione quasi tutti gli investimenti sono stati bloccati, per qualsiasi cifra superiore a zero. Gli investimenti in startup non fanno eccezione. In questo periodo i round di investimenti in Cina si sono dimezzati (Fortune Italia), e alcuni studi stimano che nel 2020 verranno perse decine di miliardi di dollari di investimenti in startup, con ulteriori ricadute drammatiche sull’ecosistema globale (Fortune Italia). Il nostro ecosistema di finanziamenti alle startup non ha le spalle larghe, esso non raggiunge il miliardo di euro, secondo i dati dell’Osservatorio Startup Hi-tech, ed è di gran lunga sottodimensionato rispetto a tutti i Paesi europei con noi confrontabili. Il lavoro degli investitori formali, i Venture Capital, non si è completamente fermato ed essi chiamano a gran voce, insieme alle associazioni, l’aiuto dello Stato per sostenere questo comparto della nostra economia, così come ha fatto la Francia con 4 miliardi di euro di sostegno alle startup. Le startup spesso non fatturano, non rientrando così nei requisiti dei piani liquidità attuali di sostegno alle imprese. Ma esse investono in Ricerca e Sviluppo, la linfa vitale per lo sviluppo, il progresso e la crescita del nostro Paese. Inoltre, esse sono fonte cruciale di nuova occupazione qualificata: negli Stati Uniti il 95% dei nuovi posti di lavoro è creato da imprese con meno di 5 anni (US Census Bureau). Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro la crisi attuale potrebbe causare 25 milioni di disoccupati in tutto il mondo, assai peggio della crisi del 2008. Fermare l’ecosistema startup potrebbe significare bloccare un meccanismo potente di riavvio e di crescita nel nostro Paese.

Per almeno questi motivi l’effetto startup a cui stiamo assistendo non deve essere vanificato, ma deve essere incentivato, per non compromettere una parte promettente del nostro tessuto imprenditoriale. Le startup non devono essere dimenticate, ma sostenute. Determinanti saranno gli interventi che il nostro Governo saprà mettere in campo, dall’iniezione di credito nei circuiti dei finanziamenti all’alleggerimento degli oneri a carico delle startup.
Nessuno sa ancora come sarà domani, ma la mentalità e l’ecosistema startup nel loro complesso potranno contribuire, come già ora fanno, alla ripartenza di tutto il nostro sistema economico.

La crisi globale da Covid-19 e le ripercussioni sul commercio internazionale e sulle catene globali del valore

Lo shock all’economia mondiale provocato dall’emergenza sanitaria Covid-19 è tanto globale quanto le catene del valore su cui si basa. Ma chiudere le frontiere e applicare restrizioni agli scambi non è una soluzione auspicabile: agire in modo coordinato può garantire una ripartenza efficace per tutti i sistemi economici, bilanciando le necessità e le capacità produttive dei singoli paesi.

 

Lucia Tajoli, professoressa di International Markets and European Institution
School of Management Politecnico di Milano

 

E’ ancora presto per avere dati ufficiali e stabilizzati, ma è oramai molto chiaro che la diffusione del cosiddetto COVID-19 e la associata pandemia stanno avendo effetti molto pesanti sull’economia mondiale, con chiare implicazioni anche per il commercio internazionale.
Il commercio internazionale risultava già in decelerazione nell’ultima parte del 2019, a causa del generale rallentamento del ciclo economico in molti paesi. I primi mesi del 2020 stanno confermando questo forte rallentamento degli scambi. La World Trade Organization (WTO) sta aggiornando in modo continuo le previsioni per l’anno in corso, che risultano al ribasso sia per gli scambi di beni sia per gli scambi di servizi a seguito dello shock sulla produzione e sulla domanda che si sta allargando a vari paesi. Dato l’elevato livello di incertezza però, le maggiori istituzioni internazionali non si azzardano ancora a fornire cifre precise. Anche le stime prodotte dal WTO nel mese di aprile sulla possibile caduta degli scambi mostrano un intervallo amplissimo, tra – 13% e – 32%.

La caduta del commercio internazionale è una conseguenza inevitabile della situazione attuale, dal momento che le aree al momento più coinvolte nella crisi sanitaria con gravi ripercussioni economiche sono quelle dei maggiori protagonisti del commercio mondiale: Cina, Unione Europea, ed USA generano oltre la metà dell’intero commercio mondiale. Dunque, l’impatto del rallentamento in questi paesi si fa sentire sui flussi di scambio a livello globale, anche in aree relativamente poco esposte al contagio.

