Come educare alle competenze future per un manifatturiero avanzato e sostenibile?

 

IoT, stampa 3D, Realtà Virtuale, Realtà Aumentata e robot collaborativi sono oggi presenti in molte realtà produttive e stanno trasformando rapidamente l’industria manifatturiera. Nonostante questo,  lavorare in fabbrica rimane intrinsecamente una questione di persone, le cui competenze devono evolvere di pari passo con le innovazioni tecnologiche introdotte.

 

Sergio Terzi, Professore di Industrial Technologies, School of Management Politecnico di Milano

 

Il comparto manifatturiero – la classica fabbrica – è un contesto in forte trasformazione. I mercati sono sempre più competitivi e complessi, chiedono tempi più stretti, più varietà, più innovazione. Molti consumatori sono diventati – finalmente – attenti anche a nuovi stili di consumo, più sostenibili e meno impattanti per l’ambiente e la società. E le fabbriche devono trovare il modo di soddisfare tali richieste. O meglio, i responsabili di fabbrica (le macchine da sole non fanno ancora nulla, per fortuna) devono trasformarle, creando ambienti e spazi di lavoro agili, efficienti, moderni, puliti, sostenibili, sicuri.

Inoltre, alle porte delle fabbriche preme – come dappertutto – la continua spinta dell’innovazione tecnologica, soprattutto quella digitale. Computer, tablet, smartphone sono oggi oggetti di uso comune, anche nei reparti di produzione, che devono trovare il modo di usarli in modi intelligenti ed efficaci, oltre che sicuri ed affidabili.

Insomma, le fabbriche devono cambiare. O meglio, le fabbriche stanno già cambiando. Non a caso da oltre una decina d’anni si parla – non solo tra addetti ai lavori, ma anche nei media e nella politica – ampiamente di nuova rivoluzione industriale (3,4 5…), di rinascita manifatturiera, di potenziamento degli investimenti industriali, ecc. E la rivoluzione, un passo alla volta, un progetto alla volta, un’azienda alla volta, sta effettivamente accadendo.

Anche vicino a noi, nella produttiva Lombardia, le fabbriche in fase di trasformazione sono molte. Una grande spinta all’ammodernamento è certamente stata data da una serie di incentivi pubblici (Piano Nazionale Industria 4.0, Impresa 4.0, Transizione 4.0 e il più recente PNRR), oltre che da una grande disponibilità di soluzioni tecnologiche. IoT, stampa 3D, Realtà Virtuale, Realtà Aumentata, robot collaborativi (che lavorano fianco a fianco con gli uomini, non al posto di) sono oggi presenti in molte realtà produttive a noi prossime, in cui i nostri laureati si inseriscono proficuamente. E parimenti sta accadendo anche più lontano, in tutti quei territori a vocazione industriale, nazionali ed internazionali. La fabbrica sta davvero cambiando, e pure in fretta!

La fabbrica però prima di essere fatta di macchine, robot e pezzi da produrre, è fatta da persone. Operatori, tecnici, ingegneri, responsabili di reparto, di linea, di impianto, ecc. Una fabbrica è tale proprio per questa sua organizzazione “industriale”, in cui le diverse competenze si uniscono efficacemente per produrre beni e servizi da portare al mercato. L’industria manifatturiera – da “manu facere”, “fatto con le mani” – è intrinsecamente una questione di persone, delle lore abilità e delle loro intelligenze. Non tutti nasciamo con tutte le competenze necessarie a muoverci in ambienti complessi. Anzi, la maggior parte di noi ne deve acquisire di esperienza e conoscenza per essere in grado di relazionarsi con organizzazioni sofisticate. Anche i nativi “digitali” non nascono con i chip inclusi, ma apprendono le tecnologie digitali dalla loro esperienza quotidiana. Insomma, le competenze si acquisiscono. Il contesto della fabbrica moderna richiede competenze che tradizionalmente non erano considerate rilevanti nella formazione tradizionale del tecnico ed ingegnere industriale (dalla capacità negoziale, alle tecnologie informatiche). Occorre quindi fornire queste competenze, sia alle nuove che alla “vecchie” generazioni. La moderna università tecnica – quale siamo noi – non può esimersi da questa richiesta e deve giocoforza divenire un contesto molto più “multidisciplinare” di quanto siamo stati abituati in passato.

La situazione attuale chiede competenze tecniche “fresche”, da manutenere costantemente (l’informatica, ma non solo, evolve velocemente). Chiede inoltre di affrontare spesso contesti multivariati, nei quali è opportuno disporre di una buona capacità di vedere le connessioni tra aspetti diversi (es. tecnologia, processi, business, bisogni, ecc.) e anche una certa predisposizione all’adattamento continuo. Richiede poi una certa pragmaticità e anche una certa attitudine a “sporcarsi le mani” (sperimentare, modellizzare, simulare, prototipare, programmare, ecc.). Per fornire queste competenze, i metodi e i mezzi educativi devono essi stessi cambiare.

