I Venture Capitalist in Italia? Sono molto prudenti, 8 volte su 10 puntano sull’imprenditore invece che su tecnologia e prodotto


I risvolti italiani di una survey sulle pratiche dei VC di diversi Paesi europei condotta da 8 prestigiose Business School

 

I Venture Capitalist italiani sono molto più prudenti di quelli statunitensi e anche di quelli europei, almeno se si considerano Paesi come Francia, Germania, Belgio, Spagna, Portogallo e Svezia. Concedono finanziamenti valutando quasi esclusivamente la storia – di successo – dell’imprenditore e poco o nulla il prodotto, la tecnologia e il mercato che vengono loro proposti, quando operano in sindacato lo fanno in prima battuta per condividere i rischi (46,4% dei casi), nelle decisioni sugli investimenti cercano l’unanimità una volta su due e preferiscono venire remunerati con bonus finanziari annuali, meno rischiosi, piuttosto che con percentuali (in genere il 20%) sul capital gain. Sono i principali risultati relativi all’Italia di una survey condotta sulle prassi del Venture Capital europeo da un consorzio di prestigiose Business School del Vecchio Continente, tra cui la School of Management del Politecnico di Milano: Audencia Business School, Vlerick Business School/Ghent University, London Business School, Stockholm School of Economics, Universidad Complutense de Madrid e Univiersité du Luxembourg.

Nel 2020 è stata pubblicata una ricerca autorevole che fotografava le pratiche dei Venture Capitalist statunitensi. – spiega Massimo Colombo, docente di Finanza imprenditoriale alla School of Management del Politecnico di MilanoCi siamo chiesti se gli investitori europei si comportassero allo stesso modo o se – viste le differenze storico-istituzionali, la dimensioni inferiore del mercato, ad esempio in Italia, o la diversa governance – ci fossero differenze significative. Abbiamo quindi proposto un questionario simile a tutti i Venture Capitalist noti in Italia, Francia, Germania, Belgio, Spagna, Portogallo e Svezia e abbiamo raccolto 885 risposte (corrispondenti al 44% dell’ammontare degli investimenti di VC nel 2022) di cui 44 italiane, pari a una simile percentuale sul totale”.

Stando all’indagine, in Italia si ricevono molte meno proposte che in Europa: all’investitore italiano “tipico” ne sono state sottoposte circa 400 negli ultimi 12 mesi, contro le 500 dell’Europa. Tuttavia, gli investitori italiani ne accettano una su 43 invece che una su 51, finendo per essere meno selettivi. E il fattore chiave per decidere se concedere o meno il capitale è sostanzialmente il team imprenditoriale: infatti, 8 volte su 10 investono su chi ha già dimostrato di avere una storia – imprenditoriale o manageriale – di successo. “Anche in Europa si considera l’imprenditore, il joker, più dell’horse, il cavallo, rappresentato da tecnologia, prodotto e mercato – commenta il Prof. Colombo -, ma se in quel caso le percentuali sono 53,1% contro 27,6%, in Italia si sale addirittura a 81,6% contro 7,9%. Anche il fit fra investitore e startup e il valore aggiunto che il VC può apportare hanno scarsa importanza (5,3%) mentre in Europa valgono fino al 12%”.

Ancora, nel team imprenditoriale gli investitori italiani valutano soprattutto la passione e il commitment (28,9%) e l’esperienza settoriale (23,7%), cui attribuiscono un peso decisamente superiore rispetto ai colleghi europei, che apprezzano di più la competenza (28,2%) e non tralasciano l’esperienza imprenditoriale (19,3%).

Quanto al valore aggiunto del VC, anche gli italiani, come gli europei, forniscono il maggior supporto alle startup nella creazione di legami con fornitori, clienti e partner, nelle acquisizioni e nel monitoraggio come membri del CdA. Il supporto strategico e operativo, invece, è meno frequente.

Raramente un Venture Capitalist investe da solo, in genere preferisce investire attraverso un sindacato, ma se in Europa lo fa per trovare competenze complementari (38,5%) e in misura minore per condividere il rischio (28,8%), in Italia quest’ultimo aspetto diventa nettamente preponderante (46,4%), mentre le competenze complementari pesano solo per un terzo. La necessità di superare vincoli di capitale scende poi dal 22,4% europeo al 14,3% (in Italia di solito i round sono di entità inferiore).

