Transizione alle tecnologie verdi nei Paesi emergenti: come la ricerca può aiutare a indirizzare le risorse

Selezionare le aree geografiche e le tecnologie verdi per il finanziamento di successo di una crescita economica sostenibile è un compito difficile, soprattutto nei Paesi emergenti. La ricerca accademica è fondamentale per fornire strumenti a supporto delle istituzioni pubbliche e private in questo compito.

 

Enrico Cagno, Full Professor in Industrial Systems Engineering, School of Management, Politecnico di Milano
Giulia Felice, Associate Professor in Economics, School of Management, Politecnico di Milano
Lucia Tajoli, Full Professor in Economics, School of Management, Politecnico di Milano

Di recente, la crisi del COVID ha portato alla luce nell’opinione pubblica in che misura la ricerca è per molti versi fondamentale per la sopravvivenza della comunità. Ciò è parso estremamente evidente per le discipline con un impatto diretto e riconosciuto sulla vita umana e sullo sviluppo. Tuttavia, l’impatto diretto e indiretto della ricerca accademica in molte altre aree e discipline potrebbe essere considerevole per il benessere delle persone e l’evoluzione delle società in numerosi ambiti.

Un caso importante, particolarmente rilevante nell’attuale fase economica, è il ruolo della ricerca accademica nel fornire analisi e metodologie che possano supportare le istituzioni pubbliche e private nel veicolare e utilizzare in modo appropriato le risorse in paesi, regioni, settori per favorire una crescita economica equa e sostenibile.

Un esempio pertinente riguarda le risorse a sostegno della transizione dei Paesi verso le tecnologie verdi. I finanziamenti per il clima svolgono un ruolo fondamentale nella lotta al cambiamento climatico e nella promozione di una crescita sostenibile dal punto di vista ambientale nelle economie in transizione e in via di sviluppo. Un presupposto per avere successo è la capacità di selezionare quei paesi in cui il sostegno agli investimenti green non va a scapito degli investimenti privati, ma apre invece spazio alla loro espansione, in linea con il potenziale di mercato esistente. Diverse banche e istituzioni operano con questo obiettivo e, come è noto, gran parte dei finanziamenti di Next Generation EU è destinata al Green Deal europeo. Contemporaneamente, il vertice Cop26 di Glasgow ha evidenziato ancora una volta l’inevitabile dimensione globale della transizione green e la posizione asimmetrica delle economie in via di sviluppo e mature a causa del loro diverso stadio di sviluppo.

Una questione importante nel mantenere i diversi approcci delle economie in via di sviluppo e mature verso le tecnologie green è che in molti casi non è facile sostenere la transizione green nei paesi in via di sviluppo a causa della mancanza di informazioni adeguate sull’accesso e sulle opportunità offerte dalle tecnologie. I finanziamenti potrebbero essere allocati in modo errato, vale a dire, potrebbero essere convogliati laddove eliminano gli investimenti privati o dove non vi è alcun potenziale per la diffusione dell’investimento nella nuova tecnologia dopo il sostegno iniziale. È qui che la ricerca diventa utile. È possibile sviluppare metodologie e strumenti a supporto delle istituzioni nella selezione di aree e tecnologie per un finanziamento di successo.

In questo contesto e a questo scopo, la ricerca del SOM può contribuire a sviluppare un quadro concettuale e fornire metodologie per ottenere una valutazione complessiva della disponibilità di paesi, regioni o settori ad adottare tecnologie verdi, classificando paesi o aree in termini di esposizione a queste tecnologie. In un recente progetto sviluppato per la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), l’obiettivo finale era quello di cogliere la misura in cui i paesi interessati potrebbero trarre vantaggio dal finanziamento delle tecnologie green, in particolare quei paesi in via di sviluppo ed emergenti per i quali i dati sulla diffusione di queste tecnologie sono scarsi o non disponibili. La creazione e l’utilizzo di una tecnologia da parte di un Paese o di un’impresa è il presupposto per la sua diffusione ed eventuale adozione. Pertanto, per beneficiare della promozione degli investimenti verdi, il paese target dovrebbe già disporre di un livello e di un mix adeguati di utilizzo e produzione della tecnologia verde. Questo mix dipende dalla situazione economica complessiva e dal livello di sviluppo del Paese, come indicato, ad esempio, dal reddito pro capite, dalla capacità produttiva installata e dal livello di tecnologia nei prodotti a economia chiusa. Non esiste una definizione o misurazione specifica universalmente accettata della diffusione di una tecnologia. Il commercio internazionale di prodotti che incorporano una tecnologia specifica rivela la presenza di tale tecnologia nei paesi commerciali. Pertanto, il commercio è spesso utilizzato nella letteratura economica per tracciare la diffusione della tecnologia. I vantaggi dell’utilizzo di dati commerciali e metodologie avanzate per elaborarli sono che sono affidabili e disponibili per la maggior parte dei paesi a un livello di categoria di prodotto molto raffinato e per un lungo arco di tempo.

