Dal lineare al circolare: quando i rifiuti diventano una risorsa

Che cos’è la circular economy e in che modo questa può entrare nella nostra quotidianità? Lo abbiamo chiesto a Simone Franzò, Direttore dell’International Master in Environmental Sustainability & Circular Economy al MIP.

Quando si parla di economia circolare, a cosa ci si riferisce?

L’economia circolare è un modello economico “emergente” che si contrappone al tradizionale modello “lineare” (sintetizzabile con i termini take – make – dispose) e che ha l’obiettivo di massimizzare l’utilizzo efficiente delle risorse. Riutilizzo e manutenzione dei prodotti, estensione del loro ciclo di vita, recupero e riciclo dei materiali sono solo alcune pratiche su cui si basa l’economia circolare. Un modello che porta benefici non solo per l’ambiente, ma che è in grado di generare nuove opportunità di business. Ecco perché studiamo le implicazioni manageriali che questo modello può avere nelle imprese che intendono applicarlo.

Effettivamente McKinsey prevede che, nella sola Europa, il passaggio a un’economia di tipo circolare potrebbe generare 1,8 trilioni di profitti entro il 2030. Le aziende sono pronte a cogliere queste opportunità?

Prima di tutto vorrei fare una premessa: il tema dell’economia circolare si inserisce in un contesto più ampio, che è quello della sostenibilità. Questa si articola secondo tre diverse prospettive, ossia ambientale, economica e sociale, che devono essere considerate congiuntamente per abilitare il cosiddetto sviluppo sostenibile.
Detto questo, dal mio punto di vista le imprese sono sempre più sensibili e consapevoli dell’impatto che le loro attività hanno non solo per esse stesse ma anche per il “contesto” all’interno del quale le imprese operano. Tuttavia, tradurre questa crescente consapevolezza in iniziative concrete volte a perseguire gli obiettivi della sostenibilità e dell’economia circolare rappresenta una sfida molto importante sotto diversi aspetti, in primis a livello culturale. Si tratta infatti di passare da un orientamento “puramente economico”, atto a massimizzare il valore che l’impresa crea per gli azionisti, ad una prospettiva più ampia, che prevede creazione di valore per tutti i portatori d’interesse (cosiddetti stakeholders), oltre che per gli azionisti naturalmente.

Un salto di qualità dal punto di vista culturale tuttavia non basta, occorre un cambiamento anche da quello manageriale. Infatti, adottare i principi dell’economia circolare richiede all’impresa dei cambiamenti significativi a livello di strategia – ossia passare da modelli di business tradizionali, legati a un’economia lineare, a nuovi modelli circolari. Questo ovviamente ha delle ricadute importanti anche dal punto di vista operativo. Non basta più ragionare in termini di azienda, ma bisogna passare a un’ottica più ampia, quella della filiera, coinvolgendo ad esempio fornitori e clienti. Una sfida non indifferente dal punto di vista manageriale.

Una prospettiva interessante, ma come si traduce poi in termini di possibilità di carriera – sia presenti che future? Perché un giovane che entra nel mercato del lavoro dovrebbe scegliere questo settore?

Le carriere che si possono intraprendere in questo ambito sono molteplici. Le potenziali ricadute associate alla diffusione dell’economia circolare – come mostrato dai numeri citati in precedenza – sono enormi. Tuttavia, è opportuno riflettere sulle nuove competenze richieste alle aziende, in primis dal punto di vista manageriale, al fine di abilitare la transizione verso l’economia circolare, il che apre delle importanti finestre di opportunità per giovani (e non solo) alla ricerca di un impiego. Si pensi ad esempio alla necessità per le imprese di ri-progettare i prodotti ed i servizi che offre, oltre che il modello di business attraverso cui essi sono offerti. Infatti, progettare nuovi prodotti, servizi o modelli di business basati sui principi dell’economia circolare richiede delle competenze specifiche, che sono diverse da quelle su cui tradizionalmente si è fatto leva per progettare servizi e modelli di business di economia lineare.

In aggiunta all’impatto sui processi d’innovazione, tutte le altre funzioni aziendali devono essere permeate dai principi dell’economia circolare: si pensi ad esempio alla logistica – che assume un ruolo in taluni casi cruciale nell’implementazione di modelli di business circolari – agli acquisti fino al marketing, per rendere edotti i clienti delle caratteristiche di “circolarità” dei prodotti e servizi offerti da un’azienda.

Il MIP offre ben cinque master diversi dedicati al tema della sostenibilità e uno è proprio dedicato alla circular economy. Come mai?

