Conclusa la raccolta fondi lanciata dal MIP per supportare gli Ospedali San Paolo e San Carlo di Milano nella lotta contro il Covid-19: grazie a tutti i contributori.

L’unione fa la forza! Studenti e studentesse, alumnae e alumni, personale docente e staff del MIP e della School of Management del Politecnico di Milano: insieme abbiamo cercato di dare un supporto concreto agli Ospedali San Paolo e San Carlo di Milano, ai pazienti e al personale sanitario che ha lottato senza sosta per curare i pazienti affetti da Covid-19.

La partecipazione attiva alla raccolta fondi lanciata dal MIP ha fatto sì che un piccolo gesto, moltiplicato per 263 donatori, divenisse un grande gesto. Con un totale di Euro 32.973, abbiamo contribuito ad attivare nuovi posti di terapia intensiva, essenziali per salvare vite umane, e a far fronte al grande fabbisogno di dispositivi di protezione mono-uso come mascherine, guanti e tute, consentendo a medici e infermieri di operare in maggiore sicurezza.

L’operazione di fundraising si è svolta in stretto coordinamento con la dirigenza e lo staff degli ospedali, in primissima linea nell’affrontare le gravi conseguenze legate alla rapida diffusione del Coronavirus, e i fondi sono stati direttamente e tempestivamente a loro devoluti. Matteo Stocco, Direttore Generale dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano, ha sentitamente ringraziato il MIP e tutti i contributori per le donazioni.

Abbiamo pensato a concrete iniziative per fronteggiare l’emergenza dal punto di vista didattico. Ma, allo stesso tempo, abbiamo cercato nel nostro piccolo anche di fronteggiare l’emergenza dal punto di vista sanitario. Grazie a tutta la comunità MIP, studenti, alumni, staff e docenti per la generosità e lo spirito di solidarietà dimostrato in questa occasione!”  Vittorio Chiesa, Presidente MIP Politecnico di Milano.

E’ economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale nell’ “era coronavirus”?

La profonda crisi causata dall’emergenza sanitaria costringe le imprese ad un taglio dei costi e degli investimenti non indispensabili, con un forte ridimensionamento di quelli finalizzati alla trasformazione ambientale. Con l’incremento complessivo del debito pubblico dei paesi, come sarà possibile sostenere la sostenibilità ambientale e reperire le risorse necessarie per finanziarla?

 

Umberto Bertelè, Professore Emerito di Strategia del Politecnico di Milano

 

Che fine ha fatto Greta?”, si chiedeva La Repubblica in un articolo del 22 marzo di quest’anno. Ancora a fine febbraio, meno di un mese prima, Greta Thunberg era riuscita a portare in piazza 15mila giovani per il “Bristol Youth Strike 4 Climate (BYS4C) event” e a dicembre – al massimo della notorietà – era stata posta dalla rivista Time in copertina come “2019 Person of the Year”, dopo gli interventi a Davos e all’ONU.
Poi di colpo, con l’arrivo del lockdown in Europa e negli US, il quasi oblio: a testimonianza della velocità con cui nel giro di pochi giorni erano radicalmente cambiate le priorità delle persone, meno preoccupate per l’impatto – percepito come lontano nel tempo – del cambiamento climatico generato dal global warming che non per i rischi immediati per la salute e la stessa sopravvivenza e quelli appena successivi connessi con le pesanti conseguenze economiche e occupazionali (30 milioni di disoccupati nell’UE e oltre 30 negli US prima della riapertura) del lockdown. Con il lockdown che viceversa – bloccando larga parte delle attività e riducendo drasticamente gli spostamenti – aveva un effetto benefico, ma temporaneo (a meno di una poco auspicabile caduta permanente dell’economia), su tutti i parametri ambientali.
E meno di un mese dopo, il 14 aprile, il Financial Times titolava un suo corposo servizio su questo tema “How coronavirus stalled climate change momentum – Emissions have fallen but the pandemic will hit policy commitments as nations look to kick-start their economies”. E in due successivi articoli degli inizi di maggio le domande (in evidenza nei titoli) erano: “Can companies still afford to care about sustainability?” e “Can we tackle both climate change and Covid-19 recovery?”.

 

Prima del lockdown: con l’uscita dalla “grande crisi” l’ambiente conquista una posizione di testa nella scala delle priorità sociali

Il tema “ambiente” – la guerra contro il global warming ma anche quella contro l’uso della plastica o contro l’inquinamento urbano – aveva assunto, con la ripresa dell’economia mondiale dopo la grande crisi iniziata nel 2008, una rilevanza quasi contagiosa. Non più riservato ai soli ambientalisti, esso riscuoteva ampi consensi (o almeno simpatie) in fasce crescenti della popolazione, fra i giovani in primo luogo, anche se non era altrettanto diffusa la coscienza dei costi e dei trade-off che il perseguimento degli obiettivi ambientali – la decarbonizzazione in primo luogo – avrebbe comportato. L’accordo formalmente sottoscritto da 195 Paesi nella conferenza sul clima di Parigi (COP21) di dicembre 2015 aveva creato un clima di ottimismo sulla possibilità di un’azione internazionale coordinata e proiettata nel tempo contro il global warming, anche se già prima del lockdown ampie crepe si erano manifestate al momento di rendere operativi i primi passi degli accordi: per il rovesciamento di fronte da un lato degli US, dopo l’avvento alla presidenza di Trump, e per l’ambivalenza dall’altro della Cina, formalmente allineata con l’UE ma pronta a ricorrere al carbone per incrementare la produzione elettrica. Con la UE però fortemente determinata non solo a proseguire i suoi programmi (quale quello relativo al mondo dell’auto diventato operativo quest’anno), ma a fare dell’ambiente – con l’European Green Deal lanciato da Ursula von der Leyen al momento dell’assunzione della presidenza della Commissione – il punto focale della strategia di crescita dell’economia comunitaria.
L’attenzione verso l’ambiente sembrava essere diventata una sorta di obbligo pure per le imprese, non solo per obblighi di legge o ragioni di immagine ma anche, per le quotate in particolare, come conseguenza dell’enorme successo dei fondi ESG-Environmental Social and Governance – la cui consistenza era arrivata a molte migliaia di miliardi di $ – per statuto obbligati a investire in imprese eco-friendly, oltre che attente al benessere di dipendenti e collaboratori e al rispetto delle regole di governance. In questo contesto, il CEO di BlackRock (primo gruppo di asset management al mondo) era arrivato, a seguito delle critiche di inazione da parte dei movimenti ambientalisti, a minacciare di votare contro la rielezione di CEO e consiglieri delle imprese partecipate che non si fossero mostrate sufficientemente attive nel promuovere investimenti e comportamenti coerenti con gli obiettivi ESG.
Alle imprese – a partire da quelle quotate di dimensione maggiore – veniva sempre più richiesto non solo di essere eco-friendly, ma anche di evidenziare nei loro bilanci i rischi connessi con l’ambiente. Questo per la convinzione che il cambiamento climatico (in una proiezione temporale più lunga) e (soprattutto e da subito) le misure adottate dagli Stati per combatterlo – un mix di aiuti finanziari e di crescenti divieti – potessero stravolgere gli equilibri del sistema delle imprese, generando quella che in un mio articolo dello scorso anno avevo denominato eco-disruption (in analogia con la digital disruption): mettendo in estrema difficoltà comparti come quello petrolifero (per la spinta alla decarbonizzazione e l’incentivazione di fonti energetiche alternative pulite) e quello automobilistico tradizionale (costretto a chiudere molte attività e a investire pesantemente nell’elettrico) e facendone crescere altri più rispondenti alle nuove esigenze.
Di conseguenza, e coerentemente, i banchieri centrali (a partire da quello UK) spingevano per l’affiancare agli stress test – diventati ormai una consuetudine dopo la “grande crisi” – i “climate” stress test, volti a valutare la resilienza delle banche a fronte dell’accentuarsi di fenomeni di eco-disruption. E si cominciava a parlare di “green” quantitative easing, immaginando interventi simili a quelli attuati da Draghi come capo della BCE, ma a favore questa volta delle grandi risorse che gli Stati e le imprese avrebbero dovuto mettere in gioco per la trasformazione ambientale.

 

Con la profonda crisi causata dal lockdown la sostenibilità economica e occupazionale torna a essere la priorità fondamentale

Con la contrazione dei fatturati della grande maggioranza delle imprese a causa del lockdown, con la conseguente enfasi sulla liquidità – e quindi sul taglio dei costi e degli investimenti non indispensabili – come condizione per la sopravvivenza di molte di esse, con l’enorme crescita dei “non occupati” o “parzialmente occupati”, con l’ovvio aumento delle incertezze sul futuro, le priorità (come detto) sono immediatamente cambiate e tale cambiamento presumibilmente perdurerà almeno in parte sino al consolidarsi del rilancio – auspicato ma assolutamente incerto nei tempi e differenziato per Paesi – dell’economia. La maggior coscienza ambientale sviluppatasi negli ultimi anni permane come valore di fondo della società, come molte indagini svolte in vari Paesi evidenziano, ma con una influenza minore sui comportamenti delle imprese e sulle allocazioni delle risorse pubbliche.
Concentrando il discorso sulle imprese, l’enfasi sulla liquidità come condizione di sopravvivenza comporta per larga parte di esse – al di là delle dichiarazioni ufficiali (soprattutto delle quotate) sull’importanza degli obiettivi ambientali – un forte ridimensionamento o dilazione nel tempo degli investimenti strettamente finalizzati alla trasformazione ambientale. Mentre l’attenzione all’ambiente permane – come obiettivo in sede di progettazione – nella messa a punto degli investimenti finalizzati alle esigenze di business: una attitudine importante, che potrà essere rafforzata ponendola come prerequisito per l’accesso alle risorse pubbliche specificamente erogate per il ridecollo dell’economia.
I fondi ESG a loro volta, che devono proteggere il valore degli investimenti fatti, tendono a non forzare le imprese a investimenti ambientali che ne possano mettere a rischio la sopravvivenza e a limitare gli interventi critici a quelle patrimonialmente solide che palesemente rifiutino di darsi obiettivi ambientali: come di recente avvenuto con LGIM – primo gruppo di asset management inglese – che ha accusato Exxon Mobil, di cui è uno dei principali azionisti, di “lack of strategic ambition around climate change”, a differenza di BP e Shell che si sono date l’obiettivo “net-zero”, e ha deciso di votare contro la riconferma di CEO e chairman.

 

Il lockdown ha avuto un impatto benefico su tutti i parametri ambientali, ma cosa accadrà con il progressivo ritorno a una qualche forma di normalità?

È ovvio che, nel momento in cui – per ordine dei governi – larga parte delle attività produttive e commerciali viene sospesa e gli spostamenti vengono quasi cancellati per il confinamento di una quota elevata della popolazione, le fonti inquinanti si riducono drasticamente e i parametri ambientali presentano tutti rilevanti miglioramenti. È ovvio che, più lenta sarà la ripresa, più lentamente i livelli di inquinamento torneranno ai valori precedenti la crisi da coronavirus. È altrettanto ovvio che questa non è la soluzione per i problemi ambientali, per cui sono necessari interventi più strutturali, anche se le nuove abitudini sviluppate durante il lockdown – quali il più diffuso utilizzo dell’ecommerce, il ricorso massiccio al remote working e alla formazione a distanza, la telemedicina, la disponibilità di strumenti molto più efficienti per le interrelazioni online (per ragioni di lavoro ma non solo) e per l’organizzazione di eventi online (con partecipanti attivi sempre più numerosi) – lasceranno presumibilmente tracce profonde nei nostri stili di vita e di lavoro, riducendo ceteris paribus la pressione sull’ambiente.
Facebook ha ad esempio annunciato un profondo ripensamento della strutturazione delle sue attività, che prevede che nel giro di qualche anno la metà dei dipendenti operi in remote working e abbia una remunerazione correlata con il costo della vita dei luoghi in cui vivono: con un vantaggio economico diretto, dati il costo della vita ormai proibitivo nell’area di San Francisco, ma con un impatto significativo – se saranno molte le imprese della Silicon Valley che (come già Twitter, Square e Shopify) seguiranno la stessa strada – sul decongestionamento del territorio e sulla salute dell’ambiente.
Di converso uno stimolo all’aumento della carbonizzazione potrebbe pervenire dal crollo dei prezzi dei carburanti fossili – del petrolio in primo luogo – legato non solo agli scontri fra Paesi produttori (Arabia Saudita, Russia e US i grandi protagonisti), ma anche e soprattutto dal crollo della domanda causato dal lockdown: crollo destinato ad attenuarsi con la progressiva uscita dal lockdown, ma molto sensibile a quelli che saranno i tempi della ripresa. Prezzi eccessivamente bassi delle materie prime fossili significano, soprattutto in una fase di emergenza economica, scarsi stimoli agli investimenti in energie pulite (quali la solare o l’eolica) o addirittura – come accennato in precedenza per la Cina – ricorso a materie prime come l’economicissimo carbone per alimentare le nuove centrali elettriche.

