Carmen Di Bari

Nell’ambito di un progetto strategico del MIP sull’Employer Brand della Scuola, abbiamo avuto il piacere di partecipare al workshop “Rock Your Profile”, tenuto dalla nostra Alumna Carmen Di Bari, Account Executive Linkedin. È stato bello vedere come, anche grazie al Percorso Executive HR Business Leader della Management Academy, Carmen sia riuscita a lavorare in una delle più grandi e innovative aziende al mondo.  Una storia interessante, che le abbiamo chiesto di raccontare!

Come sei arrivata alla posizione che ricopri oggi? Qual è stato il ruolo del Percorso Executive in HR nel tuo percorso professionale?

Sapevo che un giorno avrei lavorato per Linkedin. Tuttavia a volte il percorso per arrivare all’azienda dei propri sogni non è lineare, ma pieno di curve e pit stop. L’importante è avere un piano chiaro ed essere disposti a fare sacrifici per realizzarlo.
Il mio piano è stato per prima cosa sviluppare una buona esperienza sul campo lavorando nel settore HR, poi allenare lo spirito di adattamento e la capacità di parlare fluentemente inglese andando a vivere all’estero, e infine perfezionare e aggiornare le mie conoscenze attraverso il Percorso Executive in HR, grazie anche al suo sguardo sempre diretto al mondo aziendale.

Nessuna delle tre cose è stata semplice, ma era previsto! Il Percorso Executive in HR mi ha aiutato ad avere una visione aggiornata delle sfide, delle priorità e dei trend del settore HR a 360 gradi, oltre a offrirmi una significativa occasione di networking. Ho conosciuto professionisti, sia del settore HR che non, con tanta esperienza, che sono entrati a far parte del mio network professionale e con cui spesso mi confronto per un parere.
Altro aspetto rilevante del corso –  e per me di buon auspicio – è stata la possibilità di seguire l’intervento di un manager Linkedin della sede di Milano relativamente alla rivoluzione che Linkedin ha creato nel mondo delle Talent Acquisitions e dell’importanza del Personal Brand per i professionisti. A distanza di alcuni anni siamo diventati colleghi.

 

Non solo, adesso sei tu – come lui – dall’altra parte della cattedra. Com’è stato tornare nelle stesse aule dove hai studiato nella veste di relatrice?

È stata un’emozione grandissima. Non avrei mai immaginato un giorno di tenere una sessione al MIP dall’altra parte della cattedra e con una platea così numerosa. È stato come un restituire alla mia Scuola parte dell’esperienza che ho maturato in questi anni, un “give back” tra quello che ho ricevuto come Alumna e quello che io posso trasferire oggi come professionista. Mi rende davvero orgogliosa aver studiato in un’organizzazione che investe nelle proprie persone e nel proprio Employer Brand.

 

Dal tuo discorso appare evidente il legame che hai con il MIP. Quali sono gli insegnamenti del percorso che applichi ancora oggi nel tuo lavoro?

Le persone sono il più importante fattore critico per il successo di qualunque organizzazione e la loro gestione comporta complessità. Non penso quindi ad un modulo specifico sul tema delle risorse umane, ma all’intero percorso, che mi ha dato da una parte una comprensione più realistica dei problemi di HR e CEO e dall’altra, stimoli alla ricerca di soluzioni non tradizionali per superarli, a pensare “out of the box”. Custodisco tutte le slide e i “Case studies” del corso salvati su una pen drive, sempre a portata di mano. Sicuramente un aspetto del percorso che oggi applico quotidianamente è come guidare le persone in azienda per favorire la Trasformazione Digitale.

 

Oggi lavori per Linkedin, la più grande community professionale al mondo, quindi l’ultima domanda non poteva che essere sulla tua idea di network. Come vivi l’appartenenza alla community degli Alumni?

Citando John Donne direi che “Nessun uomo è un’isola”, nessuno vive solo per sé stesso e ogni persona non è che una parte di un tutto. Il network per me è questo: è l’opportunità di aumentare il proprio valore come singola in quanto appartenente ad una rete, a un gruppo con interessi in comune, e grazie alle molteplici possibilità di interazione e di apprendimento attraverso gli altri. Anche in questo senso mi sento orgogliosa di appartenere alla community degli Alumni MIP.

 

Smart Working: il punto di vista del Direttore HR

Con circa 480 000 smart worker in Italia, il lavoro agile è un tema che interessa moltissime aziende. Il MIP non fa eccezione e, infatti, da qualche mese ha dato il via a un progetto di Lavoro Agile aperto a tutti i dipendenti. Ne abbiamo parlato con il responsabile delle Risorse Umane Gianvincenzo Scarpa.  

