Talents and the challenges for education: pubblicato il nuovo numero di SOMe Magazine

Il mondo della formazione sta evolvendo molto velocemente: cambiano le modalità di relazione tra docenti e studenti, le piattaforme per l’apprendimento, l’esperienza in aula e online, grazie anche alle innovazioni offerte dal digitale.

Di questo e di cosa possiamo aspettarci per il futuro parliamo nel nuovo numero di SOMe: dall’evoluzione della didattica nei corsi undergraduate e negli open programs, alla necessità di nuove competenze dei docenti, all’efficacia dell’insegnamento, le sfide del settore sono presentate da Marika Arena, Antonella Moretto, Tommaso Buganza, Mara Soncin e Tommaso Agasisti.

In “Stories” raccontiamo due progetti di ricerca volti rispettivamente al miglioramento delle condizioni di vita di soggetti non vedenti e al monitoraggio del benessere dei giovani durante lo sport, per terminare con una esperienza di networking internazionale tra giovani ricercatori europei.

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I numeri precedenti:

  • #8 “The challenge of pursuing impact in research”
  • #7 “From data science to data culture: the emergence of analytics-powered managers”
  • #6 “Innovation with a human touch”
  • #5 “Inclusion: shaping a better society for all”
  • #4 “Multidisciplinarity: a new discipline”
  • #3 “New connections in the post-covid era”
  • #2 “Being entrepreneurial in a high-tech world”
  • Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses”
  • # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”

Multidisciplinarietà: una nuova disciplina

 

Intervista a Vittorio Chiesa
Presidente MIP Graduate School of Business

 

Viviamo in un mondo caratterizzato da crescente contaminazione tra le discipline, in cui i profili professionali richiesti dalle imprese sono mutevoli: quale ruolo può avere una business school in questo contesto?

Il settore delle business school evolve di pari passo con le imprese e con il ruolo che queste assumono nella società in senso ampio. E’ da tempo che alle imprese viene richiesto di operare con “purpose”, ossia agire non solo per profitto ma per scopi più elevati, con la finalità di avere un impatto positivo su tutto il sistema di cui sono parte. Sia i mercati che i consumatori dimostrano una sensibilità crescente sul tema e per questo motivo per le imprese avere un rapporto con i propri stakeholder è diventato un elemento imprescindibile.

Allo stesso modo, le business school devono avere la medesima attenzione sia nei confronti degli allievi, sia nei confronti delle imprese. E’ con questo obiettivo in mente che quest’anno abbiamo ottenuto la certificazione Bcorp (Benefit Corporation) entrando nella community internazionale di società che si distinguono per l’impegno a coniugare profitto, ricerca di benessere per la società, inclusione, attenzione all’ambiente.

Il “purpose” deve diventare parte fondamentale nello sviluppo delle competenze delle persone, affinché si formino manager capaci di concepire l’impresa al servizio della società.
Si tratta di un salto culturale che le stesse imprese ci chiedono e che possiamo facilitare, insegnando ai nostri allievi come un’impresa possa e debba contribuire in modo positivo in un sistema e un territorio.
E’ questo il nostro ruolo: preparare professionisti a introdurre innovazioni fortemente orientate a “purpose” di natura non solo economica ma anche sociale.

La multidisciplinarietà è funzionale a questo obiettivo in quanto impone ampiezza di vedute, flessibilità, spirito critico, intuizione. Formare oggi non è solo specializzare in ambiti ristretti, è soprattutto contaminare con altre discipline per creare profili professionali più completi, capaci di analisi di livello sistemico e in grado di guidare le imprese definendo e ispirandosi ad un “purpose”.

La multidisciplinarietà quindi come strumento per mantenere una mentalità aperta ed elastica nei confronti del mondo. Come integrarla nella formazione?

Tradizionalmente l’approccio alla multidisciplinarietà è quello di fornire prospettive diverse all’interno di un percorso formativo, quindi offrire contributi diversi all’interno della formazione di base e specialistica. La sintesi tra multidisciplinarietà e competenze specialistiche è poi in genere lasciata al singolo individuo.