Un aspetto particolare degli scambi commerciali rende più grave l’effetto della crisi e preoccupa gli osservatori. Da almeno venti anni è cresciuto il peso e il ruolo delle catene globali del valore nei mercati mondiali. Secondo un recente rapporto della Banca Mondiale, oggigiorno la maggior parte dei flussi di scambio tra paesi avviene all’interno delle catene globali del valore (o Global Value Chains, GVCs), ovvero è generato da processi produttivi che attraversano i confini dei paesi e coinvolgono nella catena di produzione di beni, soprattutto complessi, imprese specializzate localizzate in aree anche lontane. Il ruolo di queste catene globali del valore in questa crisi appare cruciale. Secondo alcuni osservatori, questa organizzazione internazionale della produzione ha creato un sistema economico fragile e maggiormente esposto agli shock internazionali. Il rischio di una interruzione della fornitura degli input necessari per la produzione è maggiore in una catena produttiva molto dispersa geograficamente. Inoltre, la presenza di queste catene produttive può amplificare la trasmissione degli shock secondo il cosiddetto “effetto frusta”. In presenza di uno shock negativo che colpisce quasi simultaneamente molti paesi economicamente connessi, il rallentamento della produzione di un sistema economico fornitore di input produttivi essenziali si trasmette ai sistemi connessi a valle, riducendone la capacità di produzione, aggiungendo un ulteriore stretta negativa al rallentamento locale della produzione (che può essere dovuto a fattori locali sia di domanda che di offerta), ed amplificando quindi lo shock. Le aree in cui la diffusione dell’epidemia è risultata maggiore sono tra loro strettamente collegate dalle GVCs in molti settori cruciali, dal tessile-abbigliamento all’elettronica di consumo. Per questo effetto di amplificazione dello shock, le previsioni sull’andamento dell’economia globale e sul commercio internazionale sono più negative che in qualsiasi altra crisi del passato.

E’ importante però ricordare che queste catene globali di produzione, anche se hanno reso più interdipendenti le diverse economie tra loro, hanno generato enormi guadagni di efficienza in moltissimi settori e hanno reso disponibili molti beni a prezzi che hanno consentito una diffusione di massa tra tutti i consumatori. Senza la specializzazione in specifiche fasi e componenti della produzione di alcuni paesi e di imprese collegate tra loro, molti dei beni oggigiorno di uso comune non sarebbero disponibili, o lo sarebbero a costi proibitivi. Inoltre, questa organizzazione della produzione ha consentito la partecipazione ai mercati internazionali anche a paesi emergenti che hanno trovato nelle GVCs una modalità di accesso a produzioni che non avrebbero potuto sviluppare in modo autonomo, generando così crescita, occupazione e diffusione della tecnologia.

Già prima dell’attuale crisi si parlava di una tendenza all’accorciamento delle GVCs e del cosiddetto “reshoring”, ovvero di riportare all’interno di alcuni paesi i cicli produttivi in precedenza delocalizzati all’estero. Questo perché questa organizzazione internazionale della produzione, anche se permette guadagni di efficienza e vantaggi di costo, per alcune imprese e alcuni settori risulta troppo complessa, con la perdita del controllo diretto su alcune fasi produttive ed un aumento dei rischi e dei costi organizzativi. In realtà, il fenomeno del reshoring è stato limitato ad alcuni paesi e ad alcune nicchie produttive particolari. La mancanza di controllo sul ciclo produttivo appare potenzialmente rischiosa per alcuni paesi, prima di tutti per la Cina, spingendola negli ultimi anni ad accorciare le proprie catene internazionali di produzione per ragioni soprattutto geopolitiche. Questa scelta ha avuto effetti a livello globale data la rilevanza economica di questo paese. Tuttavia, la crisi in corso potrebbe spingere ulteriormente sul ridimensionamento delle catene produttive internazionali, anche nel tentativo di ridurre l’interdipendenza dei paesi.

Va però ricordato che anche in questa fase di crisi, gli scambi tra paesi svolgono un ruolo fondamentale, ed è essenziale cercare di non ostacolarli eccessivamente. Il commercio internazionale spesso garantisce la disponibilità e l’accessibilità economica di medicinali vitali, prodotti medici e servizi sanitari, in particolare per i paesi più vulnerabili: nessun paese è completamente autosufficiente per i prodotti e le attrezzature di cui ha bisogno per i suoi sistemi di sanità pubblica. Anche molte attrezzature mediche sono prodotte all’interno di GVCs che rendono disponibili componenti avanzate non sempre facilmente prodotte in tutti i paesi. Inoltre, attraverso il commercio internazionale è possibile sopperire a carenze della produzione, oltre che di apparecchiature sanitarie e di farmaci, anche di varie tipologie di beni di prima necessità, distribuendo in modo più efficiente questi beni dove sono più necessari. In questa situazione di emergenza, nonostante la tentazione di alcuni paesi di chiudere le frontiere e di applicare restrizioni agli scambi per accumulare scorte, i governi si accorgono anche di avere bisogno gli uni degli altri e dell’importanza di agire per quanto possibile in modo coordinato a fronte di un problema che è assolutamente globale.

