Made in Polimi – Storie di Ingegneria Gestionale

 

È appena stato inaugurato “Made in Polimi – Storie di Ingegneria Gestionale”, il percorso espositivo che racconta la nascita e l’evoluzione dell’ingegneria gestionale al Politecnico di Milano, in una prospettiva temporale di oltre 50 anni.

Questa avventura, che ha avuto il reale momento di decollo con l’avvio del corso di laurea in “Ingegneria delle Tecnologie industriali ad indirizzo economico organizzativo” di cui quest’anno ricorre il 40° anniversario, è stata resa possibile grazie a tanti professori che hanno fortemente creduto nel progetto e costruito con entusiasmo percorsi formativi e di ricerca profondamente innovativi per i tempi in cui sono stati concepiti. La mostra ne ripercorre le fasi più significative in cinque pannelli multimediali: corso di laurea, dipartimento, osservatori, graduate school. Un luogo sia fisico che digitale dove ritrovare quotidianamente la piena consapevolezza delle nostre “radici”, che sono alla base dell’immaginazione e della costruzione del nostro futuro.

La cerimonia di inaugurazione è stata aperta da Alessandro Perego, direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale e promotore del progetto, insieme al rettore Ferruccio Resta e la neo-eletta rettrice Donatella Sciuto. A seguire Federico Bucci, prorettore e delegato alle Politiche Culturali, ha illustrato il progetto nel suo complesso. Poi i curatori Umberto Bertelè, Armando Brandolese, Remigio Ruggeri, Emilio Bartezzaghi sono entrati nel dettaglio dell’articolazione dei contenuti, gli obiettivi e il metodo seguito nella costruzione della narrazione, evocando qualche episodio iconico degli esordi. Ha concluso, prima del taglio del nastro, la progettista dell’allestimento Lola Ottolini.

La mostra è aperta al pubblico dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 18, in Via Lambruschini 4/b – Edificio BL26/b.

Per organizzare una visita guidata è possibile scrivere a comunicazione.dig@polimi.it

Ti aspettiamo!

 

Milano, 22 novembre 2022
Credit foto: Lab Immagine, Dipartimento di Design, Politecnico di Milano
labimmagine-design@polimi.it

 

Train the trainers

Le tecnologie digitali stanno cambiando profondamente le dinamiche dell’insegnamento: è necessaria una riprogettazione dell’intera esperienza formativa che richiede ai formatori lo sviluppo di nuove competenze non solo digitali ma anche pedagogiche.

Tommaso Buganza, Professore di Leadership & Innovation, School of Management Politecnico di Milano

 

La pandemia ci ha resto tutti cintura nera di Teams, Zoom, Webex, ecc.
Ci ha catapultati in un mondo digitale e ci ha obbligati a sviluppare competenze digitali in tempi brevi e senza possibilità di sottrarci. In alcuni casi questo ha funzionato molto bene (ci dicono gli studenti) in altri casi meno.

Ora non siamo sicuri che la pandemia sia solo un ricordo del passato, ma possiamo essere almeno sicuri che non torneremo mai indietro per molti aspetti delle nostre vite, e la formazione è sicuramente uno di questi. Queste competenze digitali ci sono costate fatica e ora le terremo con noi.

Forse è arrivato un momento in cui abbiamo la maturità per cominciare a chiederci come è cambiato (o deve ancora cambiare?) il nostro set di competenze come formatori.

Possiamo partire da una considerazione semplice sul concetto di digitale: l’equazione

digitale = online a distanza

si è dimostrata falsa.

Infatti, dobbiamo distinguere la natura e le funzionalità dei molti strumenti che abbiamo imparato ad usare. Da un lato, come detto, Zoom, Teams, Webex, ecc, sono strumenti che ci permettono di interagire a distanza. Ma la pandemia ha portato anche strumenti per l’interazione che abilitano attività innovative e che possono essere fruiti tranquillamente anche in una situazione di aula fisica.

Pensiamo a software di instant polling come Socrative, Kahoot! o Poll Everywhere. Oggi possiamo allargare l’interazione anche a centinaia di studenti in pochi secondi. Avere il polso delle emozioni puntuali con tag cloud o di quanto abbiano capito un concetto con risposte multiple in tempo reale.

Ma possiamo anche fare di più; possiamo innescare dinamiche di interazione interne all’aula. Per esempio chiedendo di scrivere pareri e poi di votare quelli scritti da altri in una sorta di semplice ma rapido ed interessante brainstorming.

Poi esistono altri strumenti, come MIRO, Mural o Jamboard, che invece permettono di creare uno spazio condiviso per permettere a team di studenti di interagire in modo più profondo, agendo un artefatto virtuale in modo coordinato e contemporaneo, mantenendo traccia di ciò che è stato fatto anche nelle lezioni passate, se necessario, e guidandoli con template e passi di processo che una volta avrebbero richiesto carta, stampe, gestione logistica, perdita di informazioni, ecc.

Dobbiamo riconoscere però che tutti questi strumenti, e la nostra capacità di usarli, si incrociano con un cambio nel modo in cui la società interagisce con il concetto di apprendimento. Grosse piattaforme digitali, come YouTube o Instagram, hanno rivoluzionato il modo di interagire con la conoscenza. Lo hanno reso più rapido, frazionato, interattivo e a richiesta. Il micro-learning, lo spacchettamento della parte pratica in piccoli pezzi più facilmente digeribili, la multimodalità della comunicazione (slide, parlato, filmati etc.) sono esperienza di molti noi, sia come utenti che come formatori. Soprattutto la dinamicità dell’azione formativa si è modificata. Non possiamo più pensare di avere lunghi periodi di trasferimento frontale e poi lunghi periodi di applicazione. Il paradigma dello studio di caso da 20 pagine da leggere per poi discuterne non è tramontato (ancora) ma inizia a sembrare in alcuni casi lento e un po’ datato.