Seguendo questo approccio, i ricercatori del SOM hanno utilizzato i dati commerciali e pubblici ufficiali dei “green goods” (come definiti dall’Organizzazione mondiale del commercio e dall’OCSE) che coprono tutti i paesi per valutare la potenziale diffusione e adozione di tecnologie “verdi”, costruendo una serie di indicatori per misurare la maturità del mercato e la capacità di produzione di un paese per un determinato prodotto. Sulla base di questi indicatori, è stata sviluppata una sequenza di passaggi per identificare l’opportunità di azioni di successo. La metodologia è stata poi discussa e migliorata durante l’attuazione del progetto con gli esperti della BERS che l’avrebbero utilizzata, per poi essere validata con gli esperti del Paese sull’effettiva diffusione dei prodotti analizzati in termini di domanda e capacità produttiva.

La BERS utilizzerà la metodologia sopra descritta come strumento per selezionare i potenziali obiettivi del finanziamento, ovvero il binomio paese-tecnologia. La metodologia è facilmente replicabile su dati pubblicamente disponibili e quindi idonea ad orientare l’ente nelle sue scelte. La BERS è di proprietà di una settantina di paesi dei cinque continenti, nonché dell’Unione Europea e della Banca Europea per gli Investimenti. Ciò implica che le sue attività hanno un impatto su una vasta popolazione, di imprese, che saranno sostenute finanziariamente dalla BERS per l’adozione/produzione di tecnologie verdi, e di cittadini che trarranno vantaggio da una crescita sostenibile e da una migliore qualità della vita grazie all’adozione da parte delle imprese di tecnologie verdi.

Il progetto potrebbe potenzialmente incidere su diversi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Salute e Benessere, Acqua pulita e servizi igienico-sanitari, Energia accessibile e pulita, Città e comunità sostenibili, Consumo e produzione responsabili, Azione per il clima) nella misura in cui dovrebbe supportare la diffusione delle tecnologie verdi e merci nei paesi in via di sviluppo ed emergenti.

 

Space Economy: verso una nuova frontiera per l’innovazione e la sostenibilità

La combinazione di tecnologie spaziali e digitali rappresenta una forza pervasiva che abilita una innovazione di tipo cross-settoriale, ed al contempo rende il mondo più sostenibile. Tuttavia le opportunità tecnologiche sono solo un terreno fertile che per concretizzarsi necessita di strategie manageriali ed imprenditoriali per il rinnovamento strategico di organizzazioni consolidate e per la creazione e crescita di startup innovative

 

Angelo Cavallo, Assistant Professor in Strategy & Entrepreneurship, School of Management, Politecnico di Milano

La Space Economy è un fenomeno di frontiera dell’innovazione e della sostenibilità che si concretizza nella combinazione di tecnologie spaziali e digitali utili a sviluppare opportunità di business che danno la possibilità a molte imprese, in svariati settori, di accrescere la propria competitività su scala globale attraverso l’innovazione a tutti i livelli – dal prodotto/servizio, ai processi, sino al modello di business complessivo.

Il valore economico generato dall’uso combinato di tecnologie dello spazio e digitali è stimato per circa 371 miliardi di dollari nel 2021 (Satellite Industry Association). Tuttavia, il valore della Space Economy va oltre una stima di mercato e si distingue per la possibilità di innovare in tanti ambiti ed al contempo contribuire a rendere il nostro pianeta più sostenibile attraverso l’integrazione dei dati terrestri e satellitari, alla base di nuovi servizi space-based.
Mediante delle mappe globali di copertura del suolo ad alta risoluzione, i climatologi possono sviluppare modelli climatici e capire come sta evolvendo il clima sulla superficie terrestre. Tramite immagini multispettrali e radar, combinate con tecniche di machine learning e deep learning è possibile oggi creare modelli predittivi circa la deforestazione. Il monitoraggio tempestivo e continuo delle dinamiche della foresta è fondamentale per l’attuazione delle politiche di conservazione. Un altro campo di applicazione dei dati satellitari è nel monitoraggio dell’inquinamento. Un caso ormai molto noto riguarda il monitoraggio dei livelli di inquinamento durante il periodo di lockdown dovuto alla pandemia Covid-19. Ad oggi moltissime di queste analisi vengono fatte tramite dati provenienti da sensori a terra, largamente diffusi nel territorio europeo. Le tecnologie satellitari sono complementari e utili in aree dove non vi siano sensori terrestri.

Un numero sempre maggiore di studiosi inserisce la combinazione di tecnologie digitali e dello spazio tra i driver che possono abilitare il raggiungimento dei Sustainable Development Goals (SDGs), strumento adottato a livello globale per indirizzare le attività economiche e sociali verso il raggiungimento di obiettivi di sostenibilità.
Ad esempio, servizi space-based contribuiscono al SDG 7 “Affordable and Clean Energy” che si prefigge di garantire l’accesso all’energia per una più vasta platea di utenti e può essere favorito attraverso sistemi di monitoraggio remoto degli impianti in luoghi in cui condizioni atmosferiche e altri fenomeni naturali possono portare ingenti danni all’infrastruttura e dove la manutenzione può risultare difficoltosa.

Lo sviluppo di un mercato delle space economy e di soluzioni space-based passa però necessariamente dalla strutturazione e esplorazione di nuovi modelli di business ripercor­rendo tutta la catena del valore, da chi sviluppa i servizi a chi crea nuove in­frastrutture fino agli utilizzatori finali di tali servizi che possono rendere più efficienti le loro operations e/o creare nuovi prodotti. Innovare i modelli di business tradizionali e muoversi verso una logica di platformization, servitization e open innovation è fondamentale per far sì che i nuovi servizi space-based abbiano impatto economico, ambientale e sociale su larga scala.