 

Che cos’è per te lo smartworking?

Per me non si tratta “solo” di lavorare da casa, ma piuttosto del primo passo di una rivoluzione che sta interessando ormai da anni la concezione tradizionale del posto di lavoro.
Per tanto tempo, ci si è recati in fabbrica cinque giorni alla settimana: la presenza sul luogo di lavoro era una necessità, la gerarchia regnava sovrana e tutti i dipendenti erano costretti a timbrare il cartellino.

Oggi, questo modello “tradizionale”, in gran parte dei contesti aziendali, può essere superato grazie alla tecnologia digitale, che è diventata regina di una nuova idea di ufficio e permette di gestire in modo ottimale sia le attività che rapporti con i colleghi.
Smart working per me è anche una sfida: è compito della Direzione HR, insieme ai responsabili d’area, aiutare i dipendenti a superare alcune criticità che comunque esistono, come per esempio la sensazione di isolamento rispetto ai colleghi, alle attività e alla vita d’ufficio, incentivando le persone a sfruttare appieno tutte le opportunità che la tecnologia offre e che una società mette a disposizione.

 

Puoi spiegarci come mai il MIP ha intrapreso la strada del Lavoro Agile?

I motivi che ci hanno spinti verso lo smart working sono tre: un migliore work-life balance, un impatto positivo in termini di sostenibilità ambientale e anche una maggiore responsabilizzazione delle persone verso i risultati.

Al MIP c’era già un’attenzione verso il work-life balance, declinata in termini di una flessibilità di orario molto estesa. A questa abbiamo deciso di unire anche una flessibilità di luogo.
Prima di imboccare questa strada abbiamo fatto un’analisi dalla quale è emerso che il 70% dei dipendenti raggiunge il luogo di lavoro con i mezzi pubblici e che il 40% impiega in media 45 minuti per arrivare al MIP.
Abbiamo ritenuto che guadagnare complessivamente tra i 60 e i 90 minuti del proprio tempo potesse avere degli effetti molto positivi anche sulla produttività. Peraltro, secondo le ultime ricerche una gran parte dei lavoratori – soprattutto tra i più giovani – è disposta ad accettare una retribuzione minore in cambio di politiche di lavoro agile. Sostanzialmente, torniamo al tema che la felicità non è tanto una questione di denaro, quanto di tempo a disposizione.

 

Hai già menzionato l’influsso positivo su retention e soddisfazione dei dipendenti. Quali sono gli altri vantaggi per l’azienda?

Lo smart working incrementa la fiducia delle persone, incidendo positivamente sia sull’engagement che sulla motivazione. Queste sono anche le basi per una buona performance da parte dei dipendenti e, quindi, di riflesso, anche dell’azienda.
Migliore motivazione significa anche maggiore retention, diminuzione dell’assenteismo ed aumento della produttività. Questo perché le risorse, grazie alla fiducia avvertita e che viene riposta, si sentono maggiormente responsabili del raggiungimento dei risultati.

 

Qual è invece la tua esperienza di smart worker?

Sicuramente ne apprezzo i reali vantaggi: abitando a 30 km da Milano ne sperimento la sostenibilità a livello ambientale e il risparmio di tempo. Guadagno infatti quasi due ore, che vanno a vantaggio della mia vita familiare.
Per molte persone – al MIP ci sono tante mamme – poter avere il tempo di accompagnare i figli a scuola anche solo una volta alla settimana fa la differenza.

L’impatto positivo non è solo nella sfera privata, ma anche in quella professionale. Organizzo il lavoro in modo da dedicare la giornata di smart working a quelle attività che richiedono molta concentrazione e/o sono particolarmente time-consuming. Si sa, in ufficio il tempo si dilata, a causa di quelle normalissime interruzioni da parte dei colleghi che fanno parte del lavoro quotidiano… A casa, invece, è più facile che il tempo stimato per completare un’attività diventi quello effettivo.
Tutto questo è possibile perché c’è una pianificazione a monte. Altrimenti, c’è il rischio di vivere la giornata di smart working come un impedimento, concentrando negli altri giorni tutte le attività che richiedono la presenza in sede.
L’esperienza è positiva, in linea con le nostre prime survey, che mostrano grande soddisfazione sia da parte degli smart worker che da parte dei responsabili.

 

Fino ad ora abbiamo parlato delle opportunità, ma tornando anche a quello che hai detto in apertura, ci sono delle sfide da affrontare. In particolare cosa cambia nella gestione delle risorse umane e nel rapporto con i responsabili d’area?