Nella nostra Scuola abbiamo raccolto la sfida di fornire competenze nuove per un mondo nuovo già da un po’. Sono tanti gli esempi nei nostri corsi e nei nostri programmi, ma qui pensiamo sia interessante riportare l’esperienza della nostra Teaching Factory Industry 4.0, che dal 2017 è presente nella nostra Scuola con uno spazio fisico, di fronte al nostro Dipartimento di Ingegneria Gestionale, in cui abbiamo installato una piccola fabbrica digitale e connessa. Vi è una linea semi-automatizzata di assemblaggio, due robot collaborativi, due postazioni di lavoro indipendenti, un AGV, diversi dispositivi per il monitoraggio della produzione, un simulatore 3D completo (digital twin).

La Teaching Factory è stata pensata per fare formazione ed applicazione nello stesso spazio, oltre che per essere utilizzata per sperimentare nuovi modelli operativi (simulazione di impianto). È un ambiente popolato da studenti e ricercatori ed è usato anche nei corsi fondamentali di impianti di produzione ai primi anni del corso di laurea. Nel 2018 abbiamo intitolato la Teaching Factory al nostro compianto mentore, prof. Marco Garetti, che fu tra i fondatori del gruppo di ingegneria industriale del nostro Dipartimento e appassionato educatore.

Grazie alla Teaching Factory Industry 4.0 siamo in grado di aiutare i nostri allievi nell’apprendimento pragmatico delle tecnologie, in un contesto che simula in modo molto spinto la realtà delle imprese industriali moderne. L’esperienza maturata con la Teaching Factory Industry 4.0 è stata inoltre molto utile nel momento in cui l’ateneo ha realizzato il più ampio progetto del Made – Competence Center Industria 4.0, che si trova presso il Campus di Bovisa di Milano, non lontano dalla nostra Scuola.

Come Dipartimento, abbiamo fortemente contribuito alla realizzazione di questo più ampio progetto, che si sta rilevando utile mezzo per la divulgazione delle competenze richieste dalla nuova evoluzione industriale anche presso le imprese e non solo i nostri studenti.

Il prodotto non basta. Il B2B e la sfida della trasformazione digitale

 

Il digitale rivoluziona anche il rapporto tra fornitore e cliente. Le parole chiave delle imprese diventano così marketing e servizio

Marketing e imprese B2B: un connubio recente, ma già imprescindibile. Fino a poco tempo fa era il reparto commerciale a occuparsi tanto della costruzione della reputazione nei confronti delle aziende, quanto della conversione di queste in clienti. Con la trasformazione digitale il panorama è mutato. Le imprese italiane, storicamente poco sensibili al marketing, sono ora protagoniste di una presa di coscienza improvvisa. Ce lo spiega il professor Giuliano Noci, Professore di Strategia e Marketing
presso il Politecnico di Milano: «Il cambiamento deriva da due elementi. Uno è di ordine tecnologico, l’altro è legato a un calo di risultati delle reti commerciali tradizionali».

La tecnologia impone un rapporto più profondo con il cliente

La componente tecnologica che impone alle aziende B2B di puntare sul marketing presenta due aspetti: «Innanzitutto, oggi non basta più che il prodotto sia tecnologicamente avanzato. Per essere attrattivo deve funzionare in un certo modo, secondo le aspettative del cliente», racconta Noci. «Viene rivoluzionato il rapporto tra fornitore e cliente, dove quest’ultimo non compra tanto il prodotto, quanto piuttosto il servizio a esso associato. Tradizionalmente, le imprese B2B hanno sempre vantato una grande conoscenza di ciò che vendevano, a cui però non corrispondeva una conoscenza altrettanto approfondita del cliente e dei suoi bisogni. Il marketing, oggi, è lo strumento con cui instaurare questa nuova intimità. Ed è qui che entra in gioco il secondo elemento legato all’aspetto tecnologico: i confini della competizione oggi sono mutevoli. Le analisi organiche e sistematiche del contesto, dei competitori, dei clienti diventano cruciali. Solo conoscendo tutti questi fattori si possono intercettare i trend e rispondere ai bisogni dei clienti, fornendo loro dei servizi che altrimenti sarebbero erogati da qualcun altro».

La relazione, prima della transazione

D’altra parte, le performance delle reti commerciali a cui si sono appoggiate finora le aziende non sono paragonabili a quelle di una volta. Questo impone un ripensamento strategico, secondo Noci: «Il buyer industriale adotta comportamenti simili a quelli dei privati che oggi comprano online. Si costruisce una rete di alternative di acquisto possibili, e solo dopo incontra il fornitore. Questo significa che bisogna pensare alla costruzione di un sistema omnicanale, a partire dal classico sito web, per proseguire anche sui social, come LinkedIn. Per gestire tutti questi nuovi elementi, diventa ineludibile l’integrazione tra marketing e commerciale, tant’è che quest’ultimo vira sempre più verso la funzione di advisor nei confronti dei clienti».
Questi cambiamenti impongono alle aziende un ribaltamento dei paradigmi operativi: «Il modello su cui basarsi non sarà più transazionale, ma relazionale, perché le nuove tecnologie sublimano la dimensione umana. Analogamente, non bisogna più pensare in termini di prodotto, ma di servizio. Se un’azienda invece si appiattisce sul prodotto, potrà avere dei margini operativi solo su quello, mentre la vera sfida e i veri guadagni sono legati ai servizi connessi al prodotto stesso. Ci vuole coraggio, soprattutto per le piccole imprese, che possono sfruttare una maggiore flessibilità: uscire dalla comfort zone, e capire come posizionarsi in una rete di imprese che offrono servizi», consiglia Noci.