 

QS Online MBA Ranking 2022: il MIP Politecnico di Milano è undicesimo al mondo con l’International Flex MBA

La School of Management del Politecnico di Milano conferma la sua presenza nella classifica promossa da QS Quacquarelli Symonds dedicata ai corsi MBA online.

MIP Politecnico di Milano, la Graduate School of Business che fa parte della School of Management dell’Ateneo milanese, si posiziona all’11° posto a livello mondiale tra le migliori business school nel campo degli MBA online secondo il QS Online MBA Ranking 2022.

L’International Flex MBA è stato il primo MBA in smart learning lanciato in Italia nel 2014, basato su una delle piattaforme di apprendimento digitale più avanzata al mondo, sviluppata su tecnologia Microsoft.

Dal 2018 è presente nella rinomata classifica Quacquarelli Symonds (QS), che ogni anno valuta la qualità dei corsi erogati a distanza nel mondo. Quest’anno la competizione ha coinvolto un panel di Business School più ampio: le Scuole valutate passano da 57 a 72 a livello mondiale.

Vittorio Chiesa e Federico Frattini, rispettivamente Presidente e Dean del MIP hanno dichiarato: “Siamo felici della confermata presenza in classifica e dell’ottimo posizionamento conseguito anche quest’anno, nonostante l’ingresso di nuove scuole. Da quando nel 2014 abbiamo lanciato la prima edizione del nostro International Flex MBA continuiamo a lavorare per migliorare la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento a distanza.”

Dall’analisi dei singoli parametri su cui si basa la classifica, emerge come il MIP si sia distinto per la sua offerta formativa. In particolare, spicca il posizionamento nel parametro Faculty & Teaching (docenti e insegnamento) dove l’International Flex MBA è quarto a livello mondiale. Rispetto alla Class Experience (percentuale di attività svolte in presenza, accessibilità in mobilità / online, supporto tecnico) è settimo, mentre sull’Employability (grado di occupabilità degli iscritti) è al ventesimo posto.

Consulta la classifica completa qui.

MIP e le connessioni con le aziende: oltre 9.000 nell’ultimo anno

Non si può ispirare senza offrire esempi concreti, non si può invocare il valore della partnership senza prendersi cura e far crescere un network di relazioni con il mondo delle imprese, non si può plasmare il futuro se non si hanno occasioni – durante la formazione – di mettersi in gioco direttamente in impresa.

Per questo motivo abbiamo provato a misurare e raccogliere in un Corporate Connections Report tutte le connessioni con il mondo delle imprese che hanno interessato la nostra Scuola tra settembre 2020 e agosto 2021.

Davide Chiaroni, Associate Dean for Strategic Projects al MIP, ci ha spiegato meglio il valore di questi numeri.

Non si può ‘ispirare’ senza offrire esempi concreti: il Corporate Connections Report si apre sottolineando l’importanza che hanno le occasioni di mettersi in gioco direttamente in impresa durante la formazione. Che possibilità apriamo ai nostri studenti grazie alle oltre 9.000 corporate connections della scuola attivate solo nel 2021?

Partiamo col dire che i primi a mettersi in gioco siamo stati noi, che abbiamo messo a punto un modo nuovo di “misurare” le connessioni con il mondo dell’impresa che una Business School è in grado di offrire. E’ stato un modo per dare corpo ad una idea, ma allo stesso tempo rappresenta una sfida, perché una volta che si dà una misura ad un concetto, poi bisogna darsi anche degli obiettivi costanti di miglioramento.

Le possibilità che apriamo ai nostri allievi sono appunto oltre 9.000, un numero davvero impressionante, e assumono forme diversissime, dalle testimonianze in aula, ai progetti in azienda, dalle attività di recruiting, ai colleghi d’aula che sono, in tantissimi casi, essi stessi dei professionisti che, smessi i panni dello studente, tornano tutti i giorni alla loro quotidianità d’impresa. E questo è uno degli altri messaggi forti di questo Corporate Connections Report, ossia il fatto che le connessioni sono molte di più e molto più vicine di quanto a volte si può pensare, ma ci deve essere anche consapevolezza e disponibilità alla connessione.

Oltre 100 imprese hanno scelto MIP per formare le proprie risorse tra settembre 2020 e agosto 2021, periodo di riferimento del Corporate Connections Report. Come queste connessioni, prospettive ed esperienze entrano a far parte della scuola?

Questo è un numero importantissimo. Se consideriamo la durata media dei programmi dedicati alle corporate, significa che ogni giorno dell’anno ci sono circa 5 imprese che stanno contemporaneamente usufruendo dei servizi di formazione del MIP. Una sorta di “aula estesa” rispetto a quelle che tutti i giorni ospitiamo nel nostro Campus. Le ricadute sono tantissime, ma mi limito qui a citarne due.

Chi disegna i programmi formativi per il mondo corporate è chiamato a rispondere ai problemi e alle sfide per il futuro che animano le imprese e che le spingono quindi ad affidarsi a noi per la formazione. Attorno a quelle stesse sfide, testate “sul campo”, vengono poi costruiti e ridisegnati i nostri programmi open, per assicurare alle persone che frequentano i nostri corsi di avere sempre competenze future-proof.