Nello scegliere i partner del sindacato, la reputazione e i passati successi sono il fattore determinante, sia in Italia (45,1%) che, in egual misura, in Europa (44,9%), mentre l’esperienza settoriale conta decisamente di più in Italia (35,5% contro 22,5%). Al contrario, le precedenti collaborazioni hanno minor peso (3,2% contro 11,5%). Quando poi si tratta di scegliere su quali startup puntare, gli investitori italiani perseguono nella metà dei casi l’unanimità (contro il 32,8% europeo), mentre in Europa si vota a maggioranza (37,6% contro 35%) e la ricerca del consenso pesa addirittura il doppio (25,9% contro 12,5%).

Il venture capital al tempo del Covid: nel mondo un fondo di investimento su due ha cambiato le proprie strategie, in Italia “solo” il 38,5%

Nasce il Bureau of Entrepreneurial Finance (BEF), un centro permanente voluto dalla School of Management del Politecnico di Milano e dal Politecnico di Torino per mettere in rete gli studiosi e i player più accreditati a livello europeo sulle tematiche di finanza imprenditoriale.

 

Oltre 500 le risposte alla survey, pervenute nella seconda metà del 2021 soprattutto da operatori europei e nordamericani: ora si tende a investire in momenti più avanzati del ciclo di vita delle startup, per abbassare il livello di rischio, e a privilegiare settori come l’healthcare, l’energia e il farmaceutico, spinti dalla pandemia


Milano, 9 maggio 2022 – La finanza imprenditoriale al tempo del Covid19. Come la pandemia ha colpito duramente molti aspetti dell’economia globale, imponendo alle imprese di rimodellare i processi interni per non uscire dal mercato, così ha spinto i venture capitalist ad adattare al mutato scenario le proprie pratiche di investimento, ad esempio investendo in momenti più avanzati del ciclo di vita delle startup o privilegiando  settori come la cura della salute, l’energia e l’ambiente, il farmaceutico e i servizi finanziari a scapito dei servizi digitali e della distribuzione commerciale.

Sono alcune delle evidenze sottolineate dal Report sul Venture Capital e il Covid19 che è stato presentato questa mattina al Politecnico di Milano durante il lancio del Bureau of Entrepreneurial Finance (BEF), un centro permanente voluto dalla School of Management del Politecnico di Milano e dal Politecnico di Torino – co-fondato dai professori Massimo Colombo, Annalisa Croce, Elisa Ughetto e Vincenzo Butticè – che vuole mettere a confronto e in rete gli studiosi e i player più accreditati a livello europeo sul tema della finanza imprenditoriale.

Al sondaggio, effettuato nella seconda metà del 2021, quindi nel pieno della ripresa economica post-Covid ma quando già cominciavano i rincari legati alle materie prime e all’energia, hanno risposto oltre 500 fondi, con un’ottima copertura di quelli europei (che hanno aumentato gli investimenti del 2%) e nordamericani (che invece li hanno diminuiti dell’1%).

A livello globale, un fondo su due (52%) ha dichiarato di avere cambiato le proprie strategie di investimento dopo il Covid, anche solo moderatamente. Percentuale che risulta ben più bassa per i fondi europei (che non hanno modificato nulla nel 57% dei casi) e ancor di più (61,5%) per quelli italiani, probabilmente in ragione del fatto che tendono maggiormente a investire cross-border, cioè non nel Paese di appartenenza (il 90,2% di chi fa investimenti cross-border – in Italia l’83,5% – non li ha ridotti a favore di interventi domestici).

Un altro aspetto interessante è la diminuzione del numero di investimenti in seed stage, e più in generale nelle fasi iniziali del ciclo di vita della startup, a favore di momenti di sviluppo più maturi (si va dal +1,2% dell’early e late stage al +4,4% nel mid stage), tendenza maggiormente evidente nei fondi più piccoli.

“È aumentata ovunque l’incertezza e dunque gli investitori preferiscono traslare il focus di investimento verso imprese più mature e con un profilo di rischio più contenuto – spiega Elisa Ughetto del Dipartimento di Ingegneria Gestionale e della Produzione del Politecnico di Torino, tra i curatori dello studio e co-direttrice del BEF insieme ad Annalisa Croce del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano -. Inoltre, sempre in risposta ai cambiamenti repentini di questi ultimi anni, gli investitori si fidano meno che in passato del loro istinto (gut feeling) e nelle decisioni si basano maggiormente su aspetti oggettivi, come l’ambiente economico favorevole, il business model, gli eventuali incentivi pubblici”. “Sono anche cambiate le strategie di investimento – aggiunge Annalisa Croce -: ora si prediligono settori industriali che hanno avuto buone performance durante la pandemia, come l’healthcare e il farmaceutico, mentre risultano in calo settori tradizionalmente oggetto di ingenti investimenti da parte di fondi di venture capital come il settore ICT”.