Per i manager la sfida è culturale

In questo processo le figure dei manager diventano fondamentali. «Non devono essere solo estremamente competenti e avere capacità di marketing e strategiche. Poiché devono portare le aziende a un cambiamento che è prima di tutto culturale, devono possedere grandi capacità di leadership, con le quali farsi seguire anche da chi per molti anni ha lavorato in un contesto differente» conclude Noci. In questa prospettiva i corsi brevi dell’area B2B del marketing del MIP hanno l’obiettivo di fornire strumenti concreti per far fronte alla crescente importanza della trasformazione digitale.

Con le digital platform il manager si fa designer dell’innovazione

In un contesto sempre più digitale, la funzione del dirigente assomiglierà a quella di un architetto: una figura più carismatica e meno operativa in grado di sviluppare visioni e costruire relazioni

 

Trasformazione digitale e management dell’innovazione: cosa sta succedendo in questi due ambiti, così importanti per il futuro delle imprese? È il tema del workshop Digital trasformation and Innovation Management: Opening up the Black Box, che si è tenuto il 19 e il 20 dicembre presso il Politecnico di Milano. Tra gli accademici che vi hanno preso parte, c’è anche il professor Carmelo Cennamo, della Copenhagen Business School. «In un contesto sempre più digitale, la funzione del manager assomiglierà sempre più a quella di architetto» sostiene Cennamo. «In un’economia basata sulle digital platform, avrà il compito di disegnare nuove architetture relazionali con le altre aziende. Dovrà valutare se all’azienda conviene utilizzare una propria piattaforma o se affidarsi a terzi, e capire quale ruolo e quale posizione strategica dovrà assumere la sua compagnia in questa struttura. È un’evoluzione che avvicina la figura del manager a quella del designer, rendendola meno operativa. Ma dovrà sempre trattarsi di una figura carismatica, in grado di sviluppare visioni e immaginare nuove configurazioni nel sistema di valore».

Modularità, complementarietà, flessibilità

La chiave di questo cambiamento è la digital platform. «Sono ecosistemi basati su piattaforme che funzionano per mezzo di strutture relazionali, dove le aziende sono interdipendenti tra loro e condividono un insieme di attività correlate», spiega Cennamo. Sono due, principalmente, le caratteristiche delle digital platform: «La prima è la modularità. Significa che le varie attività all’interno di una piattaforma possono sì essere complementari, ma rimangono comunque indipendenti. Il secondo elemento è proprio la complementarietà. Viene così incentivato il coordinamento, che avviene proprio grazie alle peculiarità di questo sistema. È un mondo dove vengono meno i classici rapporti contrattuali, in nome di una maggiore flessibilità».

Grandi e piccole alla prova della disruption

Un cambiamento simile ha delle ricadute non da poco su tutte le imprese, grandi e piccole. «Le potenzialità sono assolutamente disruptive» racconta Cennamo. «Assistiamo a una progressiva disintermediazione, che mette in contatto attori precedentemente disconnessi. Le piattaforme aiutano a mettere direttamente sul mercato un’offerta, così nasce un mercato liquido che supera di gran lunga i limiti di quello tradizionale». Per le piccole imprese il vantaggio è notevole: «Si riesce ad arrivare al di là dei mercati locali, raggiungendo un giro di potenziali clienti immensamente più ampio». Per le grandi imprese, soprattutto le incumbent che hanno sempre offerto servizi di tipo premium, le cose sono un po’ diverse. «Prendiamo l’esempio degli hotel di alto livello, che avevano relazioni privilegiate con la clientela. Per loro, un mercato più liquido ha significato anche un mercato più trasparente e competitivo. E questo ha comportato una certa difficoltà. Ma lo stesso vale per le banche, che guardano con timore all’avvento delle fintech. Con le digital platform, chi non aveva degli asset è riuscito a trovare un valore».

L’importanza della “visione” per il manager

Dalla digital platform alle cognitive enterprises, il passo è breve. «L’azienda è sempre stata una struttura che riceveva input e mandava all’esterno degli output, spesso materiali. Oggi la materia prima da processare sono i dati, fondamentali per chi vuole sfruttare tecnologie come i big data, il machine learning, l’intelligenza artificiale… L’evoluzione è questa. I rischi, però, sono due: da una parte le piccole aziende potrebbero ritrovarsi ad avere una mole di dati troppo piccola, insufficiente per le tecnologie che abbiamo citato. Potrebbero essere così costrette ad affidarsi a qualcun altro, a un player più grande. Dall’altra parte, bisogna evitare che i manager si affidino ciecamente ai dati processati dalle intelligenze artificiali. Perché anche quei dati vanno saputi interpretare, e vanno letti in modo critico. Un vero manager non potrà mai fare a meno delle sue capacità di visione strategica», conclude Cennamo.