La nostra Faculty, interagendo tutti i giorni con il mondo corporate anche per quanto riguarda le attività di formazione è continuamente esposta ad esempi, casi, testimonianze, dibattiti che diventano poi parte del suo bagaglio di competenze, e tornano in aula, anche fuori dall’azienda, per dare ulteriore valore ai nostri programmi di formazione.

Anche una Faculty di 250 docenti e una community di circa 15.000 Alumni e professionisti consente di avere accesso a centinaia di contatti aziendali. Circa 8.800 imprese sono accessibili proprio grazie agli ex studenti MIP. Come migliorerà questo dato e quelli complessivi evidenziati dal report nel corso dei prossimi anni?

Questa è la sfida principale, fare leva – ancora di più di quanto facciamo oggi – sulle relazioni delle persone che costituiscono l’ossatura e l’eredità della nostra Scuola, sia per quanto riguarda la Faculty che gli Alumni. Abbiamo tanto ancora da fare per aumentare la frequenza e l’intensità con cui gli Alumni ritornano nella nostra Scuola, ma ora abbiamo uno stimolo in più per farlo, che è appunto la misura esplicita del loro impatto sulle connessioni che possiamo garantire ai nostri allievi.

Diamoci un appuntamento nel 2022: superare quota 10.000, o almeno questa è la sfida che abbiamo intenzione di intraprendere!

Purpose Talks – Gli effetti del purposeful management: l’esperienza di Fabio Moioli

Cosa significa concretamente sposare un modello di leadership guidato da un higher purpose e capace di mettere le persone al centro?

Scoprilo durante il prossimo Purpose Talk, la seconda tavolta rotonda a tema purpose organizzata dalla nostra Business School. Potrai assistere alla testimonianza di Fabio Moioli, Head Consulting & Services di Microsoft, che condividerà la sua esperienza come manager e il percorso che l’azienda sta compiendo verso un management guidato dal purpose!

 

RELATORI

Mario Calderini, Full Professor of Management for Sustainability and Impact al Politecnico di Milano

Fabio Moioli, Head Consulting & Services di Microsoft

 

L’evento si tiene in lingua inglese.

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Il Politecnico di Milano vince la fase italiana della CFA Research Challenge 2022

Cinque ingegneri della School of Management battono Federico II di Napoli e l’Università degli Studi di Pavia con l’analisi finanziaria di Reply e si preparano alla regionale EMEA. La finale globale si terrà il prossimo 16 maggio.

 

Il team della School of Management del Politecnico di Milano vince la finale italiana della CFA Research Challenge 2022, competizione mondiale di finanza targata CFA Institute e promossa nel nostro Paese da CFA Society Italy con il prezioso supporto di FactSet Italia e Kaplan Schweser.

La finale si è svolta in presenza nell’headquarter milanese di Reply martedì 1° marzo e ha visto il coinvolgimento di dieci atenei, 50 studenti e oltre 30 professionisti. Alla fase italiana, coordinata da CFA Society Italy, hanno partecipato i team rappresentanti le seguenti università: Università Cattolica, Politecnico di Milano, Ca’ Foscari di Venezia, Università di Roma Tor Vergata, Università di Firenze, Università di Bologna, Libera Università di Bolzano, Università di Pavia, Università Politecnica delle Marche e Università di Napoli Federico II.

Gli studenti Gianluca Dente, Alberto Gegra, Andrea Rampoldi, Alessandro Criniti e Francesco Saverio Pirolo, sotto la guida dei docenti Laura Grassi e Marco Giorgino e del mentor CFA Alberto Mari, hanno presentato la loro analisi finanziaria sul titolo di Reply a una giuria di sei esperti del settore finanziario: Mauro Baragiola, Luca Forlani, CFA, Marco Greco, Paolo Perrella, CFA, Patrizia Saviolo, CFA, e Carla Scarano. Il secondo e terzo posto sono stati assegnati rispettivamente l’Università di Napoli Federico II e l’Università degli Studi di Pavia.

Il Politecnico di Milano proseguirà direttamente per la finale regionale EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa), che si terrà il prossimo 28 aprile. A testimonianza dell’elevata qualità dei nostri studenti e dei professionisti che li seguono, già nel 2011, 2014 e 2016 l’Italia si è aggiudicata la finale regionale EMEA.
La finale mondiale, invece, si disputerà il 16 maggio 2022, mettendo a confronto i vincitori di EMEA, America e Asia Pacifico, e i vincitori verranno ufficialmente proclamati il 17 maggio 2022.

“CFA Society Italy, nella sua attività pluriennale, ha costruito un’intensa relazione con le università italiane per promuovere i principi di integrità ed eccellenza professionale presso le giovani generazioni”. Ha affermato il coordinatore del progetto, Giuseppe Quarto di Palo, CFA. “Siamo felici di poter offrire alle università e ai loro talenti l’opportunità di misurarsi in una competizione realistica, volta a riprodurre l’esperienza di un ufficio in ricerca di società di gestione o di case di investimento. Ai migliori studenti offriamo, inoltre, borse di studio per accedere al Programma CFA, al fine di ottenere una certificazione globalmente riconosciuta nel settore finanziario”.

