Amazon Innovation Award: a Milano la vittoria va agli studenti della School of Management

 

Robot che comunicano tra loro come se fossero un corpo solo per rendere più sicuro lo spostamento e il sollevamento di carichi pesanti tra gli scaffali e in magazzino: è il progetto che ha vinto l’Amazon Innovation Award nella sfida di Milano che ha visto protagonisti gli studenti di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano.

Giulia Merati, Giorgio Manenti, Sofia Lamperti e Filippo Pennati Belluschi hanno vinto la tappa milanese della competizione lanciata da Amazon per stimolare gli studenti universitari a formulare progetti innovativi mirati a ottimizzare la consegna dei prodotti acquistati online.
Giunta alla sua terza edizione, ha coinvolto il Politecnico di Milano, il primo ateneo a dar vita al contest tre anni fa, il Politecnico di Torino e l’Università di Roma Tor Vergata.

Complessivamente sono 200 gli studenti del Politecnico di Milano che hanno partecipato alla sfida, divisi in gruppi di 4-5 persone, e 43 i progetti presentati.

Incuriositi dal progetto abbiamo chiesto ai nostri studenti di raccontare la loro esperienza.

Come mai avete deciso di partecipare all’Amazon Innovation Award?

Il corso di Logistics tenuto dal Professor Perego e il Professor Mangiaracina al Politecnico di Milano ci ha dato l’opportunità di partecipare all’Amazon Innovation Award. La motivazione principale è stata la nostra volontà di metterci in gioco: siamo infatti un gruppo molto affiatato e amante delle sfide, ed è bastato un piccolo confronto iniziale per dare subito inizio ai lavori. Inoltre, essendo comunque studenti impegnati con molti altri corsi, siamo stati incoraggiati anche dalla possibilità di alzare il voto finale di qualche punto, così come dall’occasione di mettere in pratica quanto studiato sui libri.

Uniti da tutto ciò, abbiamo dunque deciso di partecipare insieme come team e sfruttare le conoscenze dei nostri diversi percorsi universitari, così da beneficiare di molteplici punti di vista.

Inizialmente le idee sono state molte, ma abbiamo deciso di sviluppare quella che ci sembrava essere la più fattibile sia in termini di costo che di tempi di implementazione, risultando infine anche la soluzione vincente.

Di preciso, in che cosa consiste il vostro progetto?

Il progetto si basa sulla realizzazione di un sistema di robotica distribuita applicato ai robot Kiva, già presenti nei fulfillment center di Amazon per il trasporto di scaffali.

Dato l’obiettivo di migliorare le attività più gravose e rischiose attualmente svolte dagli operatori, il progetto si focalizza sui flussi in entrata quindi le attività di scarico merci e stoccaggio, ma anche sulla fase di picking, ovvero di preparazione dell’ordine del cliente.
Il concetto di robotica distribuita rende possibile la comunicazione e lo scambio di informazioni tra robot che collaborano permettendo di trasportare anche pesanti unità di carico in maniera autonoma ed intelligente. Da un punto di vista tecnologico, ciò richiede l’installazione di microcontrollori che connettono via Wi-Fi i robot a una piattaforma centrale per la gestione dei flussi.
Tuttavia, l’estensione nell’uso dei Kiva richiede una riprogettazione in termini di layout del centro distributivo. Infatti, il secondo tipo di intervento consiste in un sistema parts-to-picker per la preparazione dell’ordine. Si tratta di un sistema in cui, durante l’attività di picking, sono i prodotti a muoversi verso l’operatore e non viceversa come avviene nella logistica tradizionale.

La movimentazione delle merci viene automatizzata, mentre l’operatore, incaricato di preparare il collo in uscita, lavora in un’area predisposta senza la necessità di effettuare spostamenti. In questo modo è possibile ridurre il numero di incidenti relativi alla movimentazione di transpallet e carrelli elevatori all’interno del magazzino.

Un’idea interessante! Secondo voi, cosa l’ha resa vincente?

La nostra soluzione applica tecnologie già esistenti combinandole in maniera innovativa. Partendo da una tecnologia già in possesso della stessa Amazon, ovvero i robot Kiva, abbiamo applicato una disciplina oggetto di grande interesse per la comunità tech ovvero la robotica distribuita. Le caratteristiche vincenti della nostra soluzione sono che richiede cambiamenti minimi nella struttura dei Kiva stessi e nel meccanismo di comunicazione dei Kiva, il quale avverrebbe sempre via WiFi basandosi sull’infrastruttura esistente.
Questa possibilità di cambiamento non invasiva unita ad un costo di investimento estremamente basso, meno di 20$ a Kiva rende possibile l’applicazione immediata della soluzione, su grossa scala e a costi contenuti.