Effettivamente, cambia tanto. La direzione HR ed i cosiddetti manager gestori di risorse devono essere allineati e condividere una visione strategica. Sono i responsabili d’area infatti ad essere coinvolti in prima persona nella buona riuscita del progetto e sta alle Risorse Umane supportarli nella modifica dei propri stili di leadership.
L’obiettivo è quello di passare da un modello costruito sul controllo e la supervisione ad uno basato sul raggiungimento – anche in autonomia – dei risultati. Nei posti di lavoro di nuova generazione i risultati sono più importanti delle apparenze.
Un altro degli aspetti fondamentali è l’empowerment delle risorse. È importante coinvolgere i collaboratori nelle decisioni, responsabilizzandoli e stimolandoli a proporre miglioramenti delle modalità di organizzazione del lavoro.
Perché questo accada, HR e responsabili d’area devono lavorare insieme, in modo che ci siano allineamento e coerenza a livello di visione e strategia.

Un’altra sfida è invece a livello di cultura aziendale. Questo progetto, infatti, coinvolge persone con seniority diverse, appartenenti a generazioni diverse con idee differenti sul modo di lavorare e con una percezione diversa della tecnologia e delle sue potenzialità. Se per un Millennial è naturale sfruttare appieno la tecnologia anche sul luogo di lavoro, esattamente come fa al di fuori dell’ufficio, per una persona abituata a muoversi in un mondo analogico, può essere meno immediato abbracciare un nuovo modo di lavorare basato sulla condivisione e sugli obiettivi.

Ecco perché i modelli di funzionamento basati su comando e controllo devono lasciare il campo a forme di collaborazione più condivise e digitali.

 

Come hai sottolineato, gli attori coinvolti in questo progetto sono sia i responsabili che lo staff. Che consigli ti sentiresti di dare agli uni e agli altri per cogliere tutte le opportunità dello smartworking?

Secondo me l’unica strada per vivere tutte le dimensioni dello smart working – non solo quella del lavoro da casa – è rimettersi in gioco.
Spero che le persone sentano la necessità di mettere in discussione i canovacci del lavoro tradizionale, anche se sono abituati a lavorare in un certo modo da dieci o quindici anni.
Per apprezzare a pieno le potenzialità del lavoro agile non basta un pc: bisogna sfruttare tutte le piattaforme messe a disposizione dell’azienda, in modo da essere il più possibile integrati nelle attività dell’ufficio.

Ai responsabili più scettici che faticano a pensare che una propria risorsa stia lavorando proficuamente in una location diversa dall’ufficio, ricordo che a valle di una corretta pianificazione e condivisione degli obiettivi, i dipendenti sanno cosa stanno facendo e dovranno rispondere in caso di scadenze non rispettate o peggio ancora obiettivi non raggiunti. È evidente che in questi casi il problema non è la flessibilità che permette di lavorare da remoto, bensì il dipendente stesso che non soddisfa le aspettative dell’azienda.

 

Per concludere, guardando al futuro cosa vedi?

Lo smart working non deve essere un punto di arrivo, ma il primo passo di una rivoluzione, il punto di partenza per altre trasformazioni del workplace.
Tante aziende, per esempio, hanno rivoluzionato gli spazi, rendendoli più aperti e condivisibili. Oggi infatti il lavoro per “compartimenti stagni” è superato e molte persone di differenti team lavorano insieme su progetti in modo trasversale.
In questo momento al MIP non siamo ancora a buon punto di quel cambiamento culturale: per esempio, la zona ricreativa che abbiamo creato per i dipendenti, non è molto sfruttata. Non c’è ancora l’idea che una breve partita a ping pong possa risolvere un momento di empasse lavorativa. Non è vista come l’occasione per recuperare magari concentrazione, e quindi produttività, ma come una distrazione dalle proprie mansioni. Così come, dalle ultime analisi, ancora non stiamo sfruttando a pieno regime tutte la tecnologia digitale che abbiamo a disposizione.
Oggi sarebbe azzardato portare avanti dei nuovi cambiamenti ai quali non siamo ancora pronti. Lo smartworking è il primo passo: in caso di riscontri positivi potremo continuare a cavalcare l’onda di cambiamento che sta investendo il cosiddetto workplace.

Il manager di oggi (e di domani)

Il mercato del lavoro del prossimo futuro passerà attraverso manager aperti al cambiamento e capaci di evolversi. La quarta rivoluzione industriale, ovvero la presenza della tecnologia in numerose attività prima svolte esclusivamente dall’uomo, minaccia alcune figure professionali, promette di crearne delle nuove, e richiede uno sforzo di adattamento a tutti, in particolare a chi riveste ruoli decisionali.