La Research Challenge è una iniziativa che incanala verso obiettivi importanti nel mondo della formazione e delle accademie. Diventa sempre più rilevante avvicinare gli studenti al mondo del lavoro, combinando le conoscenze accademiche con le tecniche e gli strumenti utilizzati dai professionisti del settore finanziario. Inoltre, vogliamo dare risalto alle nostre eccellenze universitarie italiane a livello europeo e mondiale”. Ha commentato Giuliano Palumbo, presidente CFA Society Italy. “Questo progetto non potrebbe esistere senza il prezioso contributo dei volontari dell’associazione e dei partner che hanno sostenuto l’iniziativa FactSet, Kaplan Schweser e Reply, società oggetto di ricerca da parte degli studenti”.

Michael Jordan sosteneva che il talento fa vincere le partite, ma l’intelligenza e il lavoro di squadra fanno vincere i campionati. Mi congratulo con gli studenti del Politecnico di Milano che hanno dimostrato non solo competenze tecniche sopra la media, ma anche e soprattutto affiatamento e spirito di cooperazione mirati a raggiungere la vittoria finale” ha sottolineato Stefano Di Rosa, CIIA, Senior Sales Rapresentative di FactSet Italia, sponsor dell’edizione italiana della CFA Research Challenge dal 2016.

Anno dopo anno la competizione permette ai migliori talenti delle università italiane di mettersi alla prova con professionisti di altissima caratura, di approfondire i fondamentali dell’equity research, di sviluppare soft skill e di confrontarsi tra di loro”. Hanno commentato i docenti del Politecnico di Milano, Laura Grassi, Assistant Professor of Investment Banking, e Marco Giorgino, Full Professor of Financial Market and Institutions. “Siamo molto orgogliosi della vittoria della nostra squadra, che ripaga dei grandi sacrifici i nostri cinque membri, e che a loro volta li rende un riferimento per i futuri colleghi/e del prossimo anno. Questo è per loro il miglior ingresso nel mondo professionale e per il nostro ateneo un ulteriore riconoscimento della nostra qualità. Ora guardiamo all’EMEA, con voglia, impegno e desiderio di replicare il medesimo risultato”.

La CFA Research Challenge è stata sicuramente la sfida più dura della nostra vita, e allo stesso tempo l’esperienza più stimolante sia a livello professionale che a livello personale. È stata un’opportunità incredibile che ci ha permesso di lavorare a stretto contatto con il nostro mentor CFA Alberto Mari, e con i nostri docenti Laura Grassi e Marco Giorgino, che ringraziamo di cuore. Ringraziamo anche la CFA Society Italy per aver reso possibile tutto questo e non vediamo l’ora di portare alto il nome del nostro paese in EMEA” queste sono le prime parole espresse dopo la vittoria dal team del Politecnico di Milano.

 

Che posto occupa la responsabilità sociale nel percorso di un career leader?

“Responsible Career Leader”, ci insegna questa rubrica, è chi riesce ad anticipare, progettare e gestire lo sviluppo della propria carriera. È dunque Responsible in quanto chiamato a governare in prima persona la trasformazione delle occasioni di cambiamento in opportunità per il proprio percorso di crescita professionale.

Ma cos’altro cela il termine Responsible? A chi e di cosa risponde un Career Leader responsabile?

Spesso siamo portati a pensare che agire responsabilmente sia andare oltre i “confini del proprio orto”, quindi fare del volontariato nel tempo libero, andare al lavoro in bicicletta, evitare le bottiglie di plastica e compensare le emissioni di CO2 piantando alberi. Oppure, cambiare carriera dopo anni di profit e andare a lavorare nel Terzo Settore. Tutte scelte assolutamente encomiabili ma, muovendosi in questi termini, il rischio è di considerare incompatibili efficacia, efficienza e produttività con la possibilità di abbracciare i valori etico-sociali.

Ma esiste una accezione di responsabilità, per la quale il successo del proprio percorso professionale – e i legittimi vantaggi che da quest’ultimo ci si può aspettare – possano dialogare produttivamente con ciò che sta “fuori dall’orto”? Sì, se iniziamo ad allargare i confini. A partire dall’intendere il nostro successo non come sostantivo (“ho raggiunto un buon esito / un buon livello”), ma come verbo (“ho fatto accadere qualcosa di valore nel contesto in cui ho lavorato”).

In questi termini possiamo dire che una “vera” carriera di successo è quella che offre un contributo alla propria comunità: ogni ruolo professionale infatti – che sia entrepreneur, executive, manager, expert –attraverso le proprie scelte di carriera, può contribuire a sviluppare le risorse e le competenze della comunità in cui opera, a partire dall’evidenza che saranno queste stesse risorse e competenze che renderanno l’orto di cui sopra ancora più rigoglioso, ampio, produttivo e legittimato.

Come ci insegna l’ormai planetario movimento delle B-Corp, “Fare Impresa” in questi termini vuol dire superare l’antitesi tra vantaggio personale – o aziendale – e interesse generale. O tra “obiettivi di business” e senso civico. Le ore passate in ufficio (o connessi in smart working) possono essere un’occasione per contribuire alla comunità tanto quanto l’adoperarsi nel volontariato nel weekend.

Infatti, esercitare il ruolo che si ricopre in azienda tenendo conto delle implicazioni delle proprie azioni sugli altri e sulla collettività, è già un’operazione di responsabilità sociale. Citando Edward Schultz, ex CEO di Starbucks: “L’impresa è responsabilità sociale e la responsabilità sociale è l’impresa”.