Combinando basso costo e facile implementazione, con i numerosi benefici in termini di sicurezza, efficienza e riduzione dei costi operativi dei FC Amazon ha reso la nostra soluzione vincente. Minimo costo di realizzazione e tempo di implementazione uniti a massima scalabilità e altissimo rendimento sono le parole chiave di questo progetto.

Oltre alla vittoria, che cosa vi ha dato questa esperienza?

Da questa esperienza abbiamo imparato che per ottenere un successo non è necessario solamente l’impegno e il sudore, ma anche e soprattutto un sinergico lavoro di squadra che derivi dalla complicità fra i suoi componenti: un team vincente non è a nostro avviso quello che ha i componenti più geniali o l’idea più complessa, ma quello che riesce a superare le barriere interne e a trasmettere con efficacia un messaggio ai destinatari finali, in questo caso i nostri professori e i manager di Amazon. Pensiamo infatti di aver trasmesso la nostra passione e la nostra dedizione attraverso le poche pagine di questo progetto.

Inoltre, abbiamo anche toccato con mano cosa significhi lavorare per una realtà immensa come quella di Amazon: in un mondo dove milioni di idee vengono generate ogni giorno, e dove la competizione è alle stelle, l’unico modo per distinguersi è creare qualcosa di qualità ma anche semplice e chiaro, che sia sì innovativo ma anche facilmente implementabile nell’immediato.

Prima di salutarci, una domanda che guarda al futuro: quali sono i prossimi passi?

Il futuro, lo ammettiamo, ci spaventa ma non necessariamente in modo negativo. Come avvenuto con questo progetto, affronteremo ciò che ci aspetta come una sfida e daremo il massimo per concludere in modo eccellente i nostri studi. Successivamente tenteremo di inserirci in un mondo che cambia ogni giorno di più, sia tecnologicamente che culturalmente. Questo ci scoraggia e ci incuriosisce allo stesso tempo, perché significa che per andare avanti dovremmo affidarci esclusivamente alle nostre qualità. Siamo comunque tranquilli poiché abbiamo in tasca un titolo di studio molto richiesto e estremamente professionalizzante, che tuttavia richiede una buona dose di personalità e voglia di fare: nessuna laurea infatti potrà mai sostituire queste qualità fondamentali.

Fluida, integrata e mista: ecco l’editoria del futuro

Il New York Times ha recentemente annunciato di aver totalizzato nel 2018 ricavi per 700 milioni di euro solo dal digitale. Per contro, a livello globale il fatturato dell’industria dell’informazione è in calo e in molti Paesi, Italia compresa, le testate giornalistiche faticano a interpretare il contesto comunicativo attuale in modo economicamente sostenibile. Come si sta trasformando il mercato dell’informazione?

«Questa situazione non mi sorprende e ha radici molto profonde – afferma Giuliano Noci, docente di Strategia & Marketing presso la School of Management del Politecnico di Milano e Prorettore del Polo territoriale cinese del medesimo ateneo –. In passato qualcuno si aspettava che l’advertising da solo potesse sostenere un’attività di business online, previsione che si è rivelata una chimera. Inoltre, vent’anni fa molti editori hanno reagito all’arrivo del digitale tagliando i costi e abbassando di conseguenza la qualità. Si è rivelato un errore, perché le news oggi sono diventate delle commodity: la notizia non ha più un valore in sé, la può dare chiunque. Bisognava e bisogna saper offrire profondità di analisi, capacità di leggere i fenomeni nel medio e lungo periodo. Gli americani hanno lavorato proprio in questa direzione, rafforzando sempre più la componente di interpretazione rispetto alla pura e semplice notizia di attualità, e facendo leva sulla reputazione derivante dal prestigio dei loro marchi».

Il web non ha portato a un abbassamento della qualità, piuttosto a una polarizzazione fra chi bada solo al prezzo e quindi cerca contenuti gratuiti e chi invece cerca la qualità ed è disposto a pagarla. «C’è poi anche una questione organizzativa, su cui l’Italia è particolarmente in ritardo – prosegue Noci –. Fare informazione oggi non significa solo produrre dei testi ma lavorare in una prospettiva multimediale, il che implica newsroom centralizzate in luogo delle redazioni giornalistiche separate dalle aree web».

Alla base del successo di alcuni modelli editoriali c’è quindi anche un ripensamento del rapporto fra il mezzo digitale e il giornalismo “tradizionale” in un’ottica di maggiore integrazione delle due componenti.
Inoltre si assiste al rovesciamento di alcuni flussi di lavoro, con le notizie che vengono costruite direttamente per i canali digitali e le versioni cartacee dei giornali che fungono da raccolta o “best of” di contenuti apparsi in digitale anche diversi giorni prima.