In questo scenario non è rilevante se la formazione avviene in presenza o online tramite una piattaforma di comunicazione, quello che dobbiamo fare è cambiare il flusso logico esperienziale delle nostre lezioni.

Ma quali sono le competenze che dobbiamo sviluppare perché ciò accada?

In che modo, per cambiare quello che facciamo in aula, dobbiamo cambiare ciò che facciamo prima di andare in aula?

Io credo che ci siano 3 cose fondamentali che dobbiamo apprendere sempre meglio.

La prima è concepire (e quindi progettare) una lezione come un servizio da erogare. Dobbiamo progettare non solo i contenuti (che sono e rimangono il punto centrale ovviamente) ma anche come saranno fruiti. Dove vogliamo mettere una interazione, dove vogliamo mettere un controllo, dove vogliamo mettere una attività di gruppo per rinforzare un concetto. Tutto questo richiede una progettazione, e non può essere gestito in modo estemporaneo una volta in aula. Progettare un lavoro di gruppo in 4 passi richiede di progettare una board di MIRO specifica, fare un brainstorming, richiede di preparare la slide interattiva, ecc. In moltissimi casi scopriremo che la risorsa scarsa sarà il tempo e dovremo scegliere cosa e come farlo per massimizzare l’efficacia formativa. Il contenuto è condizione necessaria ma non più sufficiente, dobbiamo immaginarci come dei progettisti di processi di formazione.

Ovviamente esiste un dark side di questo approccio ed è quello di mettere l’enfasi sul così detto infotainment e di perdere di vista la centralità del contenuto. L’esperienza formativa significativa ed appagante è un mezzo e non il fine. Dobbiamo però accettare che oggi non dedicare la giusta attenzione alla progettazione della fruizione rischia di ridurre drasticamente l’efficacia formativa.

La seconda cosa che dobbiamo imparare a fare sempre più e meglio è esplorare lo spazio digitale. Tutti gli strumenti che abbiamo nominato prima aggiungono continuamente funzionalità e dettagli. Ognuna di esse abilita nuove interazioni o attività. Non potremo mai utilizzarle se non le conosciamo, dobbiamo essere curiosi per avere nuove idee. Per esempio, quado Miro ha introdotto la possibilità di nascondere alcuni contenuti e mostrarli solo al momento opportuno sono nate idee di come strutturare processi complessi con più passaggi; o quando Poll Everywhere ha inserito la possibilità di votare le idee di altri si sono aperti spazi per brainstorming collettivi che prima sarebbero stati impossibili (o avrebbero richiesto troppo tempo).

Anche in questo caso esiste un possibile dark side, quello di innamorarsi dello strumento e di aggiungere attività per utilizzarlo e non per il loro reale impatto sul processo formativo. Dobbiamo ricordarci anche in questo caso che lo strumento è un mezzo e non un fine.

Infine, personalmente, ho aggiunto una attività che una volta non facevo. Nel progettare nuove lezioni con interazioni digitali di varia natura e durata e mischiando strumenti differenti ho dovuto iniziare ad aggiungere una fase di test. Una volta creavo le slide, pesavo come raccontarle e andavo in aula. Oggi testo tutti gli strumenti e le interazioni come se fossi un partecipante. Infatti, la nostra capacità di gestire la situazione sul momento con creatività è ridotta in modo drastico dall’utilizzo di sistemi ricchi ma rigidi. Se manca un link, se la pagina non si aggiorna, se non riesco a entrare in Mural, la gestione del problema è lunga e il tempo perso senza che accada nulla riduce drasticamente l’esperienza formativa rischiando di vanificare tutto il lavoro svolto.

Progettare l’esperienza formativa, esplorare costantemente le potenzialità degli spazi digitali e inserire una fase di test sono nuove competenze ed attività che dobbiamo aggiungere a ciò che già facciamo. Non vi è una sostituzione o l’eliminazione di vecchie attività. Sono semplici e pure aggiunte. Il nostro lavoro, come tutti i lavori, sta diventando più complicato e richiede livelli di specializzazione crescente. Personalmente non credo che questo sia stato innescato dalla pandemia. Questo cambiamento era già in atto, la pandemia ha agito come catalizzatore e lo ha solo reso più veloce dandoci minor tempo di reazione.

European Microfinance Research Award a un team della School of Management

Il premio per uno studio sull’impatto sociale positivo delle fintech.

 

Un team del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano ha vinto l’European Microfinance Research Award 2022 con il paper “FinTech for Good: unveiling social value creation in the fintech sector”. Il premio è stato assegnato dall’European Microfinance Network (EMN), organizzazione no-profit che promuove la microfinanza come strumento per combattere l’esclusione sociale e finanziaria in Europa attraverso l’indipendenza lavorativa e la creazione di microimprese.

Lo studio elaborato da Federico Bartolomucci, dottorando, Veronica Chiodo, docente di Social Entrepreneurship, e Andrea Petrolati, Junior Project Manager presso Fintech District, indaga il mondo FinTech, con l’obiettivo di capire se e come l’innovazione tecnologica contribuisca a generare impatto nel settore finanziario e quale ruolo giochi la tecnologia nel processo di creazione di valore sociale. I risultati mostrano che le FinTech, operando in mercati poco serviti e combinando la componente di innovazione tecnologica con l’intenzionalità di generare un impatto sociale positivo, sono in grado di generare valore sociale sia nelle economie più sviluppate che in quelle emergenti. I risultati chiamano dunque gli attori finanziari tradizionali, le istituzioni e gli attori dell’economia sociale a ripensare il loro rapporto con esse.

La comunicazione ha bisogno di rotondità

Oggi quando parliamo di pubblicità, pensiamo subito a slogan accattivanti e messaggi che lasciano il segno. Ce ne sono alcuni che sono diventati iconici, basti pensare al “Just do it” della Nike o a “Un diamante è per sempre” di De Beers.Eppure, non è sempre stato così. In origine, le agenzie di comunicazione si limitavano alla vendita di spazi pubblicitari, mentre i claim – ideati dai venditori – avevano un messaggio univoco. Comprami.  È stato J. Walter Thompson, a inizio ‘900, il primo ad affidare la concezione dei claim pubblicitari a scrittori e sceneggiatori teatrali, trasformando così le pubblicità da semplice invito all’acquisto a contenuto di comunicazione di qualità.