Quindi come operazionalizzare questo salto culturale e di metodo, passando da una mentalità da stakeholder – portatore di interessi particolari e specifici, talvolta in competizione con quelli di altri – a una da communityholder (Turchi, Gherardini 2014) – ovvero risorse che possono far crescere la propria comunità?

Si può riassumere in 3 step:

DEFINIRE IL PURPOSE CHE DIREZIONA LA CARRIERA

Il primo passo consiste nello scegliere le domande che poniamo a fondamento del nostro percorso di carriera. Si tratta di chiedersi ‘a quale cambiamento un lavoratore della mia epoca può contribuire?’. Se gli esiti da “stakeholder” – raggiungere un certo livello di carriera, incrementare il proprio stipendio ecc – sono vantaggi che si raccolgono lavorando nel proprio orto, il Career Leader che si muove da Communityholder va oltre il suo recinto e si chiede: “cosa posso offrire alla comunità attraverso le mie competenze? Quali competenze posso sviluppare per incrementare ulteriormente il contributo che offro?”. Domande che consentono di intrecciare il proprio percorso professionale con le esigenze che la comunità esprime e a cui come cittadino, attraverso la propria “carriera”, può contribuire a rispondere. E, come detto sopra, questo non significa contrapporsi all’interesse personale. Per fare un esempio, si pensi a Salvatore Aranzulla, un imprenditore digitale che attraverso la sua idea di business ha “istruito” milioni di italiani ad interagire con la tecnologia. Aranzulla ha offerto il proprio contributo per la digital transformation della comunità ben prima che questa fosse “mainstream”, rendendo accessibili informazioni preziose per una comunità che si stava rapidamente digitalizzando, in un momento storico in cui le competenze informatiche erano appannaggio di pochi. E ha scelto di farlo ben prima di definire quali vantaggi personali poteva trarne: ha iniziato all’età di 12 anni la sua attività e forse non immaginava il fatturato milionario che avrebbe raggiunto

COSTRUIRE E CURARE UNA SQUADRA

Come descritto in un precedente articolo, “anche il più solitario dei viaggi è il prodotto di una catena di interazioni e collaborazioni di una moltitudine di persone che hanno investito in quel viaggio risorse, strumenti, competenze”. Nel momento in cui si progetta o modifica la propria carriera in un’ottica Career Leader Communityholder, non si è mai soli: ci sono attori della comunità che hanno il mandato di contribuire a tale processo e che, corresponsabilmente, si è chiamati a sollecitare. In questo senso, un docente può essere consultato come esperto di settore per ragionare insieme su un tema o un trend emergente, su cui ha maggiore visibilità grazie al suo ruolo, e su cui si avrebbe una visione e una conoscenza parziale se si guardasse solo nel proprio orto. Contemporaneamente un consulente di carriera può essere coinvolto per condividere, grazie alle sue competenze e ad un “punto d’osservazione” differente, una rilettura del proprio percorso professionale e delle proprie competenze, volta a costruire un cambiamento o uno sviluppo lavorativo. Allo stesso modo il professionista che si è interfacciato con docente e consulente, non posizionandosi da mero fruitore stakeholder, mette a disposizione dati ed elementi del suo percorso (di cui rimane massimo esperto) che diventeranno la base di un ragionamento comune. In questo senso le interazioni non sono gestite nella logica del solo proprio interesse: in ogni interazione si è anche, sempre, contributori. Un Career leader stakeholder chiede, aspetta, definisce che solo l’altro è portatore di un contributo. Un Career leader communityholder è giocatore di una squadra, responsabile nel contribuire insieme agli altri al buon esito della partita

SAPER VALUTARE IL CONTRIBUTO

Quanto le scelte di carriera stanno portando contributo alla comunità? Ancora una volta serve prendere le distanze dai luoghi comuni che potrebbero intendere come “Responsible” una carriera orientata dalla domanda ‘quel ruolo o quell’azienda, mi consente di fare del bene?’, dando per assodato che una certa struttura organizzativa o mission aziendale diano garanzia di generare un impatto positivo per la comunità.

Una carriera Responsible, che vada oltre, si orienta con la domanda ‘al di là della tipologia di organizzazione per cui lavoro o potrei lavorare, quanto nel farlo contribuisco a rispondere alle esigenze comunitarie?’.

Per costruire una risposta serve dotarsi di indicatori che offrano dati su quanto si sta contribuendo alla comunità attraverso la propria carriera. Ad esempio, i dati messi a disposizione a chi redige il Bilancio sociale e di sostenibilità di un’organizzazione e che ci dicono se e in che modo si sta generando valore per la comunità, a partire dall’engagement della comunità stessa (geografica ma anche virtuale) nel leggere risorse ed esigenze. Ma anche le verifiche periodiche dei singoli reparti o ruoli, ci informano se oltre ai traguardi economici raggiunti si siano raccolti dei dati anche sulle implicazioni di questi al di fuori delle proprie mura. Le ulteriori connessioni che si generano tra l’essere responsible e il contribuire alla comunità le leggeremo nell’articolo che uscirà ad aprile, in cui si affronterà lo sviluppo di carriera in chiave di sostenibilità.