Quella del manager è una delle professioni che ha meno da temere dai cambiamenti in atto, e anzi assume un ruolo sempre più centrale. Ma proprio per questo i manager hanno più degli altri bisogno di aggiornare le proprie competenze in base alla continua evoluzione degli scenari. Quell’evoluzione che sono chiamati a interpretare e gestire.

Il Future of Jobs Report 2018, pubblicato dal World Economic Forum, indica le professioni legate al ragionamento e alla presa di decisioni, e quelle legate al coordinamento, allo sviluppo, alla gestione e alla consulenza, come le due categorie in cui il rapporto fra ore lavorate da umani e da macchine resterà più decisamente a vantaggio dei primi. Ma nel medesimo report si sottolinea anche che entro il 2022, a non meno del 54% dei manager verrà richiesto un re-skilling e upskilling significativo. Molte delle aziende intervistate hanno dichiarato la loro intenzione di concentrare i loro sforzi di aggiornamento delle competenze sui dipendenti che ricoprono ruoli ad alto valore aggiunto.

Il manager del futuro, chiamato a operare in una società complessa che cambia continuamente e a ritmi molto rapidi, necessita da un lato di hard skill sempre nuove, soprattutto in ambito tecnologico, e dall’altro di soft skills come il pensiero analitico, la resilienza, la creatività, l’intelligenza emotiva, la flessibilità. Se n’è parlato anche nella tavola rotonda “Human skills and drivers for change”, tenutasi lo scorso 2 febbraio presso il MIP Politecnico di Milano nel corso del primo EMBA Day 2019 (l’evento fa parte del ciclo “Practising Leadership”, il cui prossimo appuntamento è previsto il 6 marzo sul tema “Empower your career”). In quella occasione, Pino Mercuri, Direttore delle Risorse Umane di Microsoft Italia, si è soffermato fra l’altro sul tema dell’obsolescenza delle competenze nell’IT. “Una competenza ingegneristica o tecnologica media ha una shelf life tra i 24 e i 48 mesi – ha dichiarato Mercuri –. Non abbiamo però chiarezza totale e completa delle competenze che saranno necessarie nel prossimo futuro. Parliamo di Machine Learning, di AI, di IoT, ma spesso sono più delle password che non dei reali concetti”.

A fronte di questa crescente instabilità delle competenze richieste, assumono sempre più importanza la capacità di apprendere e la motivazione a farlo lungo tutto l’arco della vita lavorativa. “In Microsoft abbiamo cercato di mettere tutti in condizioni di capire che apprendere non solo è necessario ma è anche un elemento di valutazione – ha proseguito Mercuri –. Nel nostro sistema di performance management chiediamo di dichiarare cosa si intende fare per crescere e apprendere, e la risposta a quella domanda viene verificata nel successivo step di valutazione”.

L’head hunter Jacopo Pasetti, anch’egli presente all’incontro, ha posto l’attenzione su due concetti, consapevolezza e passione: “La consapevolezza va intesa come comprensione del nostro percorso professionale e di quello che ci piace davvero. È necessaria perché l’aggiornamento continuo richiesto dalla veloce evoluzione delle competenze non venga percepito come un peso. Perciò bisogna scegliere il proprio percorso di carriera non in base alle mode del momento ma seguendo le proprie passioni, oltre a una strategia chiara”.

L’importanza delle soft skill non deve però portare a trascurare le hard skill. “Siamo in un momento storico in cui stanno cercando di convincerci che la competenza e la cultura non siano poi così importanti – ha sottolineato Fulvia Fiaschetti, Global Talent Acquisition Associate Director di Amplifon –. Io credo invece che il mondo delle aziende con grande forza si opponga a questo tipo di pensiero”. La competenza tecnica, secondo la manager, è richiesta soprattutto all’ingresso in azienda, mentre le soft skill si formano dopo e servono a compiere passi ulteriori. Comunicazione, empatia, forward thinking sono competenze che non si apprendono sui libri.

La necessità di imparare in fretta porta poi alla diffusione di una cultura dell’errore, intesa come invito a osare e a sperimentare continuamente, utilizzando anche i fallimenti come modalità di apprendimento. “L’errore non solo è possibile ma è necessario per acquistare sempre più competenze – ha fatto notare ancora Pino Mercuri –. Se si sta sbagliando, è probabilmente perché si sta cercando davvero di innovare”.