Da allora, come è cambiato il ruolo della comunicazione? E quali sono le prospettive di carriera in questo settore? Lo abbiamo chiesto al Prof. Lucio Lamberti, Direttore International Master in Media and Communication Management del MIP.

 

A volte, si ha una percezione un po’ limitata di cosa significhi “fare comunicazione”. Come mai? E qual è il ruolo che invece ricopre oggi?

Fare il capo della comunicazione è un po’ come fare l’allenatore della Nazionale di calcio: tutti hanno la propria opinione in merito. È molto percepibile che cos’è la comunicazione e forse proprio per questo viene vista come qualcosa di banale. Invece non lo è affatto.

Basti pensare a quanti ruoli diversi ci sono in questo settore. C’è chi acquista spazi pubblicitari, chi progetta i messaggi di comunicazione, chi fa pubbliche relazioni, chi si occupa dei social network, chi fa Search Engine Marketing…
Tra l’altro, la comunicazione è un fenomeno economico tutt’altro che banale, da cui dipende anche una filiera occupazionale importante. Per darvi un’idea, l’investimento a livello globale in pubblicità si aggira intorno ai 590 miliardi di dollari all’anno, di cui il 25% è dedicato al digitale.

Investimenti che, per raggiungere gli obiettivi di comunicazione prefissati, devono essere allocati su diversi canali. Per farlo, non solo è importante conoscere perfettamente come i singoli canali possono contribuire al raggiungimento del risultato,ma anche saperli orchestrare in modo da veicolare un’immagine coerente e di valore. Ma non solo, occorre anche valutare quale fetta del budget destinare a ogni canale.
Dopotutto, non è così banale come può apparire a prima vista. Anzi, è richiesta una professionalità avanzata. Ed è da questa necessità che è nato l’International Master in Media and Communication Management.

 

Da quelle prime agenzie di comunicazione dedite solamente all’acquisto di spazi pubblicitari, il settore ne ha fatta di strada. In che modo è cambiato l’approccio delle aziende e delle agenzie?  

Il digitale ha cambiato il mondo della comunicazione, rendendola accessibile non solo alle grandi realtà ma anche quelle più piccole, grazie a meccanismi come il cost per click.

L’avvento dei canali digitali ha messo in evidenza anche il tema dell’ottimizzazione delle spese di comunicazione. Grazie a modelli statistici, è possibile infatti modificare le percentuali di budget allocato ai vari canali in modo da ottimizzare l’output in termini di vendite, brand awareness…

Non è un’operazione semplice, tutt’altro. E infatti, tradizionalmente, le aziende si sono sempre appoggiate alle agenzie per farlo.
Agenzie che, dopo aver subito una grande frammentazione negli anni a causa di una eccessiva specializzazione, oggi stanno andando nella direzione contraria. Abbiamo assistito a un consolidamento che ha portato alla formazione delle big 4 – WPP, che tra l’altro è partner del Master, Omnicon, Publicis e Interpublic – a cui si è aggiunta Dentsu.

Le agenzie sono importanti per le aziende anche perché hanno una visione del mercato tale da identificare i nuovi trend di comunicazione e conoscere al meglio le piattaforme, che sono in continua evoluzione.
Questo è sempre più importante perché, con l’esplosione dei canali digitali, la comunicazione si è trasformata in conversazione. Oggi le aziende sono chiamate ad ascoltare, oltre che a comunicare. Il che rappresenta un’opportunità per conoscere meglio il proprio target e identificare i toni, i registri e i contenuti a cui è sensibile.

Sapevate che, secondo le statistiche, siamo espositi a più di 800 messaggi di marketing al giorno? Di questi, quali ricorderemo? Probabilmente quelli che per noi sono rilevanti. E solo ascoltando il consumatore, un’azienda può capire cosa è rilevante per il proprio pubblico.

 

Appare evidente che il mondo della comunicazione è molto vario e in continua evoluzione. A livello di opportunità professionali, quali sono i profili più ricercati oggi e quale consiglio vuole dare a chi desidera entrare in questo settore?

Il mio consiglio? Di non porsi come obiettivo quello di diventare social media manager. Non perché non sia una professione valida o interessante, ma perché in questo momento un professionista della comunicazione dovrebbe avere una visione a 360 gradi. Non è tanto importante specializzarsi, ma piuttosto comprendere a fondo i processi. La specializzazione si costruisce nel corso del proprio percorso professionale. Chi ha le basi, ha anche la capacità di trasformarsi di pari passo al mondo della comunicazione.
L’obiettivo è dell’International Master in Media and Communication Management è proprio questo: creare un professionista rotondo, che conosca tutto sufficientemente bene, ma che la cosa che conosce meglio è il tutto.

Questo significa saper comprendere i vari canali, le logiche di comunicazione, conoscere i processi creativi così come gli aspetti analitici. Vogliamo che i nostri studenti possano comprendere sia il punto di vista del committente, ovvero l’azienda, che dell’agenzia, che è l’esecutore.
Infatti, il lavoro in agenzia è molto diverso da quello del responsabile comunicazione di un’azienda. Motivo per cui all’interno del Master abbiamo deciso di valorizzare questi due diversi approcci tramite due filoni dedicati.

C’è poi un altro tema che un professionista “rotondo” non può ignorare: è quello della sostenibilità.
A volte si pensa che comunicazione e sostenibilità siano termini antitetici, dimenticando che gli stessi strumenti possono essere usati in un’impresa così come in una ONG. Anzi, proprio il settore No Profit spesso è un esempio di grandi capacità a livello comunicativo e di importanti investimenti nel settore.
Diverso è invece quando si parla di comunicazione sostenibile nel senso di etica. Infatti, è importante che un professionista conosca i confini entro i quali muoversi per evitare di scadere nella comunicazione ingannevole o nel greenwashing. Ecco perché abbiamo inserito anche questo aspetto nel programma del Master.