Concludendo, il successo di una carriera sta nel ‘far succedere’, quotidianamente e in qualsiasi assetto lavorativo, cambiamenti che contribuiscono a rispondere ad esigenze trasversali della comunità in cui il Career Leader Communityholder vive ed opera. Ponendosi quelle domande, da soli e in squadra, che consentano di andare oltre il proprio sguardo, e ben sapendo che se oggi “coltivo” valore per la comunità, domani potrò raccoglierne i frutti anche nel mio orto.

I cittadini la sanno più lunga?

Un team di scienziati hanno chiesto ai cittadini di valutare l’impatto sociale e scegliere quale ricerca sostenere. Ecco cos’hanno scoperto.

 

Diletta Di Marco, PhD Student in Management Engineering – Innovation and Public Policy 

La scienza si adopera per migliorare le condizioni dell’Umanità e della natura. Tuttavia, non è sempre facile capire come individuare la ricerca capace di soddisfare le esigenze più impellenti. Per tanto tempo la direzione della scienza è stata decisa unicamente da scienziati professionisti mediante peer review. Esistono però nuove iniziative di democrazia partecipata che stanno tentando di assecondare il desiderio dei cittadini di assumere un ruolo attivo nelle decisioni importanti in ambito scientifico. Ad esempio, un’amministrazione locale danese ha chiesto ai cittadini di scegliere tramite votazione online i progetti di ricerca medica da finanziare.[1] Anche il Canadian Fathom Fund ha scelto di finanziare gli scienziati che presentano i propri progetti su piattaforme di crowdfunding e che raccolgono online almeno il 25% del budget prefissato.[2] 

In un mondo che affronta sfide sociali, ambientali ed economiche senza precedenti, l’idea alla base di queste iniziative è quella di coinvolgere i destinatari principali dei problemi e delle loro conseguenze – ossia i cittadini.

Mentre gli scienziati, gli istituti di ricerca e i finanziatori stanno sperimentando nuove modalità per collaborare attivamente con i cittadini, una delle perplessità è il fatto che la definizione di questione ad alto impatto sociale è problematica e soggettiva. Inoltre, il meccanismo utilizzato per coinvolgere attivamente i cittadini nel processo di definizione dell’agenda può generare preconcetti oppure conferire un’influenza sproporzionata ai gruppi più ricchi e potenti.

Per queste ragioni, la valutazione dell’impatto della ricerca è fonte di emozione per scienziati professionisti, agenzie finanziatrici e politici: ognuno di essi desidera individuare nuovi criteri per giudicare la sostenibilità e il valore della ricerca. Questi integrano quelli tradizionali, più incentrati su prerequisiti quali età, genere, esperienze pregresse nella ricerca e nei progetti nello stesso campo di ricerca.

Nel tentativo di esaminare quest’area tanto importante quanto inesplorata, un team di ricerca della nostra School of Management ha studiato le modalità con cui l’opinione pubblica valuta l’impatto sociale e sceglie di concedere o rifiutare il sostegno alla ricerca scientifica. Il team è composto da Chiara Franzoni e Diletta Di Marco del Politecnico di Milano, in collaborazione con Henry Sauermann di ESMT Berlin.

Il team ha selezionato quattro autentiche proposte di ricerca che hanno raccolto attivamente dei fondi sulla piattaforma Experiment.com. I progetti riguardavano settori molto diversi, e spaziavano dagli studi ambientali sulla diffusione delle lontre in Florida, passando per studi sociali sull’orientamento sessuale e i divari di retribuzione, fino a studi per la ricerca di una cura per la malattia di Alzheimer e il Covid-19. Hanno reclutato oltre 2300 cittadini su Amazon Mechanical Turk e chiesto loro di valutare uno dei quattro progetti in base ai tre criteri normalmente utilizzati nella valutazione delle ricerche: i) impatto sociale, ii) merito scientifico e iii) qualifiche del team.
Successivamente, hanno chiesto ai cittadini se avevano un interesse o un’esperienza diretti del problema che la ricerca stava tentando di risolvere (es. un familiare affetto dalla malattia di Alzheimer in fase di valutazione di un progetto che studiava una cura per l’Alzheimer), e infine hanno chiesto ai cittadini se il progetto in questione andasse finanziato o meno. A tale scopo, hanno utilizzato due meccanismi di voto differenti: i) una raccomandazione semplice e gratuita a finanziare o meno il progetto (voto senza costi) e ii) una piccola donazione destinata al progetto (voto con costi), che i valutatori potevano effettuare scegliendo di non incassare un bonus da 1 USD fornito dal team. Alla fine della giornata, il team ha quindi devoluto i bonus donati a progetti di ricerca autentici.
Il team ha poi analizzato le risposte con modelli statistici ed econometrici, come pure con una codifica qualitativa delle risposte testuali.