Ma è possibile applicare un approccio radicalmente diverso integrando in un percorso formativo la multidisciplinarietà, e facendola diventare parte integrante qualsiasi tema si insegni. La sfida oggi è proprio gestire la complessità di questo nuovo approccio, usando per esempio tecniche didattiche innovative che, modificando la logica di interazione tra docente e allievo, possano rendere più efficace questo tipo di formazione. Al momento non è di ampia e facile diffusione, ma sono certamente in corso diverse sperimentazioni.

Richiede una progettazione dei percorsi formativi specifica e quindi anche i docenti, o meglio gruppi di docenti, che operino in team vanno preparati in questa direzione. Dall’altro lato, la formazione multidisciplinare ha bisogno di maggiore interazione, quindi di essere erogata con piccoli gruppi e con forte ricorso a format didattici che coinvolgono gli allievi in modo attivo.

Credo che in futuro l’elemento distintivo tra le offerte formative sarà proprio questo: da un lato iniziative con contenuti specialistici fornite con modalità standardizzate e per grandi numeri, dall’altro iniziative con contenuti più trasversali e metodologie didattiche innovative, dedicate a gruppi più circoscritti.

In questo periodo si parla molto di life-long education come chiave per l’aggiornamento continuo delle competenze. E’ una dinamica che si interseca con quella della multidisciplinarietà?

L’apprendimento continuo vuol dire rimanere allineati con l’evoluzione del contesto e questo avviene solo raramente o in parte attraverso degli approfondimenti verticali. Più spesso equivale ad un allargamento del profilo professionale.

Anche per il life-long learning quindi vale quanto detto finora: deve avvenire su contenuti più ampi, ma anche in modi diversi dal passato, usando per esempio specifiche piattaforme in grado di trattare ampi spettri disciplinari.

“Purpose” e multidisciplinarietà: quali sono i piani del MIP per il futuro relativamente a questi aspetti?

Inserire in tutti i programmi formativi dei moduli sul “purpose”, sul ruolo dell’impresa e quello dei managers in qualità di leader e innovatori in questa direzione.

Sempre su questo tema, inaugurare dei “Purpose lab”, ovvero iniziative formative dedicate a studiare e analizzare in profondità come un’impresa possa costruire il proprio purpose, e supportare così i vertici delle imprese in questa evoluzione.

Infine innovare i formati di erogazione dei nostri servizi, affinché la scuola non sia solo un luogo di formazione, ma un luogo che favorisca la crescita di una persona a tutto tondo: dalla valutazione delle competenze, all’orientamento, allo sviluppo professionale.

Una nuova era per le partnership accademiche: l’esperienza del Politecnico di Milano in Cina

Intervista a Giuliano Noci
Professore di Strategy and Marketing e Prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano

La Joint School of Design and Innovation Centre di Xi’An, inaugurata nel 2019 in collaborazione con Xi’an Jiaotong University (XJTU), è la prima sede fisica del Politecnico di Milano al di fuori dei confini nazionali. Una scelta non convenzionale per un ateneo italiano, come siete arrivati a concretizzare questo progetto?

La nostra relazione con XJTU nasce 12 anni fa grazie ad uno studente cinese che aveva avuto modo di apprezzare la qualità dei nostri programmi di dottorato, in particolare del dottorato in ingegneria elettrica del professor Sergio Pignari. E’ stato lui che, lavorando con tenacia per tanti anni e con tanti viaggi, ha cominciato a costruire questo ponte tra noi e la Cina, fino a sviluppare questa partnership strategica.
In una prima fase ci siamo occupati di attivare diversi scambi e corsi di doppia laurea. L’ipotesi di avere una presenza fisica nel nuovo campus XJTU è nata successivamente e si è concretizzata con la costruzione di un edificio progettato da architetti del Politecnico di Milano (Remo Dorigati e Pierluigi Salvadeo con studio wok, Chiara Dorigati, Francesco Fuoco), che ci accingiamo a popolare prestissimo, grazie ai numerosi progetti che abbiamo in incubazione.