Il mondo della comunicazione è un ecosistema frammentato, che vede la partecipazione di player diversi, con ruoli diversi e a volte sovrapposti. Solo chi ne ha una visione chiara è in grado non solo di gestire la complessità che ne deriva, ma anche di sfruttarla per creare valore.

È proprio questa la cifra caratterizzante di questo master: creare un professionista in grado di sapersi adattare al contesto.

Infatti, in un mondo che corre sempre più veloce, quello di cui hanno bisogno le aziende è di una persona che sia in grado di muoversi non solo in verticale, ma anche in orizzontale, in modo da poter essere speso su più fronti.

È tutta una questione di mindset. E qui arriva il valore aggiunto di fare un master in comunicazione in una scuola di ingegneri. Un certo tipo di impostazione nella risoluzione dei problemi ti permette di gestire tutto, dalla progettazione di un impianto ingegneristico automatizzato alla modellizzazione delle interazioni sociali.

 

 

FLEX EMBA: l’esperienza di una vita

Era il 2014 quando il MIP ha lanciato il primo Executive MBA in distance learning. Sei anni fa, era una scommessa. Oggi, si è rivelata una scelta lungimirante.

La pandemia ha modificato profondamente le nostre abitudini, accelerando la trasformazione digitale. Le nostre case sono diventati i nostri uffici, costringendoci a destreggiarci tra lavoro e famiglia. Abbiamo imparato a connetterci con le persone ovunque esse siano, a collaborare in modi nuovi. Anche la formazione è diventata digitale.

Tuttavia, far diventare digitale un corso pensato in presenza non è la stessa cosa che crearne uno direttamente pensato per l’online. Proprio come evidenzia Vito Conversano, studente i-Flex:

“L’i-Flex è nato come un programma già pensato per l’online e quindi l’impatto causato dalle restrizioni e dai cambiamenti resi necessari da questa situazione critica è stato minimo. Ci si avvale di strumenti, documenti e video che possono essere fruiti da remoto quando si preferisce…”

Come spiega il nostro studente, è proprio la flessibilità uno dei punti di forza degli MBA in distance learning. La possibilità di studiare in qualsiasi luogo ci si trovi e nei momenti più congeniali, permette agli studenti di scegliere il programma che preferiscono. Questo vuol dire studiare alla Business School del Politecnico di Milano, una delle università tecniche più rinomate al mondo, senza il problema di doversi spostare a migliaia di chilometri dalla propria famiglia.
Inoltre, questo percorso è stato studiato appositamente per adattarsi alle agende imprevedibili di quei professionisti che avrebbero difficoltà a conciliare un programma on campus con gli impegni lavorativi e familiari.

Tutto questo è reso possibile da una piattaforma tra le più avanzate, che offre ai nostri studenti la possibilità di partecipare alle lezioni e alle attività extracurricolari proprio come se si trovassero fisicamente al MIP. Grazie a social come Whatsapp, Facebook e Teams, gli studenti possono intrecciare rapporti, condividere esperienze e interessi e costruire un vero e proprio senso di appartenenza.
Infatti, anche se le lezioni sono digitali, le relazioni che si creano sono reali, proprio come spiega Elivar Golemi, Alumna i-Flex:

Di solito, c’è un certo pregiudizio verso la formazione online, perché la si considera un’attività sociale, oltre che intellettuale. [… ] Quando ho deciso di iscrivermi a un EMBA online, anche io avevo questo timore. Tuttavia, proprio ora che questa esperienza così importante e sfidante arriva a conclusione, non ho più dubbi sulla scelta che ho fatto quasi due anni fa. Le interazioni sociali non mancano durante lo studio online, solo hanno cambiato forma grazie all’uso della piattaforma. Proprio come sono cambiati i concetti di insegnamento e conoscenza. […] è ovvio che c’è stata un’evoluzione dall’insegnare all’imparare.

Come sottolinea la nostra Alumna, il formato Flex ha rivoluzionato non solo l’esperienza degli studenti, ma anche il modo di insegnare dei professori. La nostra faculty ha una formazione specifica su come gestire delle lezioni efficaci e coinvolgenti in distance learning, su come avviare il dibattito e gestire la discussione di casi pratici in piccoli gruppi virtuali.

Questo – e molto altro – rendono il nostro Flex EMBA e l’International Flex EMBA dei programmi di successo! Il Flex EMBA è stato il primo corso in Italia ad aver ricevuto la certificazione EFMD EOOCS per la qualità dei programmi online; inoltre, è l’unico programma italiano a essere stato incluso tra i 10 migliori al mondo dal Financial Times.

I ranking e i riconoscimenti sono importanti. Ma per noi, le opinioni dei nostri studenti lo sono ancora di più. Così, quando il nostro Alumnus Ammar Akhtar ha descritto l’International Flex EMBA come “l’esperienza di una vita”, ci ha reso più orgogliosi che mai.

Cambiare il business per cambiare il mondo. Una nuova partnership per il MIP: l’obiettivo è portare il mondo delle imprese ad un senso più alto delle proprie finalità

Il MIP, la Graduate School of Business del Politecnico di Milano, ha avviato con la società di consulenza indipendente The Mind at Work una partnership innovativa che punta a rivedere quella che è generalmente considerata l’essenza stessa di un’impresa.

Si tratta di una collaborazione che valorizza due eccellenze in campi distinti e che introduce un nuovo modo di creare valore per l’impresa, perché integra nella strategia del business la prospettiva dell’esperienza umana.

Questa partnership ha avuto il suo avvio con il riallineamento del purpose, dei valori e della cultura del MIP, che a sua volta imprimerà un cambiamento profondo al proprio orientamento strategico e al suo approccio alla formazione.