 

Gli elevati costi della “decarbonizzazione” e le difficoltà politiche per attuarla

La trasformazione ambientale non si identifica con la sola guerra al global warming, ma non c’è dubbio che sia quest’ultima a richiedere gli sforzi di gran lunga maggiori se si vuole puntare all’obiettivo – più o meno proiettato nel tempo – di rendere carbon neutral l’economia e la società mondiale: sforzi nel contempo economici, perché senza risorse si fa poca strada, e politici.
L’entità delle risorse da mettere in gioco è molto elevata: da parte in primo luogo delle imprese, non tutte in grado di sopravvivere ai nuovi standard (da cui il termine eco-disruption sopra accennato); da parte delle famiglie, che devono adeguare fra l’altro le loro abitazioni e i loro mezzi di trasporto privati (operazioni tanto più ardue quanto più stagnante è l’economia); da parte degli Stati, per incentivare le imprese e la famiglie e per finanziare gli interventi infrastrutturali necessari. Molto ambizioso ad esempio il Green New Deal, lanciato a fine 2018 negli US dai rappresentanti democratici alla Camera dopo il favorevole esito delle elezioni di mid term ma bocciato dal Senato, che si proponeva di rendere carbon neutral l’economia statunitense entro il 2030. Un obiettivo poi ripreso dai candidati democratici nelle successive primarie, che avevano anche definito le cifre annue (con gli ovvi limiti di credibilità delle promesse elettorali) che avrebbero fatto stanziare a livello federale se eletti presidenti: 170 miliardi di $ all’anno Joe Biden, il più moderato, vincitore in pectore delle primarie; 300 miliardi Elisabeth Warren; addirittura oltre 1.600 Bernie Sanders, il più radicale, principale oppositore di Biden. Meno ambizioso nella scelta dell’orizzonte temporale di raggiungimento della neutralità (il 2050 invece che il 2030) e nelle cifre (1000 miliardi di euro complessivi in 10 anni incluse però le risorse di imprese e Stati membri attivate), l’European Green Deal visto in precedenza, approvato formalmente dal Parlamento Europeo con una richiesta di irrobustimento ma non operativo.
Le cifre citate sono troppo elevate o insufficienti (io propenderei per questa seconda ipotesi) per conseguire gli obiettivi dichiarati? Le cifre tengono conto della necessità di bilanciare l’inevitabile disruption di parte dell’economia provocata dalle nuove regole, prevedendo che sia la crescita delle attività eco-friendly a fornire la compensazione, o sono necessari investimenti addizionali agevolati dalla mano pubblica?
Accanto ai problemi economici, il conseguimento della neutralità su scala mondiale pone problemi politici molto severi: che cosa accade se non si trova un accordo almeno tra i tre principali attori della scena mondiale, US, UE e Cina? È possibile che una singola area si muova da sola, come ufficialmente vuole fare l’UE, senza poi porre vincoli agli scambi commerciali con le aree che – non dovendo rispettare gli stessi vincoli – sono più competitive (non è un caso a tale proposito che la Francia ponga come condizione per gli accordi post-Brexit il rispetto da parte dell’UK degli accordi di Parigi)? Chi si prende l’onere di aiutare finanziariamente le aree più povere del mondo a crescere nel rispetto delle regole di neutralità, affrontando costi sensibilmente maggiori ad esempio nella produzione di energia – almeno fino a quando il prezzo delle materie prime fossili rimarrà basso – o nei trasporti?
Non sono domande cui sono in grado di rispondere, ma che a mio avviso richiederebbero riflessioni molto più approfondite di quelle che molto spesso si sentono nei dibattiti o si trovano in letteratura e sulla stampa.

 

La guerra per la sostenibilità economica “post-lockdown” strappa risorse a quella per la sostenibilità ambientale

“I Paesi ricchi – i Paesi cioè con 1,3 miliardi di abitanti facenti capo all’OCSE stessa – sono destinati a subire un incremento complessivo dei loro debiti pubblici di almeno 17 trilioni di $ (quasi otto volte il PIL italiano) come conseguenza della pandemia, per l’effetto congiunto delle misure di salvataggio e di stimolo già poste in atto e (in misura probabilmente maggiore) della caduta a picco prevista per le entrate fiscali. Il livello di indebitamento medio, pari a oltre 13mila $ per abitante, passerà conseguentemente dal 109 al 137 per cento del PIL, ovvero al livello ante-coronavirus dell’Italia. E le cose potrebbero andare anche peggio, se il recupero richiedesse più tempo di quanto previsto, ponendo addirittura dubbi sulla sostenibilità di lungo termine del debito stesso”. È una mia libera traduzione della dichiarazione dell’OCSE riportata con grandissima evidenza dal Financial Times il 24 maggio.

 

Rimangono ancora risorse per finanziare la “decarbonizzazione”?

È la domanda questa che echeggia il titolo dell’articolo: è economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale oppure il reperimento delle risorse necessarie per finanziare la trasformazione ambientale (la decarbonizzazione in primo luogo) – già arduo prima del coronavirus – sarà sempre più difficile in un mondo sempre più indebitato? È possibile utilizzare a vantaggio anche dell’ambiente almeno parte delle enormi risorse destinate al salvataggio delle imprese e delle famiglie e al rilancio dell’economia, come apparirebbe razionale fare e come da più parti è richiesto?
Per quanto concerne il primo punto, non c’è dubbio che, data la rilevanza delle cifre da mettere in gioco per finanziare la decarbonizzazione e dati i livelli di guardia raggiunti dall’indebitamento complessivo (pubblico più privato), un ulteriore consistente ricorso all’indebitamento non è impossibile – lo si è fatto ad esempio da sempre nei periodi di guerra – ma comporta rischi crescenti di destabilizzazione del sistema economico-finanziario mondiale. Si procederà o meno in questa direzione? Banalmente credo che giocherà un ruolo fondamentale il livello di percezione del pericolo: l’emergenza economica post-lockdown ha attirato grandi risorse perché è immediatamente visibile, i danni che il cambiamento climatico potrebbe provocare (dal rialzo del livello del mare alla desertificazione di un numero crescente di aree ..) al momento lo sono in misura molto ridotta.
Per quanto concerne il secondo punto, la Commissione UE – nelle sue annuali raccomandazioni-Paese pubblicate il 20 maggio – ha auspicato che la grave recessione provocata dalla pandemia sia l’occasione per accelerare la riforma dell’economia, sulla base soprattutto dei due obiettivi, trasformazione ambientale e trasformazione digitale, che l’UE stessa si è data. Simile la raccomandazione che The Economist del 21 maggio ha posto in copertina di un numero in larga parte dedicato alle tematiche ambientali: “A new opportunity to tackle climate change: Countries should seize the moment to flatten the climate curve. The pandemic shows how hard it will be to decarbonize – and creates an opportunity“. Sono considerazioni in linea di principio molto condivisibili, perché si rifanno all’esperienza storica che sono le grandi crisi che creano le opportunità per le grandi trasformazioni. Con un limite però: è a mio avviso molto ridotta la quota di risorse pubbliche post-lockdown
destinate al rilancio dell’economia – l’unica che può essere impiegata anche con finalità ambientali – rispetto a quella volta a evitare i fallimenti delle imprese o a garantire un reddito alle famiglie colpite dalla crisi.
L’Italia, in questo contesto, soffre di una doppia criticità: ha meno risorse da mettere in gioco, dato il livello potenzialmente esplosivo del nostro debito pubblico; destina al rilancio una quota probabilmente più bassa rispetto ad altri Paesi, per la nostra tradizionale preferenza a mantenere in vita le imprese decotte (non faccio nomi) piuttosto che a investire in innovazione.

Come le aziende del lusso si stanno preparando al post Covid-19

L’emergenza legata alla pandemia del virus Covid-19 sta avendo impatti significativi anche sull’industria del lusso: i più importanti player del settore hanno già iniziato a rivedere le loro strategie, alla luce del fatto che le minacce legate a cambiamenti strutturali nel mercato potrebbero per alcuni trasformarsi in opportunità.

 

Alessandro Brun, Professore di Quality Management, Direttore del Global Executive Master of Luxury Management e fondatore Sustainable Luxury Academy
Co-autrice Cecilia Castelli, Extended Faculty MIP Graduate School of Business

School of Management Politecnico di Milano

Nella prima parte di questo articolo (L’impatto del Covid-19 sulle abitudini di acquisto dei clienti del lusso) abbiamo mostrato i principali cambiamenti che ci attendiamo nel settore. I manager dell’industria del lusso non stanno certo fermi a guardare.
Mentre le fabbriche sono state convertite a – e dal New York Post [i] al the Guardian [j] arrivano i plausi ad Armani che realizza camici, Prada e Gucci mascherine, Bulgari si focalizza sull’hand-sanitizer, e anche la tecnologia di Ferrari viene messa al servizio dell’emergenza per realizzare Respiratori – nelle stanze dei bottoni si pensa già alle strategie per il dopo-Covid.

 

Le reazioni dei brand

Come si stanno muovendo i brand del lusso oggi? Ce ne parlano Lorenzo Bertelli, Head of Marketing and Head of CSR di Prada, Giorgio Ravasio, Country Manager Vivienne Westwood Italia, ed Eugenia Di Muzio, Worldwide Commercial Manager Rene Caovilla.

Per Bertelli: “Riteniamo che verrà assegnata più importanza al valore intrinseco del prodotto (ad esempio per l’eccellenza delle lavorazioni, dei materiali), ma non a scapito del valore del brand, non è un trade-off. I valori rappresentati dal brand saranno ancora più importanti nel momento in cui saranno percepiti come credibili. Il consumatore chiederà maggiore trasparenza e l’attenzione ai temi della sostenibilità diventerà ancora più centrale, non solo rispetto al prodotto ma anche con riferimento alla mission aziendale. Ipotizziamo una rinnovata scoperta delle relazioni interpersonali nei comportamenti d’acquisto, con rapporti più diretti e umani. Attendiamo una maggiore elasticità della domanda al prezzo anche nelle fasce premium quale conseguenza di un atteggiamento d’acquisto più consapevole e orientato a prediligere prodotti con un riconoscibile valore intrinseco”.

E’ simile la percezione di Ravasio: “Gli acquisti saranno più consapevoli per due motivi principali: la diminuzione dei redditi e la riflessione generata da una situazione nuova che ha reso l’umanità più fragile e meno certa. Sopravviveranno i brand che hanno una forte identità, che lavorano con bene in mente la qualità del prodotto, l’affidabilità del servizio, la garanzia di continuità e che rappresentino dei forti valori in tema etico, ambientale e sociale. Chi non sarà in grado di dare questi messaggi non sopravviverà a lungo e il Covid-19 non ha fatto altro che accelerare un processo di trasformazione già in atto”.