Un ridimensionamento drastico delle catene globali del valore avrebbe conseguenze molto serie, sia nel corso della crisi per gli effetti che questo avrebbe su molti approvvigionamenti, sia in seguito alla crisi impattando su molti settori fondamentali che si sono sviluppati grazie a questa interdipendenza. L’attuale crisi può però essere l’occasione per ripensare ad alcuni aspetti organizzativi di queste catene produttive, accettando un ribilanciamento tra vantaggi e rischi, nella direzione eventualmente di una parziale riduzione di efficienza per ottenere una riduzione dei rischi, per esempio accumulando maggiori scorte o diversificando di più i fornitori, i distributori o i canali logistici. Eppure, proprio una crisi così acuta e la necessità di assicurare una ripartenza efficace dei sistemi economici sottolinea l’importanza di non rinunciare ad una modalità di organizzazione internazionale della produzione che ha prodotto miglioramenti economici fondamentali, e di mantenere aperti gli scambi internazionali proprio come mezzo per bilanciare le necessità e le capacità produttive dei singoli paesi.

Figura 1 – Partecipazione dei paesi alle catene globali del valore (dati 2015)

Fonte: World Bank, World Development Report 2020

 

Figura 2 – Aumento tendenziale del coinvolgimento nelle GVCs nei settori produttivi

Fonte: World Bank, World Development Report 2020

I cambiamenti nella logistica a fronte del Covid-19

La pandemia Covid-19 ha imposto al settore della logistica, più che in altri, di adattarsi rapidamente alle nuove necessità dei territori, delle filiere e dei consumatori, sperimentando nuovi modelli collaborativi e organizzativi basati su flessibilità e digitalizzazione. Il punto di partenza per affrontare le prossime sfide.

 

Prof Marco Melacini, professore di Logistics Management, Direttore Osservatorio Contract Logistics “Gino Marchet”
School of Management Politecnico di Milano

 

La risposta all’emergenza che la popolazione sta vivendo vede in prima linea il sistema sanitario, a fianco del quale stanno lavorando altri comparti che forniscono i servizi essenziali. A garantire il loro funzionamento attraverso l’approvvigionamento di tutti i prodotti necessari, c’è la logistica, le cui origini in ambito militare hanno fornito i cromosomi per affrontare la sfida odierna. Sebbene siamo ancora in piena emergenza è utile cominciare a pensare alla “fase 2” e a come cambierà la logistica, soprattutto perché difficilmente il Paese riprenderà a funzionare come prima nel medio periodo e ci potranno essere diversi momenti di stop and go, magari con applicazione delle “zone rosse” a aree del Paese più limitate.

Il modo migliore per rispondere alla domanda su come cambierà la logistica è osservare la reazione mostrata nell’ultimo mese, che ha sconvolto la vita di ognuno e delle aziende, con particolare attenzione alla logistica della filiera farmaceutica e di quella alimentare, che hanno mantenuto una piena operatività.

In primo luogo, emerge l’importanza di adottare una strategia “agile” rispetto a una strategia maggiormente orientata alla minimizzazione dei costi in un contesto di domanda prevedibile. Concretamente questo significa lavorare con una maggiore ridondanza di risorse (in primis magazzini) per poter riallocare velocemente le scorte e superare le criticità, come lo stop delle attività, a livello locale. L’implementazione di tale strategia richiede anche un incremento della velocità decisionale, in cui le scelte devono essere sempre più data driven e dinamiche. Per la parte di pianificazione, un metodo adottato è stato lo smart working, la cui efficacia è stata maggiore per le aziende che avevano già sperimentato questa modalità di lavoro da remoto e che adottano tecnologie e software in cloud. Quest’ultime infatti facilitano l’accesso ai sistemi informatici da remoto e favoriscono l’incremento della visibility lungo la filiera.