Che conseguenze ha provocato la pandemia su questo progetto e come vi state riorganizzando?

La pandemia non ha frenato i progetti, ha solo imposto una parziale revisione degli obiettivi che ci eravamo posti.
L’ipotesi era infatti di partire a settembre di quest’anno con un corso di laurea congiunto in architettura, con i nostri docenti presenti fisicamente in Cina. Non essendo possibile, per il momento, abbiamo trasferito le attività di formazione online, sfruttando le expertise che il Politecnico ha maturato in questi anni.
In secondo luogo abbiamo portato avanti un importante accordo che riguarda gli MBA tra il MIP, la nostra Graduate School of Business e la School of Manangement di XJTU, che è una delle più prestigiose del Paese.
Infine vorremmo creare nel nuovo campus una nuova Joint School accreditata dal Ministero dell’Educazione cinese.
Otterremmo così il risultato di andare oltre l’obiettivo della nostra presenza fisica, ma di costituire una vera e propria joint venture di natura universitaria all’estero. Proprio in queste settimane stiamo sviluppando il concept di un nuovo Bachelor of Engineering in Industrial Product Design che vede la partecipazione di diverse Scuole del Politecnico di Milano (Design, Management, Mechanical Engineering, Information and Communication Technology). Se il progetto vincerà la call del Ministero dell’Educazione della PRC, potrà essere di fatto il primo corso pilota della costituenda nuova scuola, con dei tratti distintivi unici, primo fra tutti l’interdisciplinarietà.
L’interdisciplinarietà è fondamentale nei processi di innovazione, in cui l’Italia ha certamente molto da dire al riguardo. E la Cina è fortemente impegnata su questo fronte, come dimostra il piano di sviluppo Made in China 2025 che è stato recentemente varato.

Quindi formazione, ma non solo: una partnership universitaria che mira ad essere rilevante per il Sistema Paese?

Certamente. Il nostro obiettivo è anche supportare le strategie di sviluppo internazionale e tecnologico delle nostre imprese. Xi’An in questo senso è un distretto industriale tra i più importanti della Cina, per l’automotive, elettrica in particolare, e un cluster molto rilevante per il settore ICT (Alibaba e Huawei hanno qui centri di ricerca molto importanti).
Per questo motivo abbiamo pianificato di avere dei laboratori, in cui intendiamo sviluppare ricerche insieme a imprese italiane e cinesi. Quello cinese è un mercato complesso ma estremamente attrattivo per le nostre imprese, e noi possiamo supportarle nel loro ingresso.

Veniamo agli studenti. Il valore aggiunto di uno scambio internazionale, durante un percorso di studio universitario, è dato per assodato, ma come rispondono gli studenti all’opportunità di una doppia laurea di questo tipo?

La Joint School ha l’ambizione di diventare globale: intendiamo attrarre studenti internazionali da tutto il mondo. Ma vogliamo anche supportare processi di crescita ed esperienziali dei nostri ricercatori e docenti, dato che anche per loro si tratta di un’opportunità di crescita sotto molteplici punti di vista.
La reazione degli studenti finora è stata entusiasta. A fronte di un legittimo scetticismo iniziale a studiare in un continente così diverso dal nostro, gli studenti italiani hanno sempre apprezzato in modo straordinario questo scambio culturale. Sono conquistati dall’energia e dalla dinamicità che caratterizza qualsiasi università cinese.
Si rendono conto dell’importanza di interagire in una delle aree che ha il massimo tasso di crescita economica del mondo, caratterizzata da un grande fermento e forti investimenti in tecnologie digitali e intelligenza artificiale.