Di seguito parleremo di come l’abilità da parte di The Mind at Work di integrare il purpose all’interno della definizione e messa in atto della strategia, insieme alla lunga tradizione di innovazione del MIP e al suo rigoroso approccio metodologico, possano creare un nuovo tipo di organizzazione. Un’organizzazione dalle prestazioni elevate, e al tempo stesso fondata su una definizione alta della propria finalità, del proprio significato e di ciò che costituisce stakeholder value.

 

Il legame tra un futuro migliore e le business school – La sfida del MIP:

The business of business is business”. Il paradigma che ha dominato la teoria e la pratica del management negli ultimi 50 anni, è ora messo in discussione sotto molti punti di vista. L’impatto di questo modello tradizionale viene sempre più spesso percepito come causa di disuguaglianza economica, di degrado ambientale e di esclusione sociale. Esiste oggi una nuova generazione di leader emergenti, determinati a dare al business uno scopo che vada oltre la visione ristretta del “profitto sopra ogni cosa”.

Le organizzazioni si trovano di fronte a una scelta cruciale: farsi guidare dal solo profitto o riconsiderare da cima a fondo il ruolo che hanno nella società. Sono chiamate a rendersi conto che il profitto è un mezzo per scopi più elevati. In una parola, devono mirare a una finalità che abbia un impatto positivo su tutto il sistema di cui sono parte, e non solo sul bilancio.

In quanto parte di questa trasformazione, le stesse business school devono adattare i loro obiettivi. Non si devono limitare a formare le persone affinché abbiano carriere di successo, ma spingerle a perseguire finalità più alte, più ampie e collettive, superando la falsa contrapposizione tra purpose e profitto.

Scegliendo una partnership startegica con The Mind at Work, che vanta una grande esperienza nella conoscenza e applicazione del purpose alla leadership, alla cultura e alla strategia aziendali, il MIP ha deciso di impegnarsi in questa sfida svolgendo un ruolo proattivo e innovativo.

Federico Frattini, Dean del MIP, spiega: «Vogliamo ispirare e stimolare i nostri studenti e le organizzazioni con cui lavoriamo a contribuire attivamente alla costruzione di un futuro migliore per tutti, ripensando in maniera profonda il ruolo che deve avere un leader in questa trasformazione. Nel tentativo di sviluppare queste competenze, ossia la capacità di connettere la dimensione manageriale più esterna con i valori e le passioni che ci motivano, abbiamo scelto di farci affiancare da The Mind at Work, una squadra di professionisti entusiasti che da decenni aiuta le organizzazioni a raggiungere risultati straordinari grazie al potere che deriva dall’agire guidati da un purpose scelto con consapevolezza».

 

L’essere umano al centro

Le business school sono il luogo in cui si formano i corporate leader di domani e vantano una posizione unica per agire da catalizzatori di questo cambiamento radicale. Il lavoro richiesto per rispondere alla domanda fondamentale: “Sì, ma come?” è però solo all’inizio.

Il direttore e co-fondatore di The Mind at Work, Darren Rudkin, è entusiasta di lavorare insieme a una business school innovativa e internazionale come il MIP.

«Da anni desideravo lavorare con una business school. Ho capito da subito che il cambiamento voluto da Federico non era superficiale; vuole davvero che il MIP metta al centro l’essere umano, a cominciare dalla stessa business school».

«Condividiamo l’obiettivo di ispirare una trasformazione profonda del paradigma dominante, che la maggior parte delle organizzazioni ha seguito per 50 anni».

Darren ha proseguito sottolineando l’importanza di evitare alcune trappole che hanno cominciato a emergere nel momento in cui “purpose” è diventato un termine sulla bocca di tutti.

«C’è il rischio concreto che “purpose” diventi una parola nuova per un’idea vecchia, ad esempio il banale riconfezionamento del concetto di “mission”. Ma il purpose non è questo; è una forza umana essenziale, che si manifesta nella nostra capacità di infondere significato ed energia in ciò per cui ci impegniamo».

«Non è un sinonimo di “sostenibilità” o di “visione”, e allo stesso modo è sbagliato affermare che purpose si contrapponga a profitto, perché non sono concetti alternativi. Laddove termini come “sostenibilità” o “responsabilità sociale d’impresa” si concentrano soprattutto sul “cosa” e sul “come”, il purpose sottolinea il “perché”, il senso profondo, e fornisce l’energia capace di trasformare il “business as usual” in qualcosa il cui significato ispira e connette le persone».

«Il purpose rappresenta il momento presente, una forza viva e utile a guidare i leader nell’affrontare le proprie responsabilità, nel fare scelte spesso non facili e nell’agire in modo sempre consapevole. Per questo il leader guidato dal purpose riesce ad essere pienamente cosciente, pieno di energia e concentrato su qualcosa che va molto al di là del compito specifico da portare a termine».

«Sono entusiasta di poter avvicinare il MIP e la sua vivace comunità di studenti ad una conoscenza approfondita del purpose e alla sua applicazione».

 

Se c’è un purpose, i risultati seguono

A mettere in contatto il MIP e The Mind at Work è stato l’ex AD di Moleskine, Arrigo Berni, oggi adjunct professor presso la business school e partner di The Mind at Work Italy: «La mia esperienza è che, all’inizio, trovare l’equilibrio tra la pressione di dover raggiungere determinati risultati di carattere finanziario e il restare fedeli a un purpose più alto, sembra una missione impossibile».

«Ma alla fine ho capito che questa dicotomia è, in realtà, falsa: se si riesce a costruire un’azienda di persone che condividono un purpose comune, i risultati sono una diretta conseguenza. Non c’è una contraddizione tra questi due elementi.

«Questo non significa dover abbandonare gli strumenti tradizionali di analisi, ma adoperarli per sviluppare e mettere in atto il purpose. E The Mind at Work sa come fare»

Il purpose, dunque, alla base di tutto. Ma deve essere autentico.