Esiste poi una parte di attività che rimane forzatamente sul campo, come l’allestimento degli ordini e il trasporto. Su queste è fondamentale declinare il concetto di responsabilità sociale in termini di sicurezza del luogo di lavoro. Concretamente questo si è tradotto nella distribuzione dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) per tutti i lavoratori, nella frequente sanificazione dei luoghi di lavoro (magazzini, cabine dei mezzi di trasporto, ma anche risorse utilizzate come terminali o supporti di movimentazione come le cassette per la consegna dei farmaci), nel monitoraggio delle temperature corporee di tutte le persone prima dell’accesso al sito, oltre che nella revisione delle procedure operative (ad esempio per ridurre la condivisione di risorse, come le cuffie per il voice picking, o aumentare le distanze fra gli operatori). La riduzione dei “contatti” fisici sarà sempre più favorita dalla digitalizzazione della filiera, che consentirà ad esempio di evitare la stampa e la gestione cartacea dei documenti di trasporto.

La strategia “agile” si basa anche sul concetto di flessibilità, che consente di implementare velocemente le soluzioni più idonee per rispondere ai cambiamenti del contesto. In questa situazione le aziende sono riuscite ad essere flessibili grazie alla terziarizzazione della logistica e al modello di terziarizzazione adottato nel Paese. Alcuni operatori logistici hanno riallocato in poco tempo merci per oltre 25.000 m2 di occupazione di magazzino. La collaborazione orizzontale fra gli operatori della logistica conto terzi (un settore che vale oltre 84 miliardi di fatturato) è risultata e sarà sempre più fondamentale anche in un’ottica di sharing economy. La collaborazione ha significato l’impiego di camion/autisti fermi di operatori di altre filiere per gestire le crescite elevate della domanda e soprattutto i picchi improvvisi, generati nei consumi a fronte dei timori della popolazione. Analogamente è stato possibile spostare personale di magazzino da siti le cui attività si erano fermate, supplendo alla riduzione di capacità operativa a fronte di una fisiologica crescita dell’assenteismo. Il rapporto stretto fra azienda e lavoratore, tipico del modello cooperativo, ha favorito la comunicazione all’interno dell’azienda e la risoluzione di potenziali aree di rischio, oltre che una maggiore flessibilità operativa, volta a compensare parzialmente l’inevitabile perdita di produttività. Soprattutto si è passati ad una pianificazione giornaliera delle attività, lavorando in stretto contatto con le aziende committenti per allineare il più possibile la capacità logistica alla domanda di mercato. Tale attività è fondamentale per garantire la sostenibilità economica in un contesto a margini contenuti come la logistica conto terzi.

Il contesto che stiamo vivendo ha portato ad un modello di coordinamento specifico per le emergenze: riunioni frequenti di allineamento, adozione di scelte che nel breve periodo non sempre ottimizzano i costi (si pensi alla maggiore difficoltà di trovare i viaggi di ritorno o le distanze da rispettare in magazzino, a discapito della produttività) ma garantiscono la continuità del servizio, relazione di collaborazione con le aziende committenti che va oltre al contratto di outsourcing, con un approccio open book, e condivisione dei segnali di mercato e delle scelte operative.

A livello di macro-scelte strategiche, accanto all’analisi critica del livello di servizio da fornire in futuro in base alle riflessioni contingenti (ad esempio alcune aziende hanno ridotto il numero di consegne per punto di destino per ridurre la frammentazione degli ordini), emerge la centralità della capacità di consegna in ambito urbano, non solo a livello di consegne a domicilio (l’e-commerce ha fatto il salto definitivo per il suo sviluppo in Italia con crescite superiori al 50%) ma anche a livello di singolo punto vendita con la riscoperta del valore dei negozi di prossimità (spesso utilizzati anche come punti di allestimento per le consegne in ambito urbano in una prospettiva di omnicanalità). La stessa logistica urbana, con origine e destinazione all’interno della città, sarà sempre più importante. Sempre in ambito trasporto, si osserva lo sviluppo dell’intermodalità strada-ferrovia, fondamentale per superare i blocchi nel trasporto fra paesi della Comunità Europea, oltre che per gestire in futuro l’attraversamento/l’approvvigionamento di nuove “zone rosse”. Da ultimo l’automazione di magazzino, ad oggi ancora poco sviluppata, sarà sempre più rilevante anche per favorire il lavoro in luoghi protetti e con minore concentrazione di persone.

Tempi di attraversamento alle “frontiere” fra gli Stati Europei (fonte: sixfold.com/covid-19)

In conclusione, anche per la logistica non si tratta semplicemente di tornare alla “normalità”, ma di trovare nuovi equilibri che ci permetteranno di affrontare non solo questa sfida ma quelle future, quali il rischio di una recessione economica e la necessità di una sempre maggiore attenzione al tema del cambiamento climatico.