Non stupisce, dunque, che alcune testate iconiche del giornalismo mondiale vengano rilevate e rilanciate da grandi imprenditori del web. Recentemente Marc Benioff, fondatore e Ceo di Salesforce, e sua moglie hanno annunciato l’acquisto del celebre settimanale Time. E dietro la rinascita del Washington Post c’è Jeff Bezos, che nel 2013 lo raccolse, pieno di debiti, dalle mani della famiglia Graham. A chi gli ha chiesto il perché di quell’acquisto, Bezos ha risposto che Internet ha distrutto la maggior parte dei vantaggi che i quotidiani avevano costruito nel tempo, ma ha offerto loro un regalo: la distribuzione globale gratuita. Per trarre beneficio da quel regalo, Bezos ha implementato un nuovo modello di business basato non più su un alto ricavo per lettore ma sull’acquisizione di un maggior numero di lettori.

Ma l’informazione in lingua inglese oggi trae vantaggio anche dalla numerosità dell’audience e da una sua diversa predisposizione culturale? «No – risponde Giuliano Noci –. Se i media italiani tenevano vent’anni fa, non c’è motivo per cui non possano farlo anche nel contesto attuale, in cui anzi, a saperle cogliere, ci sono prospettive di maggiore crescita. La mia esperienza nell’omnicanalità mi fa dire che la presunta immaturità dei consumatori è in realtà un’inadeguatezza dell’offerta, che poi alla lunga finisce per influenzare negativamente anche la domanda. Se in Italia e in Europa molti editori sono in difficoltà è perché non si sono adeguati ai cambiamenti della società e non offrono qualcosa che viene percepito come valore».

Il digitale è in crescita ma, secondo dati R&S Mediobanca, il 91,6% del giro d’affari mondiale proviene ancora dalla carta stampata. Inoltre, editori interamente digitali come Buzzfeed annunciano tagli, mentre molti nuovi progetti editoriali nascono in forma mista carta-digitale.
L’editoria cartacea è allora destinata a sparire progressivamente o conserverà un suo ruolo? Risponde ancora il Professor Giuliano Noci: «Oggi prevale il modello misto, perché le persone prediligono una fruizione mista. Sbagliano sia gli integralisti del digitale sia quelli della carta. Tutti i più recenti studi ci dicono che i comportamenti di consumo vanno segmentati non sulla base degli individui ma del contesto di vita in cui gli individui sono calati. Così, non c’è chi preferisce in assoluto essere informato via radio, via tv, via web o leggendo un giornale, ma chiunque, in base al momento della giornata e della situazione in cui si trova, fruisce dell’uno o dell’altro mezzo. Si tratta di comportamenti molto fluidi che possono essere intercettati solo da un’offerta altrettanto fluida».

 

 

 

 

 

 

 

 

Milano, la capitale delle startup

Una città a misura di innovazione. Lo dicono i numeri: in un panorama italiano sempre più dinamico, Milano si conferma il luogo più amato dai giovani imprenditori. All’ombra della Madonnina, infatti, si concentra ben il 15% delle nascenti PMI innovative. Su 9.742 realtà imprenditoriali, fra startup e piccole imprese, nate in Italia nell’ultimo anno, ben 1.505 sono sorte a Milano. Ma, al di là del numero, è forse ancora più importante l’altissimo tasso di sopravvivenza (ben il 98%) delle nuove imprese, a riprova di un ambiente molto favorevole allo sviluppo di nuovi business.

Le cifre sono state presentate di recente da Cristina Tajani, assessore al Lavoro del Comune di Milano, che ha anche sottolineato come quest’ultimo abbia investito dal 2012 al 2018 circa 11,5 milioni di euro destinati a nuove imprese. Nello stesso periodo, il fatturato generato da nuove attività è stato di oltre un miliardo di euro.

In Italia, Milano può quindi vantare un primato conquistato ormai da decenni e un ecosistema di servizi, istituzioni e infrastrutture che offrono agli imprenditori tutti gli strumenti necessari per far funzionare al meglio la propria impresa, non ultimo un più facile accesso al credito. Del resto, l’attrattività imprenditoriale del capoluogo lombardo è ormai consolidata e riconosciuta anche a livello internazionale. Nel 2016 il Financial Times aveva eletto Milano come la capitale italiana delle startup. Negli ultimi tre anni, poi, la città ha saputo capitalizzare l’esperienza di Expo 2015, che l’ha riproposta con successo sul palcoscenico mondiale. E, con il Regno Unito alle prese con la Brexit, numerose istituzioni e grandi aziende meditano di abbandonare Londra guardando proprio a Milano come loro prossima sede. D’altra parte, prestigiose multinazionali l’hanno già scelta da tempo per i propri uffici italiani: Microsoft, IBM, Google, Deloitte, Adecco, Gartner e molte altre.