Per Vivienne Westwood l’on-line è “esploso letteralmente. I negozi fisici saranno di meno ma saranno tutti rinnovati per dare la migliore presenza e immagine possibile ai brand. Diventeranno ambasciatori dei valori del brand e consulenti del cliente per valorizzare la propria immagine. Chi sarà semplicemente alternativo all’on-line senza offrire nulla di più non avrà futuro. La tendenza che sarà accelerata sarà legata alla “maisonizzazione” della filiera distributiva. Come già successo per la produzione, ci si avvierà verso la gestione diretta della catena retail. Sarà un processo graduale ma credo inesorabile” conclude Ravasio.

Anche la risposta di Prada è all’insegna della continuità, in quanto – prosegue Bertelli “Il retail non sarà accantonato e rimarrà centrale in una strategia omnichannel dove conterà ancora di più l’integrazione tra i vari canali diretti, retail ed e-commerce diretto, e indiretti, market place e wholesale. Il consumatore premium, ma anche i marchi di questa fascia, vogliono sempre meno intermediari, sia nel fisico che nel digitale; si tratta [per Prada] di un trend già in essere che sta subendo un’accelerazione a seguito di questa crisi”.

Per Caovilla, “In un’integrata ottica multichannel, non avremo più assortimenti e stock segregati per punto vendita o città, ma un unico grande stock, orientato all’unico risultato che conta: la vendita del prodotto al cliente a prescindere dalla location in cui essa avviene.
Ciò richiederà sforzi di ammodernamento di sistemi gestionali e operativi nonché di flussi logistici e di un rodato meccanismo di consegne, spedizioni e resi. Anche il mondo dei negozi retail cambierà sia in ottica di assortimento delle collezioni, sia in ottica di esperienza di vendita. Le nuove norme improntate al rispetto della social distance, renderanno necessario ridisegnare gli spazi dei punti vendita, in chiave di maggiore separazione e distanza. Tuttavia, squisitamente nell’ambito del lusso questa nuova esperienza di vendita, lascia intravedere anche un’opportunità di ridisegnare per il cliente una esperienza di ulteriore unicità ed esclusività. Una esperienza di vendita one-to-one simile agli appuntamenti negli atelier di Haute Couture. Ancora una volta una potenziale opportunità derivata da una nuova restrizione imposta”.

Ma ciascun canale dovrà trovare il modo di raggiungere il break-even, come spiega Di Muzio: “Un grosso interrogativo, per le aziende con negozi retail, sarà come sostenere finanziariamente la rete di punti vendita e flagship stores con elevati costi di gestione, a fronte di una vendita che avviene sempre di più online. Il retail rimarrà sempre e comunque la massima espressione dei valori visibili del brand e dovrà fare lo sforzo di cambiare, di rendersi meno ovvio e di provare al consumatore l’effettivo vantaggio di una store experience. Che sia con collezioni dedicate, con momenti di puro intrattenimento tramite eventi dedicati o inviti a esperienze uniche per i clienti più loyal, o offrendo ai clienti servizi in più – dal made to order alla consulenza di immagine, al supporto in ottica cross-selling e total look. Certamente contare solo sulla disponibilità dell’assortimento in attesa che il cliente varchi l’ingresso non sarà più percorribile”.

Di Muzio racconta come stanno gestendo l’emergenza nel breve in Rene Caovilla, per tenere in vita le piccole realtà locali: “Certamente pur non esistendo la ricetta perfetta, un buon mix di interventi mirati alla riduzione dei costi del personale in un’ottica di maggiore efficienza, uniti agli aiuti stanziati dai vari governi, insieme ad una stretta collaborazione tra aziende della filiera, sono gli ingredienti primari. In un momento in cui il flusso di cash-in è ridotto o inesistente, occorre collaborare in maniera organica e organizzata con tutti i fornitori e partner della filiera, cercando soluzioni. Tempi di pagamento più lenti, ma costanti; scontistiche più favorevoli a fronte di pagamenti a vista; piccoli ordini scadenzati nel tempo anziché un unico grosso ordine. Tutto deve essere ribilanciato con un’ottica di “contagocce”, il sistema non deve e non può entrare in stasi: sarebbe la fine accertata per molti piccoli fornitori e vari distretti di eccellenza delle nostre regioni italiane”.

In attesa delle decisioni dei Governi, Prada ha già pronto un piano per la riapertura delle fabbriche che consentirà agli operatori di poter lavorare nel rispetto degli standard di sicurezza sanitaria più elevati (distanza, dispositivi di protezione, controlli, sanificazione, turni, etc..).
Tutti i brand intervistati hanno confermato che l’arrivo della collezione Autunno Inverno 20-21 verrà leggermente posticipato.

Una mobilità ancora limitata potrebbe influenzare le campagne vendita per il mercato wholesale, per questo Ravasio ci parla di come stiano lavorando “alla creazione di showroom digitali che consentiranno di evitare viaggi e trasferte a buyer di tutto il mondo”. In quest’ottica le settimane della moda cambierebbero la loro vocazione, continua Ravasio “Le sfilate manifesteranno la vera realtà di show per il pubblico. Valori ma non prodotti – o prodotti con valore. Non più funzionali al business”.

Con i buyer impossibilitati a viaggiare da tutto il mondo per recarsi negli showroom per gli ordini di collezione, l’intero sistema subirà una stasi fisica a favore di una maggiore vivacità virtuale: appuntamenti su showroom e piattaforme virtuali per conoscere le collezioni e finalizzare i propri ordini. Incrementando la domanda per la produzione di contenuti digitali e piattaforme di condivisione in grado di restituire in maniera sempre più chiara la realtà dei prodotti”, prosegue Di Muzio, “Sarà una fase di sperimentazione in cui capiremo cosa funziona e cosa no… cosa è possibile fare a distanza e cosa non è possibile. Il lusso segue delle logiche ben precise che la contingenza sta modificando, ma che non riuscirà a eliminare o sradicare. I prodotti del lusso che presentano prezzi elevati, richiedono in fase di selezione ed acquisto dei buyer (ma anche dei clienti) una amplificata attenzione alla qualità e ad ogni singolo dettaglio. E già nella passata FW20 si sono evidenziati chiari limiti e perplessità sulla fattibilità degli ordini a distanza. Anche e soprattutto quando i volumi di acquisto sono importanti. Più facile quando il prodotto è già noto, ma difficilissimo quando il prodotto non è conosciuto o nelle fasi di start-up o negoziazione di nuove opportunità di business”.

 

Quali suggerimenti quindi dare ai brand del lusso per la ripresa?

I brand dovrebbero innanzitutto riprendere piena coscienza del vero significato del lusso: tornare alle origini del savoir faire artigianale, del bello fatto bene, prendersi una pausa dai ritmi incessanti del fast fashion, o quantomeno rallentare – e tornare a fare sentire i propri clienti “esclusivi”. Come sottolineato da tutti gli intervistati, la disintermediazione dei canali di vendita porterà ad un rapporto più “intimo” con i clienti.
Per non risultare fuori luogo, in un clima di morigeratezza sociale, l’approccio al marketing dovrà essere da un lato più discreto e al tempo stesso responsabile. Una parte significativa del budget per comunicazione “above the line” potrebbe essere utilizzato per “cause related marketing” o trasformato in budget per comunicazione “below the line”.
Per evitare il rischio di financial distress nel breve periodo, sarà fondamentale iniziare la ripresa da quei canali, mercati, e categorie merceologiche che ripartiranno più velocemente: online e discount i canali su cui scommettere; per le economie mature, e per la Cina, cercare di incontrare i clienti localmente (anche se i Cinesi in viaggio in Europa sono più incentivati a fare shopping di lusso Tax Free); e, in termini di categorie di prodotto, beauty, fine food and wine, art de la table, personal mobility, articoli evergreen e no logo e, ovviamente, esperienze. Ma per sopravvivere nel lungo periodo i brand dovranno completare la transizione da player brick and mortar a player omnipresenti.
Infine per superare la crisi le aziende dovranno fare leva sulle tecnologie digitali, con impatto sia sulla semplificazione dei processi che sull’organizzazione del lavoro, e attivare meccanismi di collaborazione e condivisione con i vari partner della filiera, che vadano dai dati alle strategie, per essere più forti assieme.

Già c’è chi parla di “selezione della specie”. Probabilmente, come dice Lorenzo Bertelli, “Attendiamo, verosimilmente, un ritorno alla normalità pre-pandemia solo con l’arrivo del vaccino, quando le persone potranno tornare a circolare liberamente. Per noi quest’emergenza richiede sicuramente degli adattamenti, ma non mette in discussione i fondamentali del settore del lusso, né ci richiede di modificare il nostro modello di business.”

Presenza online e strategia digitale consolidate; collezioni fluide senza una vera e propria dicotomia Primavera-Estate e Autunno-Inverno; focus sul valore intrinseco del prodotto e investimenti sulla sostenibilità a livello di intera filiera: alcuni brand si sono presentati a inizio 2020 meglio preparati di altri per affrontare l’inaspettata emergenza Covid. Per tutti gli altri, la capacità di adattamento si rivelerà, oggi più che mai, indispensabile per superare la crisi.

 

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[i] A. Moussavian. Luxe Labels Gucci, Armani, Bulgari make protective gear to fight coronavirus. New York Post, 26 Marzo 2020 https://nypost.com/2020/03/26/luxe-labels-gucci-armani-bulgari-make-protective-gear-to-fight-coronavirus/
[j] E. V. Bramley. Prada the latest fashion brand to make medical face masks. The Guardian, 24 Marzo 2020 https://www.theguardian.com/fashion/2020/mar/24/prada-the-latest-fashion-brand-to-make-medical-face-masks

L’impatto del Covid-19 sulle abitudini di acquisto dei clienti del lusso

Un cambiamento di paradigma che andrà oltre la stagione Autunno Inverno 20/21.

 

Alessandro Brun, Professore di Quality Management, Direttore del Global Executive Master of Luxury Management e fondatore Sustainable Luxury Academy
Co-autrice Cecilia Castelli, Extended Faculty MIP Graduate School of Business
School of Management Politecnico di Milano

 

L’emergenza legata alla pandemia del virus Covid-19 è lungi dall’essere finita, e già molti esperti sono concordi nel prevedere che vi saranno impatti significativi sull’industria del lusso che andranno ben oltre il breve termine, in quanto la quarantena potrebbe portare a cambiamenti duraturi nel comportamento di acquisto dei clienti del segmento top di gamma: meno viaggi e più occasioni sociali tra le mura domestiche; un consumo più responsabile, che privilegi oggetti di qualità e produzioni locali, ma con attenzione al portafoglio; e gli acquisti online che cresceranno ulteriormente…
I più importanti player del settore hanno già iniziato a rivedere le loro strategie, alla luce del fatto che – come già avvenuto nelle precedenti crisi globali – le minacce legate a cambiamenti strutturali nel mercato potrebbero per alcuni trasformarsi in opportunità.