Spiega Darren: «Il purpose è un’opportunità per non continuare a fare le stesse cose di prima. Le organizzazioni sono come gli esseri umani. Dopo un po’, tendono a perdere quella consapevolezza che magari avevano all’inizio».

«Lavorare seguendo un purpose, invece, richiede una consapevolezza continua. Ma è molto facile ricadere nelle vecchie abitudini. Inoltre, trattandosi di un cambio di paradigma che ha conseguenze anche sulla struttura e sul modus operandi aziendali, non sempre tutti gli attori in campo sono pronti a recepire questi cambiamenti».

«Ma la difficoltà più grande consiste nel comprendere a fondo che purpose non è solo una parola. Non basta pronunciarla, per mettere in atto il cambiamento: bisogna comprenderne a fondo il significato».

 

Una didattica guidata dal purpose

Il MIP, che ha già ottenuto la certificazione B Corp, assegnata a quelle aziende e organizzazioni che hanno “l’obiettivo di diffondere un paradigma di business più evoluto”, vuole continuare su questa strada.

«La nostra aspirazione», conclude Federico, «è formare e ispirare leader e decision maker più consapevoli, autenticamente coinvolti nel costruire una società più responsabile».

«Lavoreremo innanzitutto sulla nostra cultura aziendale, per far sì che il cambiamento sia autentico. E poi ripenseremo il cuore delle business school, ossia gli MBA e gli EMBA, per adottare formati didattici orientati dal purpose».

 

Per maggiori informazioni sul MIP contattaci a info@mip.polimi.it. Per maggiori informazioni o per contattare The Mind at Work visita www.themindatwork.co.uk/contact-us/ o invia un’email a arrigo.berni@themindatwork.it

 

Nuove connessioni nell’era post-Covid: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #3 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

Il titolo di questo numero è New connections in the post-Covid era. Discutiamo del cambiamento di approccio alle collaborazioni, alle partnership, alle reti internazionali e agli eventi, in un mondo che sta cercando di far fronte allo shock economico globale e all’impossibilità di viaggiare.

Ne parliamo con Giuliano Noci, Vice Rettore del Campus Cinese del Politecnico di Milano, che ci racconta come la nostra Università ha sviluppato il primo campus fisico al di fuori del nostro Paese, a Xi’An, in Cina, e come questa specifica situazione storica impone nuove forme di interconnessione in tutto il mondo.

Ci occupiamo poi degli effetti sulle grandi reti industriali, sulle esposizioni mondiali e sulle catene di approvvigionamento: il presente e il futuro del World Manufacturing Forum – con Marco Taisch, Presidente Scientifico della World Manufacturing Foundation; i possibili impatti di Expo Dubai 2020 – con Lucio Lamberti e Lucia Tajoli; la sfida della tracciabilità sulle catene di approvvigionamento globali – con Veronica Leon Bravo.

Infine, raccontiamo storie di progetti di formazione e ricerca, che attraversando con successo le frontiere, si occupano di creazione capacity building e gestione dell’innovazione.

Per leggere SOMe #3 clicca qui.

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I numeri precedenti:

•      # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”

•       Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses

•       #2 “Being entrepreneurial in a high-tech world”

 

 

Quando finanza fa rima con innovazione. Welfin si presenta

Un’idea, un project work, una startup: la storia di Welfin passa dalle aule del MIP al mercato finanziario grazie alla sua forte impronta innovatrice. Sarà la prima piattaforma di prestiti P2P con credito garantito dall’azienda a essere lanciata sul mercato. I suoi fondatori raccontano il progetto.

«In Italia il mercato del credito al consumo è in continua espansione e i prestiti P2P (peer to peer, ndr) continuano ad avere un grande potenziale». Perché non partire da qui e ripensare il credito tra privati in una nuova ottica intra e inter-aziendale? Questa la riflessione da cui sono partiti Ideo Righi, Francesco Giordani, Alessandra Bellerio e Roberto Bertani, fondatori di Welfin, nonché alumni EMBA Pt 2018.
Welfin è una piattaforma che rivoluziona il credito tra dipendenti, permettendo a una o a più comunità aziendali di ottenere il massimo dalla condivisione delle proprie risorse. In altri termini, per dirla con le parole dei cinque fondatori, «Welfin mette in relazione lender (chi presta), borrower (chi prende in prestito) e azienda (che fa da garante) favorendo la creazione di condizioni vantaggiose per tutti gli attori in gioco». Vediamo di capirne di più.

Un modello di business che mette d’accordo tutte le parti

In un mercato del credito al consumo che presenta tassi di interesse mediamente elevati, le politiche di concessione del credito da parte delle aziende sono spesso caute e il costo del recupero crediti oneroso. «Welfin interviene creando un circolo virtuoso che premia i tre interlocutori in gioco, lender, borrower e azienda, attraverso un sistema win-win-win» spiega Francesco. «Win per chi presta, perché ha un rendimento garantito dall’azienda a tassi superiori di quelli di mercato; win per chi prende in prestito perché ottiene tassi vantaggiosi e win per l’azienda, che facendo da garante fidelizza i dipendenti, ne aumenta il senso di appartenenza e migliora la propria reputation», prosegue Alessandra. «Welfin offre all’azienda un nuovo strumento di welfare con cui ottimizzare la gestione del credito insoluto, creare un beneficio economico condiviso puntando sull’innovazione finanziaria – sottolinea Ideo -. Sono già molti gli imprenditori che, consapevoli dell’efficienza del modello di business di Welfin, desiderano implementare la piattaforma e partire quanto prima».

Genesi e sviluppo di Welfin. Dal project work alla scelta di “fare impresa”

Ma qual è stato il punto di partenza? «L’osservazione di una realtà imprenditoriale che soffriva dell’insolvenza, verso strutture di credito al consumo, dei suoi dipendenti ci ha permesso di riflettere e studiare un sistema che potesse aiutare tutte le parti coinvolte, dall’azienda ai dipendenti. Abbiamo quindi individuato un’esigenza e ideato una soluzione» spiega ancora Ideo. Per Alessandra, «i valori di riferimento che hanno ispirato Welfin sono stati l’etica, la trasparenza e l’utilità per i dipendenti». Un’idea diventata prima project work per l’EMBA Pt 2018 e poi – grazie alla fiducia e al successo ottenuto – una startup. «Quando ci siamo accorti del suo potenziale, abbiamo deciso di “fare impresa”» racconta Francesco. «Ci siamo scelti all’interno dell’aula del Master e abbiamo creato un team affiatato, trasversale, con alle spalle già un’esperienza di business e quindi una chiara percezione dei rischi. Una squadra che viaggia sulla stessa lunghezza d’onda quindi, sia in ottica di crescita personale che professionale», commenta Alessandra.

La finanza premia l’innovazione sostenibile

Welfin ha vinto il Premio “Fintech & Insurtech 2019”, istituito dall’omonimo Osservatorio del Politecnico di Milano, riservato ai progetti più innovativi in ambito finanziario. Quali sono state le sue carte vincenti? «Un modello di business inedito che riesce a innovare il settore finanziario in modo sostenibile e intelligente» raccontano gli ideatori. «Grazie al riconoscimento ottenuto inizieremo un periodo di incubazione attraverso il PoliHub, contestuale allo sviluppo di tutti gli ambiti necessari al go to market, da quello fiscale a quello legale, in modo da arrivare pronti al calcio d’inizio ufficiale».
L’azienda, inoltre, ha anche avviato un dialogo con Banca d’Italia. «Abbiamo effettuato una prima valutazione della compliance normativa del modello di business. Un’esperienza che ci ha offerto conferme e spunti di riflessione per arrivare al go to market ancora più pronti», raccontano i tre, che in conclusione illustrano il ruolo che ha avuto il MIP in questa esperienza e i suoi punti di forza: «Il network, la professionalità dei docenti e il grande supporto in tutte le fasi di sviluppo del progetto. Il Master ci ha garantito un’esperienza orientata all’imprenditorialità, fortemente pragmatica e interattiva ed è stato anche un incubatore di talento e open-mindedness di modelli applicativi di business e sviluppo di leadership. E il modello di business di Welfin, secondo noi, potrebbe essere ancora più efficace nel periodo di ripresa dalla pandemia di Covid-19, quando di fronte all’aumento delle criticità per l’accesso al credito al consumo, fungerà da supporto per i nuclei familiari e i singoli lavoratori in difficoltà».
Non resta che (ri)partire, quindi.

MBA Full Time 2020: la specializzazione in Luxury and Design Management

La Concentration dell’MBA del MIP si propone di far toccare con mano agli studenti il lusso made in Italy, con uno study tour organizzato in importanti distretti produttivi. L’obiettivo è formare professionalità in grado di confrontarsi con i maggiori trend in atto.

Capire le peculiarità del mercato del lusso made in Italy, per potervi lavorare innovando e conservando la tradizione di brand storici: è l’obiettivo della specializzazione in Luxury and design management, una delle quattro Concentrations che dal 2020 permetteranno agli iscritti dell’Mba full time del MIP Politecnico di Milano di approfondire un ambito a loro scelta. «Chi sceglierà il percorso Luxury potrà scoprire i segreti di aziende italiane, magari ancora in mano alla famiglia fondatrice, che però sono state capaci di diventare leader mondiali del settore», spiega il professor Alessandro Brun, professore al Politecnico di Milano, Direttore del master in Global Luxury Management (MGLuxM)

Il lusso tra strategia e operatività

Le specializzazioni sono dei percorsi che vanno a rispondere a esigenze specifiche delle aziende, che cercano sì figure formate nell’ambito del management, ma che richiedono anche competenze più approfondite. Il lusso è uno di questi ambiti. «Ma attenzione, non è solo fashion», precisa Brun. «Intendiamo, invece, tutto ciò che è definibile di alta gamma, in qualsiasi settore. Auto sportive, nautica, gioielli, design e arredo. E spesso sono soprattutto gli studenti stranieri a essere particolarmente interessati a comprendere i motivi profondi del successo globale del made in Italy». Le modalità didattiche della specializzazione in Luxury and design management conservano la stessa caratteristica chiave delle altre Concentrations: un’impostazione eminentemente pratica. «Le prime due settimane avranno un avvio più tradizionale, anche se già in questo momento verrà attivata la modalità bootcamp, con dei progetti assegnati agli iscritti da svolgere a stretto contatto con i manager delle aziende. Nella prima settimana toccheremo elementi strategici: cos’è il lusso, chi sono i principali player e come si compete in questo settore, come si svolge un’analisi di mercato, come si definisce il posizionamento, fino ad arrivare al go to market. Nella seconda settimana si affrontano temi molto più operativi: sostenibilità della supply chain, i diversi modelli di retail, la gestione delle scorte, l’ottimizzazione dei flussi a livelli di filiera».

In viaggio alla scoperta delle eccellenze made in Italy

Ma è soprattutto nella terza settimana che tutti questi elementi vengono visti davvero in azione. «Abbiamo approntato quello che è un vero e proprio Study tour», racconta Brun, «un’ultima settimana di bootcamp pensata e organizzata come un viaggio attraverso il tessuto produttivo italiano. Partiremo da Milano in pullman. La prima tappa sarà nel modenese, territorio con una grande tradizione nella produzione di auto di lusso; ma ci sarà modo di visitare anche un’acetaia, poiché anche l’aceto balsamico è un prodotto con caratteristiche luxury nel mondo del food. Ci sposteremo poi in Toscana, dove si trovano distretti altrettanto interessanti: penso alla pelletteria, alle scarpe. In questi anni, a proposito, stiamo lavorando a stretto contatto con Prada, Gucci, Ferragamo. Inoltre non potranno mancare un paio di experience esclusive legate al vino, tutte accompagnate da manager che ci parleranno di idee e modelli di business innovativi».

I trend delle professioni legate al lusso

L’obiettivo di questa specializzazione è concorrere alla creazione di professionalità che possano ricoprire non solo i ruoli più tradizionali del settore, ma anche quelli legati a trend in rapido sviluppo. «Pensiamo alla centralità del canale di vendita online in Cina. Ormai l’uso della Rete per l’acquisto di prodotti di lusso è sdoganato, ma bisogna essere in grado di gestire gli elementi tecnologici e di customer journey per garantire al cliente l’esperienza che sta cercando», spiega Brun. «Non meno rilevante è il tema della visibilità e della tracciabilità: include aspetti di comunicazione, sicurezza, lotta alla contraffazione e sostenibilità. Le aziende del lusso devono progettare catene distributive globali che siano una garanzia per gli acquisti. Un terzo tema riguarda poi la sfida dell’innovazione, da portare avanti mantenendo il legame con la tradizione: un bene di lusso deve essere al contempo perfettamente moderno e ricco di storia. Qui si vede la capacità di chi sa gestire innovazione e design. E una sola competenza non basta. Ce ne vogliono diverse, e bisogna saperle integrare», conclude Brun.

Gestione dei dati e delle risorse umane: le nuove frontiere del project management

Mauro Mancini, direttore del Percorso executive in Project Management FLEX, ci illustra i motivi per cui la gestione di progetto abbia assunto un ruolo sempre più rilevante nelle nostre aziende e quali siano le competenze richieste dal contesto in cui viviamo.

Saper analizzare moli crescenti di dati, valorizzare le risorse umane, familiarizzare con l’utilizzo di intelligenza artificiale. Sono solo alcune delle qualità che devono contraddistinguere un project manager, figura sempre più centrale per aziende e organizzazioni. «È un’evoluzione causata principalmente dalla digital transformation e da uno scenario globale il cui sviluppo è sempre più rapido e imprevedibile», spiega il professor Mauro Mancini, direttore del Percorso executive in Project Management FLEX presso il MIP Politecnico di Milano. «A livello internazionale è in atto un fenomeno che la comunità scientifica chiama projectification. In altri termini, anche le attività ordinarie e di processo devono essere sempre più gestite con gli strumenti tipici della gestione di progetto».

Competenze hard, soft, di contesto

Ad accomunare gli approcci del project management è l’idea di unicità: «Unicità del prodotto finale, del capitale umano disponibile, del contesto sociale, della contingenza temporale e del partenariato coinvolto nel progetto stesso», chiarisce Mancini. Ma per valorizzare questi elementi, il project manager deve disporre di un ampio ventaglio di competenze: «Innanzitutto di ordine tecnico, le cosiddette hard skill: mi riferisco alla conoscenza di metodi, tecniche ed approcci studiati per contesti a rapida evoluzione come Evms, Scrum, Real Option, Data visualization. Per quanto riguarda le soft skill, fondamentali la leadership e le capacità di delega, mentoring, training, team building e di team working». Ma c’è un terzo ordine di competenze da non sottovalutare, che Mancini definisce “di contesto”: «Un bravo project manager deve comprendere in tempo reale gli elementi principali di un contesto organizzativo, sociale e culturale, perché non solo gli elementi strutturali ma soprattutto quelli contingenti risultano determinanti per il successo di un’iniziativa. Su questi, se necessario, bisogna essere in grado di rimodulare la natura stessa del progetto, adattandolo con tempestività e lungimiranza secondo approcci che molti chiamano di agile business. L’equilibrio di questi tre set di competenze rendono un project manager pronto ad affrontare le sfide del futuro».

Dati e persone: elementi chiave

Se andiamo a esaminare l’evoluzione del project management negli ultimi anni, i fattori che ridefiniscono i confini della disciplina sono essenzialmente due: da una parte l’importanza della gestione delle informazioni, dall’altra delle risorse umane. «Viviamo in un’era in cui abbiamo a disposizione una mole crescente di dati. Il project manager deve essere in grado di assumere decisioni non solo sulla base delle informazioni disponibili, ma anche sulla chiara coscienza di quelle mancanti. Ad aiutarlo in questo processo di scrematura e schematizzazione dei dati oggi ha a disposizioni molti strumenti sviluppatisi grazie all’evoluzione dell’intelligenza artificiale, che permette la rapida implementazione di regole di autoapprendimento. Ma in un contesto dove intervengono normalmente piccoli o grandi imprevisti, il project manager dovrà sempre più far valere le proprie capacità personali e la propria esperienza», illustra Mancini. «La decisione finale sia difronte alla propria struttura che difronte al cliente (che a volte coincidono) spetta al project manager, e questo vale anche nella gestione del team. Tra i suoi obiettivi primari deve esserci la la valorizzazione dei collaboratori ed il loro pieno coinvolgimento, in grado di moltiplicare le capacità di azione del gruppo di lavoro. Suo rimane il compito di guidare questa partecipazione e orientarla proteggendola dalle pressioni degli stakeholder coinvolti nel progetto».

La didattica digitale espande il networking

Il Percorso executive in Project Management FLEX del MIP affronta questi e altri temi, puntando a formare una figura professionale completa e, soprattutto, aggiornata: «Il percorso ha un formato completamente digitale, che favorisce la partecipazione di manager e professionisti provenienti da un contesto geografico molto allargato. Questo fattore espande le possibilità di networking tra i partecipanti. La didattica», spiega Mancini, «seguirà due binari: sincrono e asincrono. La formazione asincrona permette di acquisire le competenze in autonomia, per poi affinarle e metterle a punto in modalità sincrona, vale a dire interagendo direttamente con i docenti. Il nostro obiettivo non è solo fornire strumenti utili fin da subito, ma anche condividere con i i partecipanti quelle skill necessarie per l’autoapprendimento e la formazione continua, cruciali per affrontare i cambiamenti che caratterizzeranno i decenni a venire».