Anche la Regione Lombardia fa la sua parte nel concedere prestiti e finanziamenti alle startup innovative: ne è un esempio concreto il bando Intraprendo, che offre fino a 65mila euro di finanziamenti e si inserisce in un Programma Strategico Triennale di ricerca e innovazione dal respiro più ampio con risorse complessive quantificabili in 750 milioni di euro.

A suffragare empiricamente questa consapevolezza diffusa del ruolo di primo piano giocato dalla Lombardia e, in particolare, da Milano all’interno dell’ecosistema startup italiano, sono anche i dati dell’Osservatorio Startup Hi-tech della School of Management del Politecnico di Milano. L’Osservatorio quantifica gli investimenti effettuati da investitori formali, quali fondi di Venture Capital, e informali, come Business Angel e piattaforme di Crowdfunding, in startup ad alto contenuto innovativo nei comparti Digital, Cleantech & Energy e Life Science.

Dal 2012, anno che ha visto sia la nascita dell’Osservatorio che la promulgazione del Decreto Startup Innovative da parte del Ministero dell’Innovazione e dello Sviluppo Economico, le startup hi-tech lombarde hanno raccolto un totale di oltre 600 milioni di euro, mentre quelle con sede nella provincia di Milano hanno superato i 550 milioni di euro di raccolta. Nel solo 2018, il capitale raccolto dalle 43 startup milanesi finanziate è stato pari a quasi 250 milioni di euro, intorno alla metà dei finanziamenti totali effettuati in Italia.

Oltre alla forte presenza di startup dall’elevata qualità e potenziale di crescita, in città è presente un articolato ecosistema di supporto composto sia da investitori, che con il loro apporto di capitale consentono alle startup di mettere a terra il loro potenziale di crescita, sia da accelerator e incubator, che si concentrano invece sulle realtà nella fase embrionale offrendo supporto e competenze per validare il modello di business.

Tali attori sono talvolta legati agli atenei del territorio, come il fondo di investimento Poli360 – che vede una partnership tra il Politecnico di Milano e il fondo di VC 360 Capital Partners per il finanziamento di idee tecnologiche – e PoliHub, incubatore e acceleratore del Politecnico di Milano, terzo incubatore di startup nel mondo secondo Ubi Index, società di ricerca internazionale specializzata nel settore.

Il terreno è quindi fertile per tutti gli aspiranti startupper che vogliono inserirsi in un tessuto economico e in una fitta rete di relazioni business destinata a crescere. Per conferma, si può chiedere al palermitano Giovanni De Lisi, che a Milano ha trovato l’occasione per fondare Greenrail, progetto basato su una traversa ferroviaria ecosostenibile ottenuta da materiale riciclato e che può già vantare un contratto negli Usa da 75 milioni di euro. Oppure al calabrese Osvaldo De Falco, che ha scelto Milano per la sua Biorfarm, vera e propria azienda “agricola digitale” che ha attirato l’attenzione del Sole 24 Ore grazie a un crowdfunding da record: chiedeva 80mila euro, ne ha ottenuti 300mila. E ora guarda all’estero.

Il richiamo esercitato da Milano, peraltro, non è limitato alle strette questioni di business: la moda, il cibo, il patrimonio artistico, l’offerta culturale la rendono una città in cui la vita è gradevole e stimolante. Un mix vincente.

Startupper si nasce o si diventa? Indubbiamente il talento e l’intuito sono fondamentali. Ma per fare l’imprenditore oggi servono anche competenze in tema di business e innovazione. Così se il PoliHub offre un ecosistema perfetto per incubare e far sbocciare nuove idee imprenditoriali, è sempre all’interno dell’Ateneo milanese, con la School of Management del Politecnico, che gli aspiranti startupper possono acquisire le competenze necessarie allo sviluppo di nuove idee imprenditoriali.

I programmi MBA ed Executive MBA, per esempio, integrano nel proprio programma corsi in ambito Startup & Strategy, ma esistono anche dei master specifici come l’Advanced Master in Innovation and Entrepreneurship, offerto in collaborazione con Solvay Brussels School.

Inoltre, la MIP Management Academy offre un ampio catalogo di corsi rivolti al pubblico executive che vuole esplorare il tema Entrepreneurship & Strategy.