L’effetto delle chiusure

Nel recente Luxury Study Spring 2020, Bain&Co e Altagamma [1] prevedono un 2020 con una riduzione del giro d’affari tra il 20% (nel migliore degli scenari – quello che vede una ripresa importante già dal terzo quarter) e il 35% (qualora gli effetti negativi della pandemia si trascinassero a lungo) per i cosidetti “personal luxury goods”, ovvero quelle categorie su cui si sono concentrati negli scorsi anni gli acquisti aspirazionali di una classe media in cerca di legittimazione. Già quando la crisi muoveva i primi passi, l’indagine di BCG e Altagamma[2] prospettava una contrazione importante, con un valore complessivo che ci riporta ai livelli del 2015 e una riduzione dei margini oltre il 13%. Nonostante la ripartenza del Dragone Asiatico, quindi, sembra che i numeri delle prime analisi vengano confermati. Numeri impressionanti, che – nello scenario più pessimistico – in valore assoluto corrisponderebbero ad un calo di fatturato di quasi 100 miliardi di € per i soli beni personali di lusso, e che sintetizzano difficoltà non trascurabili per tre categorie di attori:

  • Retailer finanziariamente molto esposti, che si trovano in carico buona parte della collezione Primavera-Estate 2020, invenduta e probabilmente invendibile;
  • Player di piccole dimensioni, su cui gli impatti di una chiusura prolungata possono essere devastanti;
  • Attori a monte delle filiera, che nel migliore dei casi sono messi in difficoltà da dilazioni a tempo indeterminato dei pagamenti e contestuale assenza di ordini.
I cambiamenti nel comportamento di acquisto

Con la ripresa, il mercato non sarà più quello di prima. Nella nostra indagine abbiamo intervistato una dozzina di manager delle aziende del lusso e numerosi consumatori, e abbiamo ricevuto conferme sui cambiamenti più verosimili:

  • Patrimonio, non reddito – con l’avvento del cosiddetto “Mass Marketing of Luxury”[a], i brand di lusso hanno spostato il target principale al ceto medio. Nello scenario ha caratterizzato gli ultimi due decenni, gli HENRY di tutto il mondo hanno speso una frazione significativa del proprio “disposable income” in beni ed esperienze di lusso[b], ma, dopo il lockdown, le famiglie della classe media potrebbero aver limitate disponibilità finanziarie da dedicare ad acquisti non di prima necessità, mentre gli HNWI si troverebbero con una capacità di spesa non modificata. Una dozzina di anni fa svolgemmo una ricerca nel mercato delle auto di lusso, per capire se la crisi dei mercati finanziari avesse portato ad una perdita di vendite o ad uno spostamento in avanti nel tempo delle stesse. Un giovane banker londinese dichiarò che si sarebbe dovuto comprare una Ferrari con il bonus di fine anno – niente bonus, e l’acquisto della Rossa di Maranello sfumò. Un imprenditore italiano dichiarò di aver rinunciato all’acquisto di una Maserati per “solidarietà” con i propri dipendenti – anche se, nonostante la crisi aziendale, il patrimonio di famiglia gli avrebbe permesso acquisti ben più consistenti di una berlina del tridente. In questo caso, l’acquisto venne semplicemente posticipato a momenti migliori. Lo stesso potrebbe succedere nel post-Covid: i brand e le categorie di beni di lusso che hanno come target il patrimonio soffriranno di meno.
  • Per chi continua a rimanere a casa. Le riduzioni di viaggi – legate a restrizioni normative che potrebbero perdurare a lungo, paura di nuovi contagi, sostituzione di meeting di persona non strategici con più efficienti videoconferenze – porteranno ad una riduzione del fatturato di canali specifici (travel retail), destinazioni specifiche (e.g. Las Vegas), di segmenti specifici di mercato nei flagship store delle capitali mondiali del lusso (Cinesi in visita a Parigi, Milano, Londra per turismo o viaggio d’affari) e di categorie di prodotto quali trolley e valigie. Per contro, il fatto di continuare a rimanere a casa potrebbe trasformarsi in una opportunità per altre categorie quali Art de La Table, che negli ultimi hanni ha sofferto di un tasso di crescita ridotto rispetto alla media del comparto lusso[c]. Nelle categorie che a Marzo 2020 hanno avuto il maggior incremento di vendite su internet[d], seconde dopo ai guanti usa e getta, troviamo le macchine per fare il pane (+652% rispetto a Marzo 2019). Con il ritorno alla normalità, questo ritorno forzato ai fornelli potrà portare a maggior occasioni sociali tra le mura domestiche. I brand che ne sapranno approfittare, potranno spingere su acquisti in servizi tavola (per chi ospita), fiori, vini, superalcolici (per chi è ospitato). Della paura di viaggiare su mezzi pubblici, inoltre, potrebbe beneficiare anche la mobilità personale – automotive, ma magari anche yacht e jet privati.
  • Appagamento personale – Sin dai tempi più lontani, i beni di lusso hanno costituito acquisti emotivi fatti da una clientela abbiente “per sentirsi meglio”. Dopo i sacrifici della quarantena, i consumatori torneranno ad avere voglia di spendere, ma lo faranno privilegiando l’esperienza edonistica al possesso materiale; peraltro, anche dopo un allentamento della quarantena, le occasioni di vita sociale potrebbero rimanere rarefatte per un periodo di tempo piuttosto lungo, e quindi beni e brand di lusso che prima della crisi venivano prevalentemente acquistati in quanto “Social Marker”[e] potrebbero lasciare il posto a brand meno appariscenti o a esperienze particolarmente intense (fine food & drinks, beauty, SPA e centri benessere, …).
  • Lusso Responsabile – l’ineluttabilità del contagio e della Perdita di persone care ha portato molti ad interrogarsi su temi quali “dove sta andando l’umanità?”. La crescente sensibilità verso temi di sostenibilità ambientale e sociale non potrà che risultarne ulteriormente rinforzata; i brand e le categorie di prodotto (ad esempio beni artigianali piuttosto che industriali) che permettano un “consumo responsabile” verranno privilegiati. Giorgio Armani ha scritto una lettera aperta a WWD[f], nella quale lo stilista italiano ringrazia l’autorevole magazine per aver alimentato il dialogo su quanto assurdo sia l’attuale stato delle cose – caratterizzato da sovrapproduzione di abiti e un “disallineamento criminale” tra la stagione metereologica e quella commerciale.
  • Alla ricerca di saldi e sconti – se, da un lato, ci possiamo aspettare un’ondata di anti-consumismo, l’abitudine di aspettare i saldi o di fare pellegrinaggi ai c.d. Factory Outlet verrà esacerbata dal generale autorichiamo alla frugalità[g]. Se brand e retailers dovessero ricorrere a pesanti scontistiche per liberarsi dello stock della stagione PE 2020, rischierebbero di alimentare ulteriormente il circolo vizioso dell’attesa dei saldi.
  • Online per vendere, per comunicare, per intercettare – durante il lockdown, siamo tutti testimoni in prima persona di come la transizione ad una vita nel mondo digitale abbia subito un salto quantico. I consumatori acquistano di più online, consumano più contenuti digitali, e in generale trascorrendo più tempo online sono più propensi al dialogo con le aziende. I brand del lusso dovranno rivedere la propria strategia digitale, per cogliere la triplice opportunità di incrementare le vendite del canale eCommerce, incrementare la frequenza e la profondità della comunicazione ai propri clienti, e raccogliere un prezioso bottino di informazioni con il quale arricchire il proprio database CRM[h].
  • Un rinnovato senso di orgoglio per le produzioni locali – questo purtroppo potrebbe dipendere dallo specifico mercato, ma già si sono visti i primi segni che presagiscono la nascita di veri e propri movimenti di “buy local”.

In conclusione, senza dubbio vedremo un ruolo diverso dei canali di vendita: la crescita costante del travel retail si fermerà inevitabilmente; si consoliderà l’abitudine di acquistare online, soprattutto per quei clienti che spinti dall’emergenza hanno superato le barriere psicologiche, con un boost double digit quanto più anche le attività branding si sposterà online; il ruolo delle boutique fisiche sarà certamente da ripensare; i canali discount dovranno essere gestiti con attenzione per mantenere un posizionamento coerente del band pur andando a catturare quel 56% di clienti che (secondo il report BoF-Mc Kinsey) andranno a caccia di occasioni. In questo tipo di scenario, assumerà un ruolo ancora più importante la comunicazione – non solo di brand e prodotto, ma anche il racconto delle strategie che si stanno mettendo in atto sia per rispondere all’emergenza sanitaria che per dare solidità al business – che deve essere vista come un investimento prioritario.

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[1] L. Zargani. Personal Luxury Goods expected to contract 20% to 35% in 2020. Women’s Wear Daily, 7 Maggio 2020 https://wwd.com/business-news/business-features/personal-luxury-goods-expected-to-contract-20-to-35-in-1203628347/
[2] A. Biondi. Coronavirus could cause a €40 billion decline in luxury sales in 2020. Vogue Business, 21 Febbraio 2020 https://www.voguebusiness.com/companies/coronavirus-luxury-brands-impact-sales-altagamma

[a] Nueno e Quelch. “The Mass Marketing of Luxury”. Business Horizons, Novembre-Dicembre 1998
[b] Silverstein e Fiske. Trading up: the new American Luxury. Penguin Group, 2003
[c] S. Lazzaroni. Altagamma Consensus 2019 – June update. Altagamma, Giugno 2019
[d] J. Styrk. The top 100 fastest growing and declining categories in eCommerce. Stackline, 31 Marzo 2020
[e] Kapferer e Bastien. The Luxury Strategy: break the rules of marketing to build luxury brands. Kogan Page publishers, 2012.
[f] L. Zargani. “Giorgio Armani writes open letter to WWD”. WWD, April 3rd, 2020
[g] Amed, Berg, Balchandani, Hendrich, Rölkens, Young, Jensen. The State of Fashion 2020: Coronavirus Update. BoF e McKinsey&Company
[h] M. Nicolelli. The Covid-19 Carousel. Challenges and Disruptions in the Fashion Luxury Sector. Hydra Advisory.

L’Internet of Things ai tempi di Covid-19: servizi di valore per cittadini e imprese

La situazione di emergenza legata a Covid-19 sta portando alla ribalta diverse applicazioni IoT, sull’onda di un interesse generale verso soluzioni in grado di assicurare tracciabilità, monitoraggio, raccolta dati. Un patrimonio informativo, quello generato dalle soluzioni IoT, che permette di sviluppare servizi di valore e di pubblica utilità per i cittadini.

 

Di Giulio Salvadori e Angela Tumino, Direttori dell’Osservatorio Internet of Things della School of Management del Politecnico di Milano

 

L’Internet of Things ai tempi di Covid-19: servizi di valore per cittadini e imprese
Un tema al centro del dibattito nazionale (e non solo), in cui l’Internet of Things può fornire un valido supporto, è quello legato al monitoraggio degli spostamenti degli utenti grazie alla localizzazione tramite telefoni cellulari (es. con App ad hoc, dati di rete cellulare, ecc.), al fine, nel caso ad esempio degli utenti risultati positivi a Covid-19, di risalire la catena del contagio, identificando le persone con cui sono entrati in contatto e isolarle a loro volta. Questo è un approccio che stanno adottando anche grandi player, come ad esempio Google e Apple, che – tramite un approccio collaborativo senza precedenti – stanno lavorando insieme per sviluppare un nuovo sistema per smartphone che può aiutare a identificare coloro che sono stati vicini a persone contagiate. La tecnologia, basata su Bluetooth, inizierà a essere implementata su dispositivi iOS e Android a partire da metà maggio. Sono tante le applicazioni in corso di sviluppo e c’è grande aspettativa sul ruolo che potranno giocare nella cosiddetta “fase 2”, e forse oltre.

Un altro caso interessante di applicazione è quello delle consegne basate su veicoli a guida autonoma, senza conducente. Ne è un esempio Neolix, un piccolo veicolo per le consegne urbane totalmente robotizzato che è stato di grande utilità in Cina durante l’emergenza sanitaria Covid-19: le misure di contenimento della pandemia hanno temporaneamente svuotato le strade dagli altri veicoli e, allo stesso tempo, hanno portato i consumatori a riflettere sui vantaggi derivanti dal far consegnare merci a sistemi robotici che, ovviamente, non possono contagiare né restare contagiati. Complici le strade rimaste vuote, tra febbraio e marzo Neolix ha ricevuto più di 200 prenotazioni per l’acquisto di veicoli autonomi, quando negli otto mesi precedenti aveva venduto solo 125 mezzi. Stesso trend per Starship Technologies, azienda americana che produce robot per la smart delivery e che ha notato un aumento della domanda nei grandi centri urbani come New York e San Francisco.

Un altro esempio lo possiamo trovare nel settore alimentare e, più nello specifico, per il supporto alla spesa. La startup italiana FrescoFrigo ha sviluppato una soluzione con l’obiettivo di supportare i condomini nell’acquisto di generi alimentari senza dover uscire dal proprio complesso residenziale. La società ha installato nel moderno e tecnologico complesso residenziale “Social Village Cascina Merlata”, situato a nord-ovest di Milano, cinque frigoriferi intelligenti per soddisfare le esigenze delle oltre 900 persone residenti nei 397 appartamenti del complesso. In questo modo gli abitanti del condominio possono rispettare le norme dettate dall’emergenza sanitaria ed evitare lunghe code ai supermercati per rifornirsi di generi alimentari di prima necessità. L’assortimento presente all’interno dei frigoriferi è fornito da negozi locali e prevede un mix di cibi sani e freschi. I condomini possono visionare i prodotti dalla grande vetrina frontale, sbloccare e aprire il frigo tramite la mobile App dedicata, scegliere i prodotti e concludere l’acquisto semplicemente chiudendo la porta del frigo. Sarà il sistema a rilevare l’operazione e addebitare al cliente il costo dei prodotti scelti sul sistema di pagamento inserito al momento dell’iscrizione.

Un altro ambito su cui certamente l’emergenza in corso sta accendendo i riflettori è quello della sanità, e in particolare dei servizi di tele-assistenza per la cura delle persone anziane o malate in casa. Le difficoltà vissute in questo periodo stanno facendo emergere chiaramente – qualora ce ne fosse stato ancora bisogno – il potenziale di poter disporre di dispositivi hardware connessi per il monitoraggio di parametri vitali da remoto. In questo modo diventa possibile coniugare servizi volti a migliorare la qualità della cura (come ad esempio l’invio dei farmaci a domicilio o la videochiamata con un medico) con la riduzione del ricorso all’ospedalizzazione.

Ma non finiscono qui le opportunità che le tecnologie IoT possono abilitare anche in una situazione di emergenza come questa. Negli ultimi mesi stiamo infatti assistendo a una forte evoluzione dell’offerta verso nuovi modelli di pricing con cui è possibile acquistare gli oggetti connessi, che includono logiche legate al pay-per-use o pay-per-performance e che – proprio in un periodo critico come questo – potrebbero permettere a tante aziende e cittadini in difficoltà di dilazionare il pagamento dei propri acquisti nel tempo, solo nel momento in cui se ne fa uso. I primi esempi che iniziano a popolare il mercato spaziano dalla Smart Factory alla Smart Car, fino allo Smart Building. Ad esempio, in fabbrica si iniziano a vedere i primi progetti in cui il macchinario può essere pagato sulla base delle ore di utilizzo o delle quantità di materiale prodotto. Nel settore automotive sono state definite formule d’acquisto “Pay-per-Drive”, in cui il piano dei pagamenti viene adattato in base all’effettivo utilizzo dell’auto, comunicato direttamente dalla vettura. Non solo: anche le nuove offerte di dispositivi e sistemi smart per gli edifici stanno evolvendo nella stessa direzione. È il caso delle soluzioni per l’illuminazione, in cui al cliente viene data la possibilità di pagare solo la luce “consumata”, senza divenire proprietario dei dispositivi d’illuminazione utilizzati. Il numero di progetti è ancora limitato, ma sicuramente le esperienze positive già effettuate nell’ultimo anno possono rappresentare un buon punto di partenza per lo sviluppo di un’offerta che vada incontro alle difficoltà economiche legate a questo periodo.

Un elemento che accomuna la maggior parte degli esempi citati è la possibilità – grazie all’Internet of Things – di raccogliere grandi quantità di dati, che possono essere utilizzati per sviluppare servizi di valore o di pubblica utilità. Questo elemento non è emerso solo nel corso dell’emergenza, ma è un carattere peculiare delle soluzioni IoT, come emerge chiaramente dalla ricerca realizzata dall’Osservatorio Internet of Things del Politecnico di Milano, e in particolare dall’analisi del mercato pre-Covid-19. Nel corso nel 2019, quasi il 40% del valore del mercato IoT in Italia era già generato da servizi abilitati dai dati resi disponibili da soluzioni IoT. Ci aspettiamo che questa emergenza evidenzi ancora più chiaramente il potenziale del grande patrimonio informativo generato dalle soluzioni IoT: per i cittadini, per le imprese e per le pubbliche amministrazioni.

Povertà e aiuti alimentari al tempo del Covid-19

L’emergenza sanitaria sta creando nuove situazioni di povertà con l’aumento della richiesta di aiuti di beni di prima necessità e una conseguente pressione sul sistema di assistenza sociale. Una risposta rapida ed efficace per distribuire aiuti alimentari può arrivare da una solida rete di partnership tra pubblico, settore profit e non profit, con un ruolo centrale giocato dall’amministrazione pubblica. Occorre ora lavorare sulle condizioni di sostenibilità e di resilienza del sistema in una prospettiva futura.

Giulia Bartezzaghi, Direttore Osservatorio Food Sustainability
Food Sustainability Lab, School of Management Politecnico di Milano

 

L’emergenza sanitaria in corso sta mettendo a dura prova il sistema economico e sociale del Paese. A subirne gli effetti sono in primo luogo le fasce di popolazione che già vivevano in condizioni di fragilità, inasprendo o creando nuove situazioni di povertà. Aumenta di giorno in giorno la richiesta di aiuti di beni di prima necessità, quindi cibo e farmaci, e la pressione sul sistema di assistenza sociale.
Con l’obbligo di rimanere a casa, il Terzo Settore, impegnato nella distribuzione di pasti e pacchi alimentari alle persone bisognose, ha subito un forte calo di volontari, la maggior parte dei quali over 65, quindi i più esposti ai rischi del contagio. Nel contempo mense, ristoranti e piccoli esercizi commerciali, impegnati nella donazione di pasti e prodotti alimentari in eccedenza alle organizzazioni non profit, hanno dovuto temporaneamente sospendere il servizio. L’attività di recupero e distribuzione dei prodotti rimasti invenduti nei supermercati, in particolare i prodotti freschi e freschissimi, è diventata sempre più difficile, se non impossibile, per le difficoltà operative di erogazione del servizio in condizioni di rigide disposizioni sanitarie, di personale limitato e calo dei volontari, con il contestuale aumento di domanda di beni alimentari da parte dei cittadini.
Di fronte a queste criticità, nelle scorse settimane il Governo ha stanziato 400 milioni di euro per aiuti alimentari immediati come anticipo straordinario sul Fondo di solidarietà comunale, distribuiti tra i Comuni in base a criteri di popolazione e reddito. Questi aiuti possono tradursi in acquisto di buoni spesa e/o in distribuzione di pacchi alimentari alle famiglie in maggiore difficoltà. I singoli Comuni si stanno quindi adoperando per mettere in campo queste misure, avvalendosi della collaborazione di enti del Terzo Settore per la distribuzione del cibo e dei servizi sociali per individuare i nuclei familiari beneficiari dell’aiuto.

In questo scenario, guardando alla Lombardia, la Regione italiana più colpita dalla pandemia, e più nello specifico alla realtà di Milano, il Comune ha ottenuto come anticipo dal Governo 7 milioni di euro, da poter usare in diversa forma per “sfamare” la città. Ha adottato un “dispositivo” di misure per fornire aiuti alimentari alle fasce più deboli, in prima battuta le persone in condizioni di povertà e gli anziani, che rimarrà attivo almeno fino alla fine della crisi sanitaria.

Mettendo a sistema Politiche Sociali, Food Policy e Protezione Civile e attraverso una rete di alleanze con attori chiave, quali Fondazione Cariplo e il Programma QuBì, Banco Alimentare della Lombardia, Caritas Ambrosiana, Croce Rossa Italiana-Comitato di Milano, Istituto Beata Vergine Addolorata (IBVA), Milano Ristorazione, AMAT e Sogemi, il Comune di Milano ha messo in atto in poche settimane un sistema di distribuzione di pacchi alimentari, che fa leva su 10 hub temporanei situati in diversi quartieri della città dove è maggiore la densità di povertà, in particolare minorile, e dove era già operativa la rete sociale del Programma QuBì, coordinato da Fondazione Cariplo.
Una task force composta da assistenti sociali del Comune di Milano e referenti delle reti territoriali QuBì ha creato la lista delle persone e dei nuclei familiari in stato di bisogno, incrociando i dati già disponibili con le richieste di aiuti alimentari raccolte in queste settimane, lista che è in continua evoluzione con il contestuale aumento delle domande di aiuto. Sono attualmente circa 16.000 le persone raggiunte, a cui corrispondono 4.500 nuclei familiari, in prevalenza famiglie con minori (che è anche il focus dell’intervento del Programma QuBì – La Ricetta di Milano contro la povertà infantile).

Le derrate alimentari sono in parte prodotti donati da imprese agroalimentari, che confluiscono nel magazzino di Banco Alimentare della Lombardia a Muggiò, e in parte prodotti acquistati tramite le donazioni monetarie di diversi enti privati alla Croce Rossa Italiana – Comitato di Milano, che provvede a stoccarli nel proprio deposito logistico a Segrate. In questi due poli vengono allestiti i pallet con mix di prodotti, trasportati agli 8 hub per mezzo di 8 furgoni messi disposizione da Milano Ristorazione. Negli hub sono coinvolti dipendenti del Comune di Milano e volontari delle associazioni non profit impegnati nella preparazione dei pacchi alimentari, che vengono poi consegnati a domicilio alle persone e alle famiglie selezionate tramite 25 pulmini gestiti da cooperative sociali. Le consegne a domicilio sono organizzate secondo un piano di trasporto elaborato da AMAT (Agenzia Mobilità Ambiente e Territorio di Milano), che ottimizza la composizione dei pacchi alimentari e i giri dei furgoni sulla base del numero di persone da servire nei diversi territori.
Ciascun hub ha un proprio coordinatore, che gestisce e monitora le attività dell’hub e documenta i flussi in entrata e in uscita su base giornaliera, riportando all’unità operativa centrale del Comune di Milano, in capo al Coordinatore della Food Policy.
Tutto il sistema si muove in linea con un protocollo di sicurezza, che prevede la sanificazione delle infrastrutture utilizzate e l’utilizzo di DPI (mascherine e guanti monouso) per tutti gli operatori coinvolti.

La spesa consegnata, per un totale di oltre 30 tonnellate di cibo a settimana, serve a ricoprire le necessità di ciascuna famiglia per sette giorni, cercando di rispondere quanto possibile alle varie esigenze. Le derrate alimentari raccolte e distribuite sono costituite in prevalenza da alimenti di prima necessità e di più facile gestione e conservabilità come pasta, riso, passata, legumi, tonno, biscotti, ai quali si aggiungono olio, sale, zucchero e altri beni recuperati tramite donazioni occasionali, come latte, succhi di frutta, caffe, budini, salumi. Un accordo con Sogemi ha permesso di integrare nella spesa anche frutta e verdura per fornire un’alimentazione più equilibrata. Diverse imprese alimentari e altri enti privati hanno messo a disposizione altri prodotti alimentari, anche freschi, e risorse materiali e finanziarie, che contribuiscono al funzionamento del sistema.
A Pasqua non è mancata la solidarietà: sono state consegnate alle famiglie colombe e uova di cioccolato, donazioni di due note imprese del settore.

Per il disegno e l’implementazione del sistema è risultata preziosa l’esperienza maturata nell’ambito del progetto Hub di Quartiere Contro lo Spreco Alimentare con l’Hub in via Borsieri nel Municipio 9 di Milano, lanciato a gennaio 2019 da un partenariato composto da Comune di Milano, Politecnico di Milano, Assolombarda, QuBì, Banco Alimentare della Lombardia, un network di imprese e organizzazioni del Terzo Settore. L’Hub di Borsieri, in attesa di riprendere l’attività di recupero delle eccedenze dalle mense e dalla GDO dopo l’emergenza sanitaria, ha fornito un modello operativo di riferimento, poi adattato alle necessità e ai vincoli dell’emergenza ed esteso ad altri quartieri di Milano, facendo leva sulla rete e sul know-how dei partner già esistenti e su nuove alleanze.

In parallelo alla distribuzione dei pacchi alimentari tramite hub, sono attivi a Milano i tre Empori Solidali della Caritas Ambrosiana e il supermercato sociale Solidando dell’associazione IBVA, presso i quali è possibile fare la spesa con una tessera a punti, grazie al sostegno economico di Fondazione Cariplo e delle altre fondazioni bancarie aderenti al Programma QuBì. Questi store permettono alle persone bisognose di integrare nella spesa anche prodotti più specifici e mirati per le proprie esigenze, ad esempio i prodotti per l’infanzia.
Anche la Grande Distribuzione Organizzata sta facendo la sua parte per fronteggiare l’emergenza. Le principali insegne hanno rafforzato il servizio di spesa online con consegna a domicilio, facendo leva sui propri portali web o su altre piattaforme e-commerce che erogano il servizio avvalendosi di una flotta di shopper (ad esempio, Supermercato24 e Glovo), e offrendo la consegna gratuita alle persone over 65. In parallelo, il Comune di Milano ha attivato un centralino telefonico (02 02 02) dedicato ad anziani e persone affette da patologie croniche o immunodepresse per fornire informazioni aggiornate sui servizi di assistenza messi a disposizione per l’emergenza, compresa la possibilità di richiedere buoni spesa (ticket) da usare nei supermercati e la consegna di pasti e pacchi a domicilio, forniti in collaborazione con la distribuzione e cooperative sociali.
Contestualmente, stanno emergendo nuove applicazioni digitali per la gestione dei flussi all’interno dei supermercati e l’ottimizzazione dei tempi di attesa a beneficio degli utenti, come ad esempio le app FilaIndiana e Ufirst, oggetto di particolare attenzione anche da parte dell’ente pubblico. Infatti, in questo clima di emergenza sono state lanciate, sia a livello europeo che nazionale, numerose call a startup, aziende e privati cittadini, per promuovere soluzioni innovative in grado di contribuire alla lotta contro l’emergenza Covid-19.

In conclusione, tirando le fila, il caso di Milano rappresenta un esempio virtuoso, che può fornire molteplici spunti per concepire e mettere a terra un piano di azione per fronteggiare situazioni similari in futuro.
Una possibile risposta alla domanda di aiuto alimentare in clima emergenziale può passare quindi attraverso la riconfigurazione di processi esistenti e una maggior centralizzazione di responsabilità e attività in capo all’amministrazione pubblica, la creazione di una rete solida di partnership tra pubblico e settore profit e non profit, e il connubio sempre più forte tra canale fisico tradizionale e tecnologia digitale.
I motori ad alimentare l’intero sistema rimangono la solidarietà e la dedizione del volontariato e delle reti sociali, che permettono di raccogliere e interpretare i bisogni dei territori e delle persone in difficoltà e disegnare soluzioni in maniera rapida e flessibile insieme al decisore politico locale.

Emergono quindi interrogativi sulle prospettive future, quando l’emergenza sanitaria sarà allentata e successivamente, e auspicabilmente, superata, ma rimarrà più che mai vivo il problema della povertà e dell’accesso al cibo. Occorre ragionare sull’efficacia e sulla sostenibilità dell’intero sistema di aiuti, comprensivo del modello degli “hub” territoriali, in una prospettiva di più lungo periodo. Sarà forse necessario partire dalle difficoltà riscontrate e ripensare alla configurazione del modello organizzativo, a partire dai ruoli dell’ente pubblico e del Terzo Settore, per riuscire a mitigare o prevenire gli effetti di un’analoga situazione di difficoltà in futuro.

Privacy e Covid: le vere domande da porsi

Le applicazioni che tracciano gli spostamenti dei cittadini per prevenire il diffondersi incontrollato del contagio sollevano diverse preoccupazioni sul fronte della privacy.
Eppure ogni giorno esponiamo e cediamo i nostri dati volontariamente senza rendercene conto.

 

Tommaso Buganza, Professore di Leadership and Innovation
Daniel Trabucchi, Assistant Professor di Leadership and Innovation
School of Management Politecnico di Milano

 

Stiamo vivendo una situazione senza precedenti. La pandemia globale che abbiamo visto in molti film hollywoodiani è oggi una realtà e – senza popcorn – ha un aspetto completamente diverso.
In Italia – come si spera avvenga presto in altri paesi – il tasso di diffusione ha iniziato finalmente a scendere e la discussione si sta spostando sulla gestione della “Fase 2”. Come sarà il “new normal”? Come sarà vivere in un mondo in cui il virus è sotto controllo, ma ancora presente?

Gli esperti digitali stanno proponendo possibili “scenari futuristici” in cui le applicazioni mobili ci tracceranno per informare immediatamente le persone potenzialmente esposte e interrompere la catena di trasmissione del contagio (si veda, ad esempio, il progetto paneuropeo Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing project). È notizia del 17 aprile la firma del governo per la stipula del contratto per l’app “Immuni”, con l’obiettivo del contact tracing tramite bluetooth.

Nel frattempo, Google ha condiviso dati anonimi per aiutare le forze dell’ordine nell’identificazione di assembramenti durante il lockdown (Giuffrida, 2020; Hamilton, 2020) e ha stretto una partnership con Apple per sviluppare una tecnologia di tracciamento dei contatti (Apple, 2020). Allo stesso tempo, il mondo comincia a guardare avanti, chiedendosi “come” – dato che “se” non è più un’opzione – questa emergenza globale cambierà la nostra vita negli anni a venire. In un articolo sul Financial Times, Yuval Harari descrive le possibili implicazioni dell’utilizzo delle tecnologie disponibili per tracciare i movimenti e i comportamenti delle persone. Da un lato questo aiuterebbe i sistemi sanitari nazionali, ma, dall’altro, il costo potrebbe essere una “nuova normalità” in cui le nostre funzioni vitali sono costantemente misurate, memorizzate e analizzate. È facile immaginare come questa enorme banca dati, insieme alla crescente conoscenza della biomeccanica umana e all’impressionante progresso dell’intelligenza artificiale, possa portare a una riduzione della democrazia e dei diritti civili nei nostri Paesi (Harari, 2020).

Le persone sembrano spaventate, non solo dalla pandemia, ma anche dalla perdita di privacy (Brody and Nix, 2020). Stiamo lentamente ma inesorabilmente perdendo la nostra libertà?

Cosa sappiamo già sull’utilizzo dei nostri dati? I dati sono il nuovo petrolio, sempre più considerati una risorsa preziosa da sfruttare. Sono preziosi perché ci permettono di capire cose che altrimenti non capiremmo. Ci mostrano qualcosa che non conosciamo, sia come individui che come collettività. Ci mostrano cose che sono proprio davanti a noi, ma che sono troppo complicate per essere viste dai singoli cervelli umani.

Pensate a Netflix, uno dei servizi che molti di noi usano intensamente in questi giorni di isolamento. Scegliere un nuovo film o una nuova serie è un’avventura epica. Questo è vero. Ma forse non sapete che Netflix vi ha già reso le cose molto più facili. Probabilmente avrete notato che il “match score” (la percentuale che indica quanto sia probabile che apprezziate il contenuto) è spesso molto alto. Netflix traccia tutti i vostri comportamenti, i film e le serie tv che avete visto, la frequenza di visione e altri dati per proporvi solo contenuti che vi dovrebbero piacere. Se siete curiosi, potete provare a cercate in tutto il catalogo, scoprirete molti altri contenuti che non avete mai notato… e che probabilmente non vi piaceranno!

Questo è solo un esempio… ma la lista di servizi che usiamo quotidianamente, basati su questi meccanismi è molto lunga. Spotify può suggerirci canzoni, Amazon prodotti, la nostra app per il fitness -Runkeeper, Runtastic, Freeletics… – la prossima sessione di allenamento ottimizzata per noi, sulla base delle precedenti.
Potrebbe sembrare qualcosa di distintivo dell’app economy, ma non lo è. Google ha costruito il suo impero su un modello di business basato sui dati, partendo con gli annunci mirati sul loro motore di ricerca, usando gli utenti per taggare le immagini (con il gioco Google Image Labeler) ed anche i captcha per rilevare gli indirizzi (Perez, 2012) o identificare meglio le immagini di street view… con il fine ultimo di supportare lo sviluppo di algoritmi per le auto a guida autonoma (Kid, 2019). Anche imprese non native digitali ormai utilizzano pienamente i dati. Basti pensare a Starbucks che utilizza i dati della sua app per ottenere informazioni sulle abitudini e sui gusti dei propri clienti (Gallea-Pace, 2020).

Le grandi aziende digitali ci conoscono perfettamente, ci conoscono molto di più di quanto immaginiamo. E alcune di loro, nel corso degli anni, sono diventate estremamente brave a trarre profitto e a catturare valore dai dati (Trabucchi et al., 2017, 2018).
Ci “ripagano” con servizi personalizzati o, in alcuni casi, gratuiti… che ci piacciono ancora di più.
Le aziende – ovviamente – devono rispettare tutte le leggi sulla privacy, e il GDPR in Europa ha giocato un ruolo enorme in questo. Tuttavia, possono fare molto con i dati che forniamo loro perché accettiamo i termini di utilizzo… solitamente senza leggerli.

È curioso, ma non è nemmeno la prima volta che la questione della privacy genera degli scandali molto diffusi. Due anni fa, sui social media di tutto il mondo impazzava l’hashtag #LeaveFacebook.
Lo scandalo di Cambridge Analytica ha messo in evidenza il modello di business di Facebook basato sui dati, le sue implicazioni per la nostra privacy, e persino l’impatto che i dati possono avere sulla nostra vita attraverso il micro-targeting e fenomeni simili (Cadwalladr, 2019). In quelle settimane, sembrava che il mondo si stesse rendendo conto di quello che stava succedendo da anni: i dati sono preziosi, le aziende li usano. Guardando Mark Zuckerberg in giacca e cravatta davanti al Congresso degli Stati Uniti, molti di noi pensarono che Facebook sarebbe diventato vuoto come le nostre città in queste settimane. Ma non è successo. Dopo il clamore iniziale, siamo tornati alle nostre abitudini… godiamo troppo dei nostri servizi digitali gratuiti per preoccuparci di come li paghiamo.

Ed eccoci di nuovo qui. In questo momento storico unico, ci ritroviamo a pensare molto a come sarà il “new normal”. Se abbiamo davvero a cuore la nostra privacy, dovremmo chiederci: il nostro prossimo futuro sarà diverso solo in termini di relazioni sociali e di come ci muoviamo o metterà in discussione anche la nostra consolidata vita digitale?
Possiamo ancora riavere la nostra privacy… se vogliamo. Ma, siamo pronti a rinunciare a quei meravigliosi servizi forniti da Netflix, Waze, Amazon, Spotify, Instagram, Facebook, TikTok, Twitter, Snapchat e tutti gli altri?

Questo è il nostro punto: l’improvvisa paura legata all’utilizzo dei dati personali per proteggere la salute pubblica è davvero giustificato? Forse dovremmo invece accettare il fatto che la “nuova normalità” pone domande ancora più difficili da affrontare:

Diamo più valore ai servizi gratuiti che alla salute pubblica?
Ci fidiamo più delle aziende private che dei nostri governi?

Covid-19: l’impatto sull’eCommerce B2c

Il lockdown ha cambiato profondamente le abitudini dei consumatori: gli acquisti online di prodotti alimentari e beni di prima necessità sono cresciuti in modo esponenziale. La reazione dei retailer è stata diversa e condizionata dal comparto merceologico e dalla presenza di un’iniziativa eCommerce. Nella fase di ripresa, una profonda ristrutturazione attende il mondo Retail.

 

Riccardo Mangiaracina, Professore di gestione dei sistemi logistici e produttivi, Responsabile Scientifico Osservatorio eCommerce B2c
Valentina Pontiggia, Direttore Osservatorio eCommerce B2c e Innovazione Digitale nel Retail
School of Management Politecnico di Milano

 

Prima della crisi… l’eCommerce, canale in crescita in Italia e all’estero
Nei mercati più maturi l’eCommerce è diventato un canale di primaria importanza nella generazione dei consumi. Nel 2019 in Cina o in UK, ad esempio, ogni 100 euro spesi dai consumatori, circa 20 sono transitati online. Nei mercati dove l’offerta si è sviluppata con più ritardo, l’online si è comunque appropriato di importanti spazi di crescita del commercio. In Italia, ad esempio, l’eCommerce nel 2019, nonostante abbia rappresentato ancora una piccola parte degli acquisti complessivi (7,3% del totale), ha generato infatti il 65% della crescita Retail complessiva (online + offline) [1] .

Negli ultimi anni, il canale online ha aumentato non solo la dimensione del mercato, ma anche il suo perimetro di azione e di influenza. In prima battuta, l’eCommerce è diventato decisivo nello sviluppo e nella promozione di nuovi modelli di relazione con i consumatori fortemente innovativi che, pur partendo dall’online, si sono propagati a tutto il Retail. Questa trasformazione ha coinvolto l’intera catena del valore: il marketing, dove intelligenza artificiale e realtà aumentata hanno permesso al consumatore di “vivere” il prodotto (sia online sia in store) prima di possederlo; i pagamenti, dove l’utilizzo di biometria, già abbastanza diffuso online, ha acquisito sempre più importanza anche offline; la logistica, dove sono emerse diverse innovazioni sia per migliorare il servizio sia per dare al cliente finale un elevato controllo del processo.
In seconda battuta, il successo dell’eCommerce e la nascita di nuove modalità di acquisto e di interazione hanno cambiato il significato originario del negozio fisico, che non è più l’unica possibilità di accesso fisico al prodotto. In questo processo di trasformazione, i retailer tradizionali hanno attribuito al negozio nuove funzionalità, prevalentemente in ottica relazionale, demandando la fase transazionale all’eCommerce. Tante le sperimentazioni di nuovi format anche sul suolo italiano, in primis su Milano [2].

La rilevanza acquisita dall’eCommerce ha portato con sé anche una maggior attenzione (non sempre in chiave positiva) dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Nuovi obblighi normativi (PSD2 con la cosiddetta Autenticazione Forte del Cliente per autorizzare le transazioni finanziarie online e Web Tax), attenzione ai temi della sostenibilità (non solo economica ma anche ambientale) e la posizione dominante di alcuni grandi colossi, in primis Amazon e Alibaba, sono solo alcuni dei temi più dibattuti.

Durante la crisi… l’eCommerce, strumento per rispondere all’emergenza
Il commercio è uno degli ambiti più impattati dall’emergenza Coronavirus. La reazione dei retailer è stata fortemente condizionata dalla presenza o meno di una propria iniziativa sul canale online.
Molti negozi fisici, soprattutto quelli focalizzati sui beni alimentari e di prima necessità, si sono avvicinati per la prima volta all’eCommerce. La soluzione più immediata è stata l’utilizzo di soggetti terzi già presenti online. Sono diversi i ristoranti che hanno digitalizzato la propria offerta di piatti pronti attraverso piattaforme di food delivery e tanti i supermercati che hanno attivato l’eCommerce mediante alleanze con piattaforme che già da tempo abilitano (dal punto di vista tecnologico e operativo) la spesa online di alcune insegne della grande di distribuzione. Ancora più numerosi i negozi di quartiere che hanno iniziato a lavorare con strumenti digitali meno evoluti dell’eCommerce, ma ugualmente interessanti, come ad esempio i tanti punti vendita di vicinato (negozi di alimentari, farmacie, …) che hanno attivato la presa dell’ordine via whatsapp o per telefono.
Gli attori già presenti online, dall’inizio dell’epidemia, hanno riscontrato un incremento degli ordini riconducibili ai nuovi consumatori, che per la prima volta hanno deciso di utilizzare i loro servizi. In questa emergenza è venuto però alla luce un fatto tanto semplice quanto importante. Nelle iniziative online, soprattutto di prodotti alimentari, le operations hanno dettato con violenza i ritmi e soprattutto hanno imposto i limiti. Fare eCommerce richiede impegno e una macchina operativa perfettamente funzionante ed efficiente: processi ottimizzati di picking e di trasporto, soprattutto quando parliamo di spesa da “supermercato” (che per onor di cronaca è costituita mediamente da 50 pezzi, di basso valore unitario e che richiedono trattamenti speciali come il trasporto a temperatura controllata). Le dipendenze tra mondo fisico e digitale sono emerse anche con altre sfumature: tutti quei retailer multicanale di abbigliamento, beauty, informatica ed elettronica, costretti alla chiusura dei propri negozi, hanno trovato nell’online una preziosa possibilità per mantenere la relazione, in alcuni casi intensificandola, e per creare valore (e non vendite) con i propri consumatori. A questo proposito si citano l’invio di questionari agli utenti per raccogliere opinioni e spunti di miglioramento e l’erogazione di corsi online (di fitness, di cucina,…) correlati ai prodotti commercializzati.
Durante la crisi abbiamo visto, quindi, cadere una dopo l’altra le barriere all’integrazione omnicanale che avevano bloccato per anni lo sviluppo della strategia digitale dei retailer italiani. La gestione dell’emergenza ha convinto anche i più restii al cambiamento, a superare gli scontri interni tra funzioni, a definire chiare responsabilità e a dedicare il giusto commitment per realizzare una nuova idea di commercio, integrato e indipendente dai canali. Via libera dunque agli investimenti per potenziare il canale eCommerce o per favorire modalità di vendita fondate sull’integrazione tra esperienze online e offline, come il click&collect, il drive&collect o l’allestimento degli ordini online in store.

Dopo la crisi… l’eCommerce, elemento imprescindibile per la ripresa del commercio
In questi giorni di emergenza sono tante le domande che ci poniamo sugli effetti e sulle mutazioni che ci attendono nel mondo del commercio. Tra le poche certezze, ci sono a nostro avviso la vicinanza che i canali online e fisico stanno dimostrando con forza in questo momento difficile e il ruolo indispensabile che l’eCommerce svolgerà per la ripresa del commercio e dei consumi.
Mai come durante l’emergenza sanitaria i consumatori italiani hanno compreso il valore di questo canale: l’eCommerce ha consentito a una larga fetta della popolazione di fruire di servizi a valore aggiunto, importanti ed essenziali come la consegna di cibo. Crescita dei web shopper (che a fine 2019 erano pari a poco più di un terzo della popolazione italiana), maggior dimestichezza e fiducia nell’online e nei pagamenti digitali (anche da parte di chi online acquistava già) potranno generare un effetto positivo nello sviluppo dell’eCommerce.
Dall’altra parte, lo sforzo encomiabile messo in campo da diversi attori non verrà vanificato: a crisi finita rimarranno gli investimenti in tecnologia (per gestire picchi di traffico), la presenza di nuovo personale formato e l’ottimizzazione di processi di prelievo e di trasporto per gestire al meglio non solo questa domanda “straordinaria”, ma anche un futuro in cui il digitale sarà sempre più fondamentale.
L’eCommerce sarà sempre più motore di crescita e di innovazione del Retail: quando avremo lasciato alle spalle questa crisi, cercheremo come consumatori una nuova normalità, sicuramente più digitale. Una sfida importante per il nostro Retail!

 

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[1] Fonte: Osservatorio eCommerce B2c – School of Management Politecnico di Milano.
[2] Per i risultati completi della Ricerca, “eCommerce: motore di crescita e innovazione del Retail” disponibile su www.osservatori.net

Emergenza Covid in Italia: l’effetto startup da non vanificare

Le startup hanno nel proprio DNA la capacità di adattarsi al cambiamento e in questa emergenza hanno messo a disposizione idee, capacità di lavoro e velocità di reazione, spesso pensando prima all’interesse della comunità piuttosto che al ritorno economico. Un asset del nostro tessuto imprenditoriale che va sostenuto e incentivato.

 

Alessandra Luksch, Direttore Osservatorio Startup Intelligence
Osservatori Digital Innovation, School of Management Politecnico di Milano

 

L’emergenza Coronavirus ha stravolto il mondo consolidato delle imprese. Per fare qualche esempio, le industrie manifatturiere sono costrette a condizioni di lavoro inusuali, gli operatori logistici oscillano tra impennate nelle consegne e fermi totali, gli esercizi commerciali, banche comprese, devono attrezzarsi per una nuova gestione della clientela.
In questo contesto di repentino inatteso cambiamento, in cui le imprese tradizionali e le istituzioni sono disorientate, l’ecosistema startup sembra trovare vie per supportare la nuova quotidianità imposta.

La bresciana Isinnova ha risposto immediatamente all’emergenza e progettato valvole per i respiratori per i pazienti Covid-19, da installare su maschere da snorkeling. Ha poi rilasciato pubblicamente il brevetto per stampa 3D, a patto che non venisse usato a scopo di lucro. Oggi sono milioni i pezzi stampati in tutto il mondo e decine gli ospedali che provano la dotazione. Ufirst sta fornendo gratuitamente l’app di gestione delle code agli esercizi commerciali, così come si sta diffondendo in modo free la neonata Filaindiana per conoscere la lunghezza delle file nei negozi. Soldo, startup per la gestione delle spese aziendali, sta lavorando con decine di comuni, tra cui Milano, per gestire la distribuzione dei sussidi alimentari. Weschool ha donato a centinaia di scuole italiane la propria piattaforma di didattica a distanza, formando i docenti e sostenendo i costi per il servizio in cloud. E tante si stanno adattando al cambiamento come FrescoFrigo, che ora installa i suoi punti di consegna anche nei condomini. Non mancano anche i casi di fallimento, ma la lista può continuare, come sta monitorando l’Osservatorio Startup Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano.

Non siamo stupiti. Le startup hanno nel proprio DNA la capacità di adattarsi al cambiamento e in molti casi fanno del cambiamento la propria spinta propulsiva. Il modello lean startup, teorizzato da Eric Ries, è agile, resiliente, frugale, orientato alla sperimentazione veloce, alla centralità del cliente. Le startup sono abituate ad ascoltare costantemente il mercato, a testare in pochi giorni nuovi prodotti o nuovi mercati, a cambiare strategia, cliente, modello di business, a sfruttare le tecnologie. In questo frangente esse stanno mettendo a disposizione velocemente le loro principali risorse: idee e capacità di lavoro; spesso pensando prima all’interesse della comunità piuttosto che al ritorno economico.

Questo sforzo prodigioso, questo “effetto startup”, manifestatosi così forte in un momento così grave, non deve essere vanificato nel nostro Paese ma si spera possa essere valorizzato come patrimonio di sistema. Due, almeno, sono le riflessioni da cui parte questo augurio.

La prima riflessione è relativa all’effetto culturale. L’approccio mostrato dalle startup potrà essere la chiave di volta per affrontare le prossime fasi e portarci verso la nuova normalità. Le imprese tradizionali devono imparare a ragionare come le startup, per adattarsi e sopravvivere ai cambiamenti (come recita Darwin). In Italia già oggi il 35% delle grandi imprese collabora con le startup, come emerge dalle ricerche dell’Osservatorio Startup Intelligence, mentre è molto più limitato il fenomeno nelle PMI (4%). Le imprese tradizionali dovranno imparare a uscire dai propri modelli rigidi, dalle procedure impaludate, superare al proprio interno silos funzionali, o ancor peggio culturali. Dovranno saper prendere rapidamente decisioni, anche sulla base di errori perché, parafrasando una famosa citazione del pilota Mario Andretti, in questo momento dobbiamo andare veloci anche a rischio di non avere tutto sotto controllo. Superato questo drammatico momento, le imprese che avranno saputo adottare nuovi modelli culturali e di gestione d’impresa possiederanno un importante vantaggio competitivo rispetto a quelle che avranno solo cercato di limitare i danni.
Pochi giorni fa, lo stesso Henry Chesbrough, padre del concetto di Open Innovation, ha dedicato un articolo all’emergenza Coronavirus, in cui sottolinea che in tempo di crisi, come quello che stiamo vivendo a livello mondiale, la velocità è elemento cruciale. Prima conosciamo, prima possiamo agire. Altrettanto cruciale è sapere collaborare perché questo può potenziare il progresso collettivo, e Chesbrough chiama alle armi alcune note aziende affinché mettano a disposizione i propri bevetti (magari inutilizzati) e i propri asset per fronteggiare l’emergenza.

La seconda riflessione riguarda l’effetto sul sistema economico. Molte imprese stanno soffrendo l’assenza di liquidità. L’emergenza ha portato uno shock nell’offerta ma anche un profondo shock nella domanda. Si stima una caduta del Pil interno di quasi dieci punti percentuali (Confindustria); non va meglio nel resto del mondo (primo trimestre 2020 in Cina -6,8%) e per quasi tutte le imprese permane l’incertezza per il futuro. In questa condizione quasi tutti gli investimenti sono stati bloccati, per qualsiasi cifra superiore a zero. Gli investimenti in startup non fanno eccezione. In questo periodo i round di investimenti in Cina si sono dimezzati (Fortune Italia), e alcuni studi stimano che nel 2020 verranno perse decine di miliardi di dollari di investimenti in startup, con ulteriori ricadute drammatiche sull’ecosistema globale (Fortune Italia). Il nostro ecosistema di finanziamenti alle startup non ha le spalle larghe, esso non raggiunge il miliardo di euro, secondo i dati dell’Osservatorio Startup Hi-tech, ed è di gran lunga sottodimensionato rispetto a tutti i Paesi europei con noi confrontabili. Il lavoro degli investitori formali, i Venture Capital, non si è completamente fermato ed essi chiamano a gran voce, insieme alle associazioni, l’aiuto dello Stato per sostenere questo comparto della nostra economia, così come ha fatto la Francia con 4 miliardi di euro di sostegno alle startup. Le startup spesso non fatturano, non rientrando così nei requisiti dei piani liquidità attuali di sostegno alle imprese. Ma esse investono in Ricerca e Sviluppo, la linfa vitale per lo sviluppo, il progresso e la crescita del nostro Paese. Inoltre, esse sono fonte cruciale di nuova occupazione qualificata: negli Stati Uniti il 95% dei nuovi posti di lavoro è creato da imprese con meno di 5 anni (US Census Bureau). Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro la crisi attuale potrebbe causare 25 milioni di disoccupati in tutto il mondo, assai peggio della crisi del 2008. Fermare l’ecosistema startup potrebbe significare bloccare un meccanismo potente di riavvio e di crescita nel nostro Paese.

Per almeno questi motivi l’effetto startup a cui stiamo assistendo non deve essere vanificato, ma deve essere incentivato, per non compromettere una parte promettente del nostro tessuto imprenditoriale. Le startup non devono essere dimenticate, ma sostenute. Determinanti saranno gli interventi che il nostro Governo saprà mettere in campo, dall’iniezione di credito nei circuiti dei finanziamenti all’alleggerimento degli oneri a carico delle startup.
Nessuno sa ancora come sarà domani, ma la mentalità e l’ecosistema startup nel loro complesso potranno contribuire, come già ora fanno, alla ripartenza di tutto il nostro sistema economico.

La crisi globale da Covid-19 e le ripercussioni sul commercio internazionale e sulle catene globali del valore

Lo shock all’economia mondiale provocato dall’emergenza sanitaria Covid-19 è tanto globale quanto le catene del valore su cui si basa. Ma chiudere le frontiere e applicare restrizioni agli scambi non è una soluzione auspicabile: agire in modo coordinato può garantire una ripartenza efficace per tutti i sistemi economici, bilanciando le necessità e le capacità produttive dei singoli paesi.

 

Lucia Tajoli, professoressa di International Markets and European Institution
School of Management Politecnico di Milano

 

E’ ancora presto per avere dati ufficiali e stabilizzati, ma è oramai molto chiaro che la diffusione del cosiddetto COVID-19 e la associata pandemia stanno avendo effetti molto pesanti sull’economia mondiale, con chiare implicazioni anche per il commercio internazionale.
Il commercio internazionale risultava già in decelerazione nell’ultima parte del 2019, a causa del generale rallentamento del ciclo economico in molti paesi. I primi mesi del 2020 stanno confermando questo forte rallentamento degli scambi. La World Trade Organization (WTO) sta aggiornando in modo continuo le previsioni per l’anno in corso, che risultano al ribasso sia per gli scambi di beni sia per gli scambi di servizi a seguito dello shock sulla produzione e sulla domanda che si sta allargando a vari paesi. Dato l’elevato livello di incertezza però, le maggiori istituzioni internazionali non si azzardano ancora a fornire cifre precise. Anche le stime prodotte dal WTO nel mese di aprile sulla possibile caduta degli scambi mostrano un intervallo amplissimo, tra – 13% e – 32%.

La caduta del commercio internazionale è una conseguenza inevitabile della situazione attuale, dal momento che le aree al momento più coinvolte nella crisi sanitaria con gravi ripercussioni economiche sono quelle dei maggiori protagonisti del commercio mondiale: Cina, Unione Europea, ed USA generano oltre la metà dell’intero commercio mondiale. Dunque, l’impatto del rallentamento in questi paesi si fa sentire sui flussi di scambio a livello globale, anche in aree relativamente poco esposte al contagio.

Un aspetto particolare degli scambi commerciali rende più grave l’effetto della crisi e preoccupa gli osservatori. Da almeno venti anni è cresciuto il peso e il ruolo delle catene globali del valore nei mercati mondiali. Secondo un recente rapporto della Banca Mondiale, oggigiorno la maggior parte dei flussi di scambio tra paesi avviene all’interno delle catene globali del valore (o Global Value Chains, GVCs), ovvero è generato da processi produttivi che attraversano i confini dei paesi e coinvolgono nella catena di produzione di beni, soprattutto complessi, imprese specializzate localizzate in aree anche lontane. Il ruolo di queste catene globali del valore in questa crisi appare cruciale. Secondo alcuni osservatori, questa organizzazione internazionale della produzione ha creato un sistema economico fragile e maggiormente esposto agli shock internazionali. Il rischio di una interruzione della fornitura degli input necessari per la produzione è maggiore in una catena produttiva molto dispersa geograficamente. Inoltre, la presenza di queste catene produttive può amplificare la trasmissione degli shock secondo il cosiddetto “effetto frusta”. In presenza di uno shock negativo che colpisce quasi simultaneamente molti paesi economicamente connessi, il rallentamento della produzione di un sistema economico fornitore di input produttivi essenziali si trasmette ai sistemi connessi a valle, riducendone la capacità di produzione, aggiungendo un ulteriore stretta negativa al rallentamento locale della produzione (che può essere dovuto a fattori locali sia di domanda che di offerta), ed amplificando quindi lo shock. Le aree in cui la diffusione dell’epidemia è risultata maggiore sono tra loro strettamente collegate dalle GVCs in molti settori cruciali, dal tessile-abbigliamento all’elettronica di consumo. Per questo effetto di amplificazione dello shock, le previsioni sull’andamento dell’economia globale e sul commercio internazionale sono più negative che in qualsiasi altra crisi del passato.

E’ importante però ricordare che queste catene globali di produzione, anche se hanno reso più interdipendenti le diverse economie tra loro, hanno generato enormi guadagni di efficienza in moltissimi settori e hanno reso disponibili molti beni a prezzi che hanno consentito una diffusione di massa tra tutti i consumatori. Senza la specializzazione in specifiche fasi e componenti della produzione di alcuni paesi e di imprese collegate tra loro, molti dei beni oggigiorno di uso comune non sarebbero disponibili, o lo sarebbero a costi proibitivi. Inoltre, questa organizzazione della produzione ha consentito la partecipazione ai mercati internazionali anche a paesi emergenti che hanno trovato nelle GVCs una modalità di accesso a produzioni che non avrebbero potuto sviluppare in modo autonomo, generando così crescita, occupazione e diffusione della tecnologia.

Già prima dell’attuale crisi si parlava di una tendenza all’accorciamento delle GVCs e del cosiddetto “reshoring”, ovvero di riportare all’interno di alcuni paesi i cicli produttivi in precedenza delocalizzati all’estero. Questo perché questa organizzazione internazionale della produzione, anche se permette guadagni di efficienza e vantaggi di costo, per alcune imprese e alcuni settori risulta troppo complessa, con la perdita del controllo diretto su alcune fasi produttive ed un aumento dei rischi e dei costi organizzativi. In realtà, il fenomeno del reshoring è stato limitato ad alcuni paesi e ad alcune nicchie produttive particolari. La mancanza di controllo sul ciclo produttivo appare potenzialmente rischiosa per alcuni paesi, prima di tutti per la Cina, spingendola negli ultimi anni ad accorciare le proprie catene internazionali di produzione per ragioni soprattutto geopolitiche. Questa scelta ha avuto effetti a livello globale data la rilevanza economica di questo paese. Tuttavia, la crisi in corso potrebbe spingere ulteriormente sul ridimensionamento delle catene produttive internazionali, anche nel tentativo di ridurre l’interdipendenza dei paesi.

Va però ricordato che anche in questa fase di crisi, gli scambi tra paesi svolgono un ruolo fondamentale, ed è essenziale cercare di non ostacolarli eccessivamente. Il commercio internazionale spesso garantisce la disponibilità e l’accessibilità economica di medicinali vitali, prodotti medici e servizi sanitari, in particolare per i paesi più vulnerabili: nessun paese è completamente autosufficiente per i prodotti e le attrezzature di cui ha bisogno per i suoi sistemi di sanità pubblica. Anche molte attrezzature mediche sono prodotte all’interno di GVCs che rendono disponibili componenti avanzate non sempre facilmente prodotte in tutti i paesi. Inoltre, attraverso il commercio internazionale è possibile sopperire a carenze della produzione, oltre che di apparecchiature sanitarie e di farmaci, anche di varie tipologie di beni di prima necessità, distribuendo in modo più efficiente questi beni dove sono più necessari. In questa situazione di emergenza, nonostante la tentazione di alcuni paesi di chiudere le frontiere e di applicare restrizioni agli scambi per accumulare scorte, i governi si accorgono anche di avere bisogno gli uni degli altri e dell’importanza di agire per quanto possibile in modo coordinato a fronte di un problema che è assolutamente globale.

Un ridimensionamento drastico delle catene globali del valore avrebbe conseguenze molto serie, sia nel corso della crisi per gli effetti che questo avrebbe su molti approvvigionamenti, sia in seguito alla crisi impattando su molti settori fondamentali che si sono sviluppati grazie a questa interdipendenza. L’attuale crisi può però essere l’occasione per ripensare ad alcuni aspetti organizzativi di queste catene produttive, accettando un ribilanciamento tra vantaggi e rischi, nella direzione eventualmente di una parziale riduzione di efficienza per ottenere una riduzione dei rischi, per esempio accumulando maggiori scorte o diversificando di più i fornitori, i distributori o i canali logistici. Eppure, proprio una crisi così acuta e la necessità di assicurare una ripartenza efficace dei sistemi economici sottolinea l’importanza di non rinunciare ad una modalità di organizzazione internazionale della produzione che ha prodotto miglioramenti economici fondamentali, e di mantenere aperti gli scambi internazionali proprio come mezzo per bilanciare le necessità e le capacità produttive dei singoli paesi.

Figura 1 – Partecipazione dei paesi alle catene globali del valore (dati 2015)

Fonte: World Bank, World Development Report 2020

 

Figura 2 – Aumento tendenziale del coinvolgimento nelle GVCs nei settori produttivi

Fonte: World Bank, World Development Report 2020