Una partnership sviluppata, come diceva, sulla base di un lavoro continuativo fatto di visite nel paese ospitante. Ora questo specifico contesto storico ci impone di nuove forme di interconnessione nel mondo.
Che scenari prevede a fronte di questo? In che modo le distanze ci avvicinano o modificano alcune modalità di interazione tra noi e la Cina?

Il tema del Hybrid Learning sarà un acceleratore ulteriore delle relazioni tra Politecnico di Milano e la Cina. In questi mesi, in cui abbiamo ridotto a zero i viaggi, in realtà abbiamo interagito più frequentemente di prima e aumentato il livello degli obiettivi e i risultati raggiunti. In questa direzione, sia sul fronte della ricerca, sia sul fronte della didattica universitaria e post-graduate, si aprono prospettive precedentemente poco esplorate.
In Cina nel periodo di quarantena causa Covid, ben 180 milioni di studenti studiavano totalmente online. Per noi ora è naturale allargare la nostra offerta formativa prescindendo dalla presenza fisica degli studenti cinesi, laddove lo studente non si voglia muovere. Applicare logiche di Hybrid Learning (con lezioni in presenza e non) consente anche a studenti italiani che non si vogliano trasferire in Cina di partecipare, ad esempio, ai nuovi corsi di studio in programma.
Paradossalmente, in un momento in cui la connessione fisica non è stata possibile, l’interconnessione cognitiva e relazionale è stata più frequente, perché da entrambe le parti abbiamo scoperto la possibilità di lavorare con una frequenza di interazioni prima inimmaginabile e preclusa solo dal nostro sistema delle percezioni.
Per esempio, anche con la Tsinghua University di Pechino – la più importante università della Cina che ha un Joint campus a Milano con il nostro Politecnico -, stiamo lanciando ora tre grossi progetti formativi che coinvolgono MIP Graduate School of Business (oltre ad altri Dipartimenti dell’Ateneo) e che sono stati sviluppati in soli sei mesi. In passato, per ottenere un risultato simile, sarebbero stati necessari quattro/cinque anni di continui viaggi.
Questo naturalmente non significa sminuire l’importanza del contatto fisico e della vita di campus.
Si tratta solo di nuove strade che vale la pena percorrere.

Un’ultima domanda sull’approccio formativo nelle scuole di management in Cina. Quello che viene insegnato sta evolvendo in una modalità più propensa alla collaborazione con l’Occidente, oppure i due modelli si stanno radicalizzando su posizioni diverse?

La percezione che ho sempre avuto io della Cina è che ci fosse curiosità rispetto ai modelli manageriali occidentali. Quello che interessava erano però soprattutto le tematiche legate alla gestione dell’innovazione.
Gli approcci vanno in direzioni opposte. La Cina è consapevole della potenza del proprio sistema economico ed è quindi autoreferenziale anche nelle proprie modalità di management.
Questo, tuttavia, non esclude affatto diverse opportunità per noi – come Politecnico e come italiani -, in particolare per due motivi.
Il primo è il numero molto alto di studenti cinesi che desidera studiare all’estero e che si sposterà significativamente in Europa (e auspichiamo anche verso l’Italia).
Il secondo è che l’Italia è molto attrattiva per la nostra capacità, da un lato, di sviluppare un sistema di piccole e medie imprese, e dall’altro, di creare brand di lusso. Una reputazione ottima, dunque, non solo a livello di design ma anche di marketing.
Il nostro Paese, e le nostre scuole di Management sono, di conseguenza, decisamente interessanti.

Se dovesse dirci in breve le 3 “parole d’ordine” per il futuro a breve termine del progetto Xi’An, cosa sceglierebbe?

Consolidamento della Joint School per favorire percorsi di crescita dei giovani talenti del Politecnico.
Apertura di un paio di laboratori con le imprese: uno in ambito automotive e l’altro potrebbe essere l’esportazione del formato Polifactory a Xi’an.
Creazione di un incubatore di start up con relativa costituzione di un fondo di venture capital.