Cultura del dato e modello di leadership: due facce della stessa medaglia

Gli esperti dei dati diventano nodi fondamentali delle relazioni all’interno di un’organizzazione. Per questo la cultura del dato si porta dietro la necessità di rivedere i modelli organizzativi e di leadership

 

Filomena Canterino, Ricercatrice in People Management & Organization, School of Management, Politecnico di Milano

Gli esperti di data analytics, i cosiddetti data scientist e data analyst, sono da qualche anno tra le figure più ricercate dalle aziende, in tutti i settori, dalla manifattura all’education all’editoria. Il loro lavoro è raccogliere, strutturare, analizzare, interpretare e sintetizzare i dati, per trasformarli in informazioni utili per gli altri attori e decisori di un’organizzazione.

Molto spesso, questi ruoli sono nodi fondamentali all’interno dell’organizzazione, perché interagiscono con diverse funzioni e livelli, diventando un punto di riferimento che scavalca e in alcuni casi addirittura ribalta le gerarchie tradizionali. Gli esperti di dati infatti possono portare grande valore aggiunto in quasi tutte le diverse aree aziendali, dalla manutenzione alla strategia alla gestione delle risorse passando per il marketing. E nel farlo, si interfacciano con una moltitudine di diversi attori aziendali.
Pensiamo al tipico esempio di datification di un impianto produttivo, in cui un sistema di sensori è in grado di raccogliere in tempo reale e continuativo i dati relativi alle performance di produzione (ad esempio numero di pezzi prodotti, numero di scarti, durata degli stop, numero di guasti). Tramite l’analisi e l’elaborazione dei dati, e le informazioni che riesce ad estrapolare da essi, un data scientist o un data expert è in grado di dialogare in modo efficace sia con gli operatori, sia con i team leader, sia con i top manager. E’ in grado di dare voce alle macchine, ma anche alle persone che, avendo un’idea più completa e dettagliata delle performance e delle possibili aree di miglioramento, possono proporre nuove soluzioni e idee.

Altrettanto spesso, purtroppo, le persone che ricoprono questi ruoli vengono superficialmente etichettati come “nerd”, “geek”, o altri termini che alludono ad una certa confidenza ed interesse per le questioni analitiche e tecniche, e meno interesse o spigliatezza negli aspetti relazionali, interpersonali e di leadership.
Questa visione, oltre che essere limitata – pensiamo a quanti “nerd” possiamo enunciare tra i CEO e leader di grandi aziende di successo – è estremamente limitante.

Innanzitutto, perché fa riferimento ad una visione ormai obsoleta del concetto di leadership, ossia la leadership innata, eroica, che pone le sue fondamenta sul carisma “naturale”. Gli esperti di leadership e le aziende più all’avanguardia su questi temi sanno bene che leader non necessariamente si nasce, ma si può diventare – per alcuni con più fatica che per altri certo – semplicemente perché la leadership è caratterizzata da comportamenti, ossia da azioni che si possono praticare, allenare e migliorare, e non da tratti. Quindi, anche una persona con una spiccata predisposizione tecnica e analitica può certamente identificare e mettere in campo i comportamenti per interagire con gli altri e per guidare efficacemente un gruppo di lavoro.
Per di più, nel campo della ricerca accademica, in cui la rilevanza dei comportamenti più che dei tratti è cosa nota da svariati decenni, i più recenti studi ci mostrano come la leadership sia in realtà nella maggior parte dei casi un processo complesso, dinamico e condiviso, che nasce dall’interazione tra i diversi attori di un sistema. Se concepita in questo modo, si potrebbe quasi dire che possa essere più facilmente capita da chi si occupa di intercettare e interpretare flussi di dati, che da altri.

In secondo luogo, questo tipo di visione rende poco efficace la gestione dello sviluppo di queste figure all’interno delle organizzazioni, proprio perché accende i riflettori sulla parte sbagliata della scena, ossia sulle caratteristiche personali di chi ricopre uno specifico ruolo, piuttosto che sul modello di leadership dell’organizzazione.

Cosa fare quindi per mettere questi ruoli nelle condizioni di esprimere al meglio il loro potenziale e sviluppare le loro doti di leadership di contenuto e di processo?