I settori che hanno visto aumentare gli investimenti sono la cura della salute (+2,4%), l’energia e l’ambiente, il farmaceutico e i servizi finanziari (tutti a +1%), la formazione e i semiconduttori (+0,6), mentre risultano in calo i servizi digitali (-1,4%), inclusi quelli legati a internet e mobile (-1%), e la distribuzione commerciale (-1,6%).

I fondi hanno anche ridotto le proprie aspettative sui ritorni attesi (IRR) e sono diventati più severi, in termini di multiplo richiesto, nel valutare le startup. In sostanza, si assumono un rischio inferiore a fronte di un ritorno atteso più basso (-1.3% in media): la fascia maggioritaria, pur in calo di due punti percentuali, rimane con un target IRR tra il 20 e il 29%, ma non manca, ed è in leggerissima crescita, chi si aspetta un guadagno tra il 40 e il 50%. Persino la valutazione delle startup già presenti in portafoglio ha subìto una rimodulazione: nel 40% dei casi si è ridotta (nel 9% anche in maniera significativa) poiché, nello scenario mutato, ci si attende una diminuzione del valore al momento dell’uscita del fondo.

Un ultimo dato curioso: è aumentata di quasi un terzo (+28,4%) l’interazione dopo l’investimento fra venture capitalist e imprenditori, finalizzata a supportare la crescita della startup. Se prima ci si sentiva prevalentemente tra una e tre volte al mese, ora crescono i contatti settimanali o addirittura quotidiani.

Venture Capital: il primato di Londra

Qual è la distribuzione geografica del Venture Capital (VC) in Europa? Si concentra in poche aree preferenziali o, piuttosto, siamo di fronte ad una crescente dispersione del VC al di fuori delle grandi aree metropolitane?

 

Il Venture Capital è un’importante risorsa finanziaria per la crescita delle start-up innovative, che contribuiscono in modo significativo alla competitività internazionale di un Paese, in quanto motore essenziale di innovazione, creazione di posti di lavoro e sviluppo economico.

Conoscere la distribuzione geografica degli investimenti di VC è quindi utile per capire come si sviluppano gli ecosistemi imprenditoriali in Europa e di conseguenza costituisce uno strumento prezioso nel momento in cui si approcciano politiche di innovazione.

Attraverso l’analisi e l’interpretazione dei dati nel DATASET VICO di RISIS (European Research Infrastructure for Science, technology and Innovation policy Studies) è stato possibile descrivere i modelli di agglomerazione dell’attività di VC a livello regionale, metropolitano e industriale, e dare così una risposta a queste domande.

Lo studio, realizzato da Massimiliano Guerini, Massimo Colombo e Francesca Enrica Tenca della School of Management del Politecnico di Milano, identifica una serie di evidenze chiave.
Il Regno Unito e la Francia sono i mercati più importanti per il VC in termini numerici, mentre i Paesi dell’Europa dell’Est e Israele hanno i tassi di incidenza più elevati (deal VC/PIL). Inoltre, l’attività di VC si concentra per lo più nelle grandi aree metropolitane, con livelli di concentrazione crescenti fra il 2010 e il 2018. In particolare, la città di Londra, che rappresenta di gran lunga il principale hub per le attività di VC, fra il 2010 e il 2018 ha registrato una crescita delle suddette attività pari al +50%, contro un modesto +6% di Parigi (il secondo hub più importante), e un +23% di Tel Aviv (terzo hub in termini di attività di VC). Alcune aree più piccole in termini di attività di VC hanno registrato tassi di crescita considerevolmente elevati tra il 2010 e il 2018, fra queste Budapest (+167%), Milano (+62%) e Tallinn (+124%).

Si rilevano, inoltre, importanti differenze fra i vari settori. Il settore life science mostra una marcata dispersione dell’attività di VC al di fuori dei principali hub, soprattutto in aree caratterizzate da un’importante attività di knowledge creation. Al contrario, nei settori Software, Internet & TLC, e R&D & engineering l’attività di VC si concentra nelle grandi aree metropolitane.

I risultati dello studio hanno implicazioni politiche rilevanti in termini di democratizzazione dell’accesso al VC nelle aree più periferiche e per lo sviluppo dell’imprenditorialità e invitano al dibattito sulla strutturazione della ricerca e delle politiche di innovazione.

 

Per maggiori informazioni:
Policy Brief
https://www.risis2.eu/

Presentazione dello studio (evento online):
30 aprile 2021
ore 14.00-16.00
7th RISIS Policymakers SessionDemocratising access to smart money in EU, evidence form the VICO-DATASET