 

Smart Learning al tempo dell’emergenza Coronavirus … e oltre

Federico Frattini, Dean MIP Graduate School of Business

L’attuale emergenza provocata dal Coronavirus ha costretto scuole e università in Italia (ma è probabile che a breve anche altri Paesi si troveranno nella stessa situazione) a passare alla formazione online per garantire continuità ai loro programmi didattici. Alcune istituzioni sono più preparate alla transizione a causa di esperienze precedenti in questo ambito, altre invece si trovano a sperimentare per la prima volta questi nuovi approcci all’insegnamento in risposta all’attuale emergenza. In Italia si riscontra tuttavia un impegno forte e generalizzato in questa direzione, segno che i tempi per la formazione online sono maturi e che è possibile utilizzarla nel concreto.

La più grande sfida in questa transizione è riconoscere che la formazione online non è soltanto questione di usare una piattaforma digitale per insegnare la stessa lezione che si sarebbe tenuta in un contesto fisico. La formazione online richiede in realtà una profonda riorganizzazione dell’approccio didattico e l’utilizzo di diversi strumenti digitali per soddisfare diverse esigenze didattiche. In particolare è necessario riconoscere che in una classica lezione in presenza, il docente combina tre diversi strumenti didattici. Anzitutto occorre trasferire a ciascuno studente concetti, strumenti e nozioni (che potremmo definire nel complesso conoscenze) relative a una determinata disciplina. In secondo luogo, i professori devono incoraggiare gli studenti ad applicare queste conoscenze alla risoluzione di questioni pratiche, trasformando così le conoscenze in competenze. Infine, gli studenti devono socializzare queste competenze, coinvolgendole in discussioni sui punti salienti della lezione e avvicinandole alla loro esperienza personale. Naturalmente l’importanza di queste tre componenti varia a seconda del contesto didattico. Nei programmi post-laurea, l’applicazione delle conoscenze e la loro socializzazione sono di primaria importanza. A scuola invece è prioritario il trasferimento di concetti, nozioni e strumenti.

In un contesto online non è possibile unire e combinare queste tre componenti di una lezione fisica usando un singolo strumento digitale. Esse devono essere scorporate e insegnate usando metodi diversi e opportunamente progettati. Il modo migliore per trasferire conoscenze è l’utilizzo di materiali digitali di autoapprendimento asincrono, come video registrati dal professore o selezionati dalla vastissima offerta di materiali didattici disponibili sul web (per esempio le note piattaforme di MOOC come Coursera o EdX). Per l’applicazione di tali conoscenze a casi ed esempi reali è possibile organizzare sessioni online dal vivo con strumenti come Microsoft Teams, Google Hangout, Cisco WebEx, Slack, Zoom o piattaforme analoghe. Infine, la socializzazione delle competenze acquisite può essere supportata da strumenti di discussione sociale semisincroni adeguatamente moderati da professori o tutor. Soltanto con un’accurata progettazione di queste tre componenti costitutive di un’esperienza didattica efficace le scuole e le università riusciranno a trasferire la loro formazione online con risultati soddisfacenti.

Al MIP, la Graduate School of Business del Politecnico di Milano, questo approccio che utilizziamo già dal 2014 nei nostri master digitali e nei nostri programmi MBA prende il nome di smart learning. Si tratta di un settore in cui abbiamo ottenuto ottimi risultati: gli studenti che hanno preso parte a uno dei nostri programmi digitali dal 2014 sono più di 550 e il nostro International Flex MBA è stato inserito tra i dieci migliori master di tutto il mondo dalla recente classifica degli MBA online del Financial Times.

Il problema dello smart learning non è tecnologico. Gli strumenti digitali utilizzabili a questo scopo sono in larga parte disponibili gratuitamente o a costo molto ridotto (è interessante notare che in questa situazione di emergenza, i maggiori operatori citati stanno offrendo gratuitamente le licenze per le loro piattaforme). Non è nemmeno un problema di connessione internet. Quasi tutte le piattaforme di formazione online disponibili sul mercato infatti funzionano perfettamente anche sui dispositivi mobili, con una comune connessione 4G. Il problema chiave è di natura organizzativa. Strutturare un programma online efficace richiede esperienza e conoscenze in campi quali la progettazione didattica o la moderazione di discussioni online nonché la volontà e la capacità di insegnare ai professori a utilizzare questo nuovo approccio.

La mia speranza è che l’emergenza Coronavirus si lasci dietro una maggiore familiarità con lo smart learning e una migliore comprensione della sua importanza in quanto approccio flessibile e inclusivo all’insegnamento, con enormi possibilità di applicazione anche al di là della situazione di emergenza che stiamo vivendo in questo momento.