Come dicevo, il tema della sostenibilità è abbastanza ampio e abbraccia tre prospettive: ambientale, economica e sociale. Il tema dell’economia circolare ha sicuramente un ruolo centrale nell’ampia partita della sostenibilità, nella misura in cui implementare modelli di business di economia circolare può consentire di raggiungere obiettivi di sostenibilità.
Mi permetto di dire che, in questo contesto, la nostra Business School è un luogo ideale per studiare e analizzare questi fenomeni. In prima battuta per la coerenza tra questo tema ed il purpose della nostra Scuola, che vuole avere un impatto positivo sulla società ispirando e collaborando con gli innovatori di oggi e di domani. Quello che possiamo offrire ai nostri studenti è inoltre una particolare attenzione verso lo studio e l’analisi delle tematiche strategiche connesse alla gestione di un’impresa. Un elemento importante per chi vuole accompagnare le imprese verso dei modelli di business circolari, dato che occorre affrontare il cambiamento anche da un punto di vista strategico-manageriale. Per di più con un approccio al problem solving “data driven”, in linea con l’imprinting ingegneristico che caratterizza la nostra Business school e più in generale il Politecnico di Milano.
Un ultimo elemento che distingue la nostra offerta formativa è la forte collaborazione con le imprese. Per l’International Master in Environmental Sustainability & Circular Economy abbiamo già coinvolto circa 15 aziende come sponsor. Ciò abilita diverse opportunità per i nostri allievi, da testimonianze aziendali durante il percorso formativo – che danno un taglio esperienziale alle sessioni teoriche – alle possibilità di internship o di svolgimento del project work di fine master presso le aziende, al fine di  poter applicare sul campo quanto appreso durante il master.

 

 

 

Due passi nella città del futuro

Sostenibile, connessa, condivisa. In una parola, smart. È questo il futuro a cui guarda una città come Milano, inserita ormai a pieno titolo nel gruppo delle metropoli europee più all’avanguardia. Ed è questo l’orizzonte a cui nei prossimi anni dovranno guardare tutti i centri urbani, grandi o piccoli che siano. Si fa sempre più concreta quindi l’idea di smart city, una città che grazie alle tecnologie e all’innovazione diventa più efficiente, più ecologica e anche più democratica.

«Quando penso a una smart city, penso a un insieme di comunità che coesistono e partecipano alla vita della città grazie a diverse forme di sharing», spiega Davide Chiaroni, direttore Corporate Relations al MIP Politecnico di Milano. «Assisteremo a un cambio di paradigma che investirà tutti i servizi e, di conseguenza, cambierà un po’ anche la nostra mentalità: ci abitueremo a una maggiore condivisione e partecipazione. Le smart city, in fondo, saranno le città dei Millennial e dei nativi digitali».

Queste città saranno anche in grado di offrire un’adeguata risposta architettonica ai mutati contesti lavorativi. «Molti edifici sono stati progettati sulla base di esigenze che oggi sono cambiate e cambieranno ancora di più in futuro: la crescente digitalizzazione dei servizi, che darà un impulso ancora maggiore allo smart working, renderà ad esempio obsoleti molti uffici di grandi dimensioni. La smart city, invece, si basa anche sull’idea dei cosiddetti building “circolari”, edifici progettati tenendo conto di una destinazione d’uso che può variare nel giro di poco tempo. In altri termini, sarà una città flessibile a misura di lavoro flessibile», racconta Chiaroni.

La flessibilità riguarda anche il tema della mobilità, che deve affrontare la duplice sfida della sostenibilità ambientale e della capillarità del servizio: «Milano sta puntando molto sull’allestimento di una flotta elettrica per il trasporto pubblico. E la guida autonoma rivoluzionerà la concezione che abbiamo dell’automobile: non più bene privato, ma vero e proprio servizio pubblico e condiviso», spiega Chiaroni. Da questo punto di vista, alcuni esperimenti si riveleranno molto utili per raccogliere dati e pianificare meglio i flussi di traffico: «I varchi di Area B (la zona a traffico limitato di Milano chiusa ai veicoli più inquinanti, ndr) saranno preziosissimi per misurare il volume di traffico e capire in quali aree intervenire e come farlo».

La rivoluzione delle smart city, insomma, è alle porte. Mancano però ancora dei tasselli, a partire dall’energia: «Le città non sono ancora in grado di affidarsi unicamente alle energie pulite e rinnovabili. Ci sono limiti di storage che vanno superati, ma la strada è quella giusta», spiega Chiaroni. Non va poi nascosto che lo sviluppo della smart city porta con sé anche delle criticità. «Numerosi studi sono d’accordo nell’affermare che la smart city, nel suo complesso, ha delle ricadute economiche positive. Ma non tutti gli attori coinvolti in questo processo vincono». Ed è qui che entra in gioco la funzione della politica: «La smart city cambierà le forme del lavoro. È inevitabile pensare che le fasce più anziane della popolazione ne saranno colpite. La politica avrà il ruolo di compensare questi gap, a fronte di un saldo che è comunque positivo».

La School of Management del Politecnico di Milano mira a formare le professionalità più adeguate per la gestione di questi processi: «Penso a una vera e propria cabina di regia che si occupi del design dei servizi, che sia in grado di realizzare una road map, che non sia composta da tecnici, ma da dirigenti che sappiano quali sono le tecnologie da sfruttare. La nostra scuola offre ai futuri manager un duplice know-how: gestionale e tecnologico. Siamo convinti che uno non possa prescindere dall’altro. Progettare non basta: bisogna pensare anche alle ricadute pratiche», conclude Chiaroni.