Le analisi hanno rivelato tre risultati fondamentali:

  1. In primo luogo, i cittadini hanno posto una forte enfasi sull’impatto sociale. Erano più propensi a sostenere un progetto se gli attribuivano un impatto sociale elevato, anche se a loro avviso il merito scientifico o le qualifiche del team erano ridotti. Un’analisi complementare delle opinioni fornite sotto forma di risposte aperte ha corroborato la suddetta prospettiva. I cittadini tendevano a concentrarsi sull’importanza percepita del problema (es. dimensione della popolazione interessata, gravità del problema), prestando meno attenzione alla capacità del progetto di risolvere il problema.
  2. In secondo luogo, il sistema di voto adottato ha influenzato notevolmente la composizione dei votanti. Il voto con costi ha fatto sì che a votare fossero persone con un livello d’istruzione e di reddito superiori. Se ne deduce che i meccanismi che impongono anche solo un piccolo costo personale spingeranno i cittadini coinvolti a rinunciare ai vantaggi dell’inclusione e della rappresentatività.
  3. In terzo luogo, i cittadini che avevano un interesse personale nel problema affrontato dal progetto erano più propensi a votare a favore del progetto, indipendentemente dal meccanismo di voto utilizzato (con o senza costi). Tuttavia, non sembravano sopravvalutare le aspettative in termini di impatto sociale del progetto. Di conseguenza, il crowdsourcing può conferire un potere maggiore a gruppi di interesse e membri dell’opinione pubblica con interessi personali nella ricerca. Al tempo stesso, persino i cittadini con un interesse personale nel progetto sembravano essere in grado di valutare l’impatto sociale in modo oggettivo, se veniva loro richiesto di farlo indipendentemente dall’espressione del proprio sostegno al progetto stesso.

Le scoperte di questo ampio progetto di ricerca contribuiscono al progresso del dibattito accademico in varie aree, tra cui la gestione delle comunità online (facendo luce sulla correlazione tra i meccanismi di voto, l’auto-selezione e la letteratura che confronta il pubblico e i contributi degli esperti con il finanziamento scientifico).
Soprattutto, tali scoperte hanno un’utilità pratica e immediata per politici, agenzie finanziatrici e gruppi d’interesse che lavorano per promuovere la democrazia partecipata.

Considerando che i tradizionali meccanismi di finanziamento della ricerca così come quelli di revisione si concentrano su ciò che potrebbe andare storto e non dedicano la giusta attenzione ai potenziali vantaggi, questi risultati indicano che le valutazioni dell’impatto sociale da parte dei cittadini non sono necessariamente “migliori”, tuttavia potrebbero fornire una prospettiva diversa e potenzialmente complementare.

 

[1] https://www.sdu.dk/da/forskning/forskningsformidling/citizenscience/afviklede+cs-projekter/et+sundere+syddanmark Accesso effettuato il 15 novembre 2021.

[2] https://fathom.fund/ Accesso effettuato il 15 novembre 2021.

Symplatform 3: la conferenza sulle piattaforme digitali

Nei giornali, nelle nostre riunioni e nei feed di LinkedIn c’è una parola che ricorre sempre più spesso: piattaforma.

Che sia un nuovo scandalo a carico di una delle grandi big tech, la nuova strategia di innovazione di un grande gruppo industriale…o semplicemente un nuovo servizio digitale, la parola piattaforma appare in qualunque settore.

Ma cosa vuol dire veramente piattaforma? Cosa hanno in comune Uber, Amazon, Apple…e un qualunque quotidiano? O ancora, perchè è corretto considerare un’app come Strava, il famoso servizio per fare tracking delle proprie performance sportive, una piattaforma? Questi e tanti altri temi sono al centro di Symplatform: l’evento in cui la conoscenza accademica incontra il mondo dei professionisti per costruire una discussione critica su cosa sono le piattaforme, come funzionano e cosa possono diventare per le persone, le organizzazioni e la nostra società.

Siamo felici di lanciare la terza edizione di Symplatform, un simposio sulle piattaforme digitali che si pone l’obiettivo di unire accademici e practitioners.
Symplatform è un progetto sviluppato da Trinity College Dublin, Politecnico di Milano School of Management e Audencia Business School.

Qui potete trovare un breve video che introduce la conferenza.

Il programma e la registrazione dell’evento sono disponibili a questo link: https://symplatform.com

Per maggiori informazioni potete scrivere a: daniel.trabucchi@polimi.it e tommaso.buganza@polimi.it.

Purpose Talks: al via un nuovo ciclo di eventi su Leadership e Purpose

Sostenibilità, profitto e impatto sociale possono convivere? Qual è il valore del purpose nelle scelte che un’organizzazione compie?
Ecco alcuni dei temi che tratteremo nei nostri Purpose Talks, un nuovo ciclo di eventi che, grazie agli interventi di docenti e manager, metterà al centro della discussione la necessità di aziende e organizzazioni di andare verso un nuovo modello di leadership, guidato da un higher purpose e capace di mettere le persone al centro.

Un cambiamento di cui, come Business School, vogliamo essere promotori ispirando e guidando i leader di domani.

Di seguito i dettagli del primo appuntamento

 

Giovedì 17 febbraio | H 18.00

Purpose Talks: lo “scopo” come driver di business

Cosa vuol dire essere un’azienda purpose-driven? Quali sono i vantaggi e come tali società saranno in grado di ridefinire il modo di fare business? Per rispondere a queste domande, non perdere la tavola rotonda organizzata dalla business school Politecnico di Milano.

Relatori Antonella Moretto, Associate Dean for Open Programs al MIP Politecnico di Milano

Alex Edmans, Professore ordinario di Finance alla London Business School e Direttore Accademico del Centre for Corporate Governance.

Darren Rudkin, Founder The Mind at Work

 

L’evento si tiene in lingua inglese:

https://www.som.polimi.it/event/perche-le-aziende-purpose-driven-performano-meglio-delle-altre-17022022/