Certamente diffondere un modello culturale che guardi alla leadership come qualcosa di condiviso e diffuso, che si basa su azioni e comportamenti, e sul concetto di accountability – per cui ogni singola persona o piccolo gruppo di lavoro è responsabile di una piccola parte del risultato. Tutto ciò può essere reso possibile sia da piani di formazione e sviluppo coerenti, che riguardino tutta l’organizzazione, sia dalle tecnologie digitali, che facilitano l’acquisizione e la condivisione di dati per informare le decisioni e accorciare di conseguenza le catene gerarchiche. Dati, accountability e leadership condivisa: un circolo virtuoso in cui i data expert possono essere veri protagonisti.

Le diversità come occasione di business

Rispetto delle diversità come importante questione etica, ma anche inclusione delle differenze come leva di business. Cristina Rossi Lamastra, professor of Business and Industrial Economics del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, ha fatto del diversity management uno dei suoi oggetti di ricerca. Affiancata da Mara Tanelli e Silvia Strada, docenti del Dipartimento di Elettronica e Informazione del Politecnico di Milano, e con il supporto della linguista Cristina Mariotti, sta indagando sull’utilizzo degli strumenti di data analitycs per fare emergere i bias inconsci, in particolare gli stereotipi di genere nelle comunicazioni aziendali.

«Grazie al movimento Me Too, la gestione della diversità è un argomento che negli ultimi tempi ha attratto l’interesse del grande pubblico, ma il tema è presente da tempo nella letteratura scientifica, in contesti di business e accademici – spiega la professoressa –. Recentemente possiamo dire ci sia stata anche una presa di consapevolezza sui danni derivanti alle imprese dal mancato rispetto delle diversità». Il movimento Me Too, nato negli Stati Uniti, ha posto l’attenzione su un tema delicato sul quale il nostro Paese evidenzia però un ritardo. «Registriamo diverse velocità in questo movimento – continua Rossi Lamastra –. Il tema dell’uguaglianza uomo/donna è profondamente influenzato dalla cultura e va di pari passo con il reddito, si accompagna a maggior sviluppo economico e a una cultura più egualitaria fondata sull’ingresso della donna nel mondo del lavoro».

Oltre a quella di genere, le politiche di diversity management fanno riferimento ad altre diversità, espressione sempre più evidente dei nostri cambiamenti sociali. O meglio, possiamo dire che l’uguaglianza di genere non sia relativa solo al rapporto uomo/donna, ma possa essere declinato su più dimensioni. Pensiamo agli LGBT, le cui politiche di inclusione sono diventate a loro volta argomento, anche se più di recente, di letteratura scientifica. E poi c’è il tema della somma delle diversità. Riportando i risultati di un test dei recruiting svolto negli Stati Uniti, Cristina Rossi Lamastra ha evidenziato la penalizzazione in cui incorrono le donne rispetto agli uomini, ma anche le persone di colore rispetto ai bianchi arrivando così a posizionare le donne di colore come ultime della graduatoria delle inclusioni.

«Il problema della gestione delle diversità appare decisamente complesso, in quanto manca una tassonomia scientifica e universalmente accettata relativamente a queste politiche – indica la docente del Politecnico –. Ma possiamo affermare che se si ignora una parte della popolazione, nel caso delle donne addirittura la metà, si trascura la relativa fetta di potenzialità e si perde la molteplicità dei punti di vista. Si perde tutta la ricchezza cognitiva associata alla diversità e alcuni studi indicano quanto tutto questo determini una perdita economica. Ormai la scarsa presenza di donne ai vertici delle aziende è vissuta da tutti come un limite, ma il problema della discriminazione è più grave e urgente in quei settori in cui la rileviamo a tutti i livelli e non solo ai vertici, come in quello oil & gas, per esempio, dove c’è una netta predominanza di uomini».

Ma come può un’azienda sensibile alla tematica applicare concretamente politiche di gestione delle diversità, che sicuramente danno anche vantaggi sotto il profilo dell’immagine pubblica? «Si possono innanzitutto migliorare i processi di recruiting, puntando su una comunicazione neutrale e prevedendo delle blind audition che non svelino il genere dei candidati, soprattutto nei settori men dominated – ha concluso Cristina Rossi Lamastra –. Le nuove tecnologie possono essere utili in questo senso».

Il tema coinvolge anche lo stesso Politecnico di Milano e la sua School of Management, che, come la maggior parte delle università italiane, aderisce alla parità di genere per quanto riguarda le carriere universitarie e la popolazione studentesca. I problemi più acuti si evidenziano in aree come quelle della matematica, delle scienze e della tecnologia, dove la presenza di donne è molto inferiore a quella degli uomini, e si sono aperti luoghi di confronto e di dibattito per elaborare azioni mitigatrici.