Il venture capital al tempo del Covid: nel mondo un fondo di investimento su due ha cambiato le proprie strategie, in Italia “solo” il 38,5%

Nasce il Bureau of Entrepreneurial Finance (BEF), un centro permanente voluto dalla School of Management del Politecnico di Milano e dal Politecnico di Torino per mettere in rete gli studiosi e i player più accreditati a livello europeo sulle tematiche di finanza imprenditoriale.

 

Oltre 500 le risposte alla survey, pervenute nella seconda metà del 2021 soprattutto da operatori europei e nordamericani: ora si tende a investire in momenti più avanzati del ciclo di vita delle startup, per abbassare il livello di rischio, e a privilegiare settori come l’healthcare, l’energia e il farmaceutico, spinti dalla pandemia


Milano, 9 maggio 2022 – La finanza imprenditoriale al tempo del Covid19. Come la pandemia ha colpito duramente molti aspetti dell’economia globale, imponendo alle imprese di rimodellare i processi interni per non uscire dal mercato, così ha spinto i venture capitalist ad adattare al mutato scenario le proprie pratiche di investimento, ad esempio investendo in momenti più avanzati del ciclo di vita delle startup o privilegiando  settori come la cura della salute, l’energia e l’ambiente, il farmaceutico e i servizi finanziari a scapito dei servizi digitali e della distribuzione commerciale.

Sono alcune delle evidenze sottolineate dal Report sul Venture Capital e il Covid19 che è stato presentato questa mattina al Politecnico di Milano durante il lancio del Bureau of Entrepreneurial Finance (BEF), un centro permanente voluto dalla School of Management del Politecnico di Milano e dal Politecnico di Torino – co-fondato dai professori Massimo Colombo, Annalisa Croce, Elisa Ughetto e Vincenzo Butticè – che vuole mettere a confronto e in rete gli studiosi e i player più accreditati a livello europeo sul tema della finanza imprenditoriale.

Al sondaggio, effettuato nella seconda metà del 2021, quindi nel pieno della ripresa economica post-Covid ma quando già cominciavano i rincari legati alle materie prime e all’energia, hanno risposto oltre 500 fondi, con un’ottima copertura di quelli europei (che hanno aumentato gli investimenti del 2%) e nordamericani (che invece li hanno diminuiti dell’1%).

A livello globale, un fondo su due (52%) ha dichiarato di avere cambiato le proprie strategie di investimento dopo il Covid, anche solo moderatamente. Percentuale che risulta ben più bassa per i fondi europei (che non hanno modificato nulla nel 57% dei casi) e ancor di più (61,5%) per quelli italiani, probabilmente in ragione del fatto che tendono maggiormente a investire cross-border, cioè non nel Paese di appartenenza (il 90,2% di chi fa investimenti cross-border – in Italia l’83,5% – non li ha ridotti a favore di interventi domestici).

Un altro aspetto interessante è la diminuzione del numero di investimenti in seed stage, e più in generale nelle fasi iniziali del ciclo di vita della startup, a favore di momenti di sviluppo più maturi (si va dal +1,2% dell’early e late stage al +4,4% nel mid stage), tendenza maggiormente evidente nei fondi più piccoli.

“È aumentata ovunque l’incertezza e dunque gli investitori preferiscono traslare il focus di investimento verso imprese più mature e con un profilo di rischio più contenuto – spiega Elisa Ughetto del Dipartimento di Ingegneria Gestionale e della Produzione del Politecnico di Torino, tra i curatori dello studio e co-direttrice del BEF insieme ad Annalisa Croce del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano -. Inoltre, sempre in risposta ai cambiamenti repentini di questi ultimi anni, gli investitori si fidano meno che in passato del loro istinto (gut feeling) e nelle decisioni si basano maggiormente su aspetti oggettivi, come l’ambiente economico favorevole, il business model, gli eventuali incentivi pubblici”. “Sono anche cambiate le strategie di investimento – aggiunge Annalisa Croce -: ora si prediligono settori industriali che hanno avuto buone performance durante la pandemia, come l’healthcare e il farmaceutico, mentre risultano in calo settori tradizionalmente oggetto di ingenti investimenti da parte di fondi di venture capital come il settore ICT”.

I settori che hanno visto aumentare gli investimenti sono la cura della salute (+2,4%), l’energia e l’ambiente, il farmaceutico e i servizi finanziari (tutti a +1%), la formazione e i semiconduttori (+0,6), mentre risultano in calo i servizi digitali (-1,4%), inclusi quelli legati a internet e mobile (-1%), e la distribuzione commerciale (-1,6%).

I fondi hanno anche ridotto le proprie aspettative sui ritorni attesi (IRR) e sono diventati più severi, in termini di multiplo richiesto, nel valutare le startup. In sostanza, si assumono un rischio inferiore a fronte di un ritorno atteso più basso (-1.3% in media): la fascia maggioritaria, pur in calo di due punti percentuali, rimane con un target IRR tra il 20 e il 29%, ma non manca, ed è in leggerissima crescita, chi si aspetta un guadagno tra il 40 e il 50%. Persino la valutazione delle startup già presenti in portafoglio ha subìto una rimodulazione: nel 40% dei casi si è ridotta (nel 9% anche in maniera significativa) poiché, nello scenario mutato, ci si attende una diminuzione del valore al momento dell’uscita del fondo.

Un ultimo dato curioso: è aumentata di quasi un terzo (+28,4%) l’interazione dopo l’investimento fra venture capitalist e imprenditori, finalizzata a supportare la crescita della startup. Se prima ci si sentiva prevalentemente tra una e tre volte al mese, ora crescono i contatti settimanali o addirittura quotidiani.

Dalla tecnologia al luxury, passando per il MIP: l’esperienza di Merry Le

Alumna dell’MBA, racconta il successo ottenuto alla Mark Challenge, competizione per startup nell’ambito luxury&yachting. Un risultato che passa anche dalla capacità di utilizzare al meglio le proprie skill

 

C’è una frase, attribuita ad André Citroën, fondatore dell’omonima casa automobilistica francese, che recita più o meno così: “Saper fare è nulla senza far sapere.” Perché a volte la sfida più grande non è trovare un’ottima idea e svilupparla. Può essere molto più complesso raccontarla in modo efficace, soprattutto quando si ha di fronte un pubblico variegato, con diversi background formativi. Come convincere tutti? È quanto si è chiesta Merry Le, che dopo aver frequentato il Master in Business Administration presso il MIP Politecnico di Milano è diventata business strategy lead per Moi Composites. L’azienda, uno spin off del Politecnico di Milano, opera nel mercato della stampa 3D on demand e si è aggiudicata lo Special award in Yachting nell’ambito della Mark Challenge, competizione per startup in ambito luxury. «La nostra tecnologia brevettata, la Continuous Fiber Manufacturing, permette la produzione di prodotti uniciin maniera più efficiente e economicamente più accessibile», spiega Le. «Caratteristiche che si sposano alle esigenze produttive di un settore di lusso come lo yachting, in cui la personalizzazione è ricercata. La Mark Challenge ci sembrava il palcoscenico adatto per valorizzare i vantaggi unici della nostra startup. C’era un ostacolo principale: poiché si tratta di un innovazione tecnologico, era difficile far comprendere le sfumature più tecniche».

 

L’importanza di un buon pitch

Merry Le e i suoi colleghi, tutti e quattro provenienti dal MIP e dal Politecnico, hanno così deciso di sfruttare il proprio network di conoscenze, inclusi i docenti del MIP: «Abbiamo presentato il progetto a numerose persone, per ottenere dei feedback sulla sua efficacia. Quindi abbiamo semplificato il linguaggio e reso più chiaro alcuni messaggi. La presentazione vera e propria, poi, ci ha messi di fronte a una complicazione ulteriore», racconta Le, «poiché è avvenuta nel pieno dell’emergenza sanitaria da Covid-19, così tutto si è svolto online». Ma la strategia di Moi Composites ha pagato, perché Merry Le e i suoi colleghi sono stati premiati e hanno ottenuto la possibilità di presentare il proprio pitch davanti alla commissione del Monaco Yachting Cluster. Non solo: la stessa presentazione è stata votata dal pubblico come miglior pitch. «Un successo che abbiamo ottenuto, io e miei colleghi, anche grazie ai nostri differenti background, che ci hanno permesso tanto di sviluppare un business plan solido, quanto di lavorare con una tecnologia innovativa.»

 

Il futuro del lusso tra personalizzazione e sostenibilità

Le caratteristiche del business di Moi Composites si adattano alle ultime evoluzioni del mercato del lusso in generale, e non solo dell’industria nautica: «Il trend attuale è quello della personalizzazione. I clienti cercano sempre più prodotti tagliati su misura, adatti alle loro specifiche esigenze. È una tendenza accompagnata da una richiesta sempre maggiore di sostenibilità ambientale e sociale, oltre che di circolarità», continua Le. «Sono convinta che, nonostante il Covid-19 abbia avuto un grande impatto sull’economia, e quindi anche sul luxury, siamo più preparati ad affrontare il cambiamento. La recessione del 2008 colpì all’improvviso, cogliendo tutti di sorpresa; ma proprio grazie a quella crisi le persone hanno imparato come affrontare la ripresa ea diventare più creative e più propositive».

 

La ricchezza dell’MBA

Merry Le ha frequentato il Master in Business Administration presso il MIP perché, dopo anni di carriera, sentiva il bisogno di ampliare il proprio bagaglio di competenze: «Il mondo cambia in fretta, è sempre più importante poter contare su skills che permettano di comprendere e affrontare al meglio i cambiamenti in atto». Statunitense della East Coast, dopo 14 anni nell’industria aeronautica e aerospaziale, oggi Merry Le, nel suo nuovo ruolo di business strategy lead, ha la possibilità di impiegare le conoscenze acquisite durante il master. Non solo: il project work con cui ha partecipato alla Mark Challenge le è stato proposto proprio dal MIP. E se si tiene conto che Moi Composites, con sede nella vicina cittadina di Pero, è nata grazie al supporto del Politecnico di Milano, appare evidente come l’offerta del MIP non sia limitata alla formazione, ma possa contare anche su un tessuto produttivo geograficamente vicinissimo, popolato di aziende di alto livello alla costante ricerca di professionalità altrettanto valide. «La mia esperienza è stata fantastica», conclude Le. «Consiglierei a chiunque la scelta che ho fatto. Ad attrarmi è stata soprattutto l’enfasi sul tech e sui big data, ma più in generale sentivo il bisogno di imparare qualcosa di nuovo, oltre che di migliorare e affinare le skill di cui ero già in possesso. Un ulteriore valore aggiunto è dato dall’eterogeneità della classe: gli studenti provenivano da venti Paesi differenti, e questo ci ha permesso di confrontarci con punti di vista inediti. Una grande ricchezza».

Essere imprenditori in un mondo interconnesso

Ne parliamo con Andrea Sianesi, Professore di gestione dei sistemi logistici e produttivi della School of Management
Presidente Esecutivo PoliHub, Innovation District e Startup Accelerator del Politecnico di Milano

 

Andrea, sei a capo di un incubatore, e quindi abbracci nuove idee imprenditoriali quando sono ancora nella culla. Che caratteristiche ha un buon imprenditore in questo momento storico?

Prima di tutto coraggio. E questa è la stessa risposta che avrei dato anche prima della crisi provocata da Covid-19. L’iniziativa imprenditoriale è un salto nel vuoto, e impegnare risorse e tempo per sviluppare idee richiede sangue freddo.
Oltre al coraggio, credo sia fondamentale la capacità di correggere i propri errori e far tesoro degli “inciampi” che capitano durante il percorso.

Do per scontato ovviamente la necessità di possedere conoscenze tecniche e tecnologiche che riguardano la propria impresa. L’imprenditore che passa per PoliHub, in genere, ha una solida competenza tecnologica, mentre si trova ad essere un po’ più debole sulle conoscenze legate al mondo del business. Per questo, l’imprenditore deve essere aperto a fare partnership con altre persone che possano portare all’impresa competenze complementari, come ad esempio la capacità di sviluppo del mercato, o la conoscenza del framework normativo di riferimento.
Bisogna sempre essere disponibili a farsi aiutare.

PoliHub è un incubatore universitario: perché serve l’università, e a cosa esattamente?

L’ecosistema universitario è un asset fondamentale per chi vuol fare impresa. In particolare, al Politecnico di Milano, garantiamo contemporaneamente accesso alla business school, agli hub di innovazione POLI.design e Cefriel, a migliaia di docenti e ricercatori, a laboratori che coprono tutte le discipline ingegneristiche e che sono fondamentali, ad esempio, nel processo di trasformazione di un’idea a prodotto.

E noi per questo motivo non siamo soltanto un luogo che ospita le start up: offriamo un contesto unico rispetto ad altri incubatori. Spesso, nelle start up deep tech, è necessario svolgere attività sperimentale in laboratori che di fatto si trovano solo in università, e ci sono imprese che, seguendo sviluppi tecnologici in diversi settori, hanno distaccato alcuni loro dipartimenti per venire a localizzarsi da noi. Questo consente loro di collaborare e interagire con le start up e allo stesso modo avere la stessa facilità di accesso all’hub nella sua interezza.

Questo fa la differenza e i numeri ce lo confermano. Faccio un esempio: PoliHub, assieme al TTO (Techology transfer office) del Politecnico di Milano, gestisce ogni anno Switch To Product, il programma che valorizza sul mercato soluzioni innovative, nuove tecnologie e idee di impresa proposte da studenti e laureati da un massimo di tre anni, ricercatori, alumni e docenti del Politecnico di Milano, offrendo risorse economiche e servizi consulenziali per supportare lo sviluppo dei progetti d’innovazione attraverso percorsi di validazione tecnologica e accelerazione imprenditoriale. Quest’anno la call ha avuto un incremento delle domande del 20%. Si tratta di una crescita molto significativa, che ci fa anche ben sperare nell’aumento di nuove imprese di successo.

Covid-19 ha ribaltato il tavolo, modificando i confini e gli ecosistemi di business; gli effetti potrebbero essere di breve o di lungo periodo, che cosa hai osservato in particolare a riguardo?

Negli ultimi mesi si è temuto che la pandemia potesse spazzare via il mondo delle start up, che sono impossibilitate ad accedere a forme di sussidio messe in campo per altre categorie imprenditoriali e professionali. Il problema è reale e contingente: le start up oggi si trovano in maggiore difficoltà rispetto a imprese già navigate, ma per il momento il sistema sta reggendo e sta dando anche segnali incoraggianti.

L’effetto inatteso è stato infatti un aumento della domanda di accesso ai servizi di incubazione. C’è una forte richiesta di entrare nel mondo imprenditoriale, forse dovuto anche alla presa di coscienza che ora più che mai è necessario sapersi rimettere in gioco, anche per coloro che hanno una carriera consolidata, creando nuove opportunità di reddito laddove venisse meno una stabilità lavorativa.

E l’incremento della domanda di servizi avviene non solo da parte di potenziali start up, ma anche di aziende già formate, che decidono di delocalizzarsi in uffici più piccoli e snelli situati accanto a centri di eccellenza. Una nuova tendenza forse facilitata anche dal diffondersi dello smart working, che rende di più facile gestione uffici piccoli rispetto a sedi più grandi.

Dipingi un quadro con diverse opportunità all’orizzonte. Quali sono quindi i programmi futuri di Polihub?

La sfida per noi rimane quella di trovare le risorse che possano accompagnare le start up dall’idea, e quindi dall’università, con il suo fermento e la disponibilità di risorse legate a progetti europei e grant, a fondi e investitori disponibili a sostenerle in tutta la fase della loro crescita.

Mi piace visualizzare il processo come l’attraversamento di una valle: le start up hanno bisogno di un “ponte” tra le due fasi, di un accompagnamento che permetta loro di avere le risorse necessarie per rendere la loro idea interessante per gli investitori.
E affinchè l’idea sia interessante necessita di due elementi: dimostrarsi solida e verificata dal punto di vista tecnico, e avere un mercato target a cui rivolgersi.

Spesso le prove tecniche richiedono già investimenti considerevoli e tempi lunghi: noi ci impegniamo per far sì che questo “ponte” sia efficace, e possibilmente breve, rispetto agli obiettivi.

Il nostro progetto per il futuro è quindi quello di lavorare certamente per reperire investitori istituzionali e venture capital, ma con un approccio di ampio respiro che contempli il contesto internazionale e non solo una esposizione domestica delle nostre start up.

Abbiamo intenzione di pensare in logica internazionale, non solo per quanto concerne la parte finanziaria, ma anche per quanto riguarda l’uso di tutti i possibili asset messi a disposizione dal network degli incubatori di eccellenza su scala mondiale.

Siamo certi che mettere a fattor comune queste capacità ci permetterà di fare davvero la differenza.

Il futuro delle Business School tra innovazione e imprenditorialità

Il contesto in cui competono le business school di tutto il mondo è oggetto di una profonda e rapida trasformazione. La necessità di formazione manageriale sempre più specialistica, la competizione da parte di nuovi attori e, non ultima, la necessità di ridefinire il proprio contributo per la costruzione di un futuro più inclusivo e sostenibile, obbligano un ripensamento dei propri modelli operativi e di business.
Quali sono le trasformazioni da mettere in atto nell’ottica di una maggiore imprenditorialità e capacità innovativa delle business school?

 

Federico Frattini, Dean MIP-Graduate School of Business, Politecnico di Milano

Il contesto in cui competono le business school di tutto il mondo è oggetto di una profonda e rapida trasformazione, che determina la necessità di ripensare profondamente la sostenibilità del modello di business e del modello operativo “classici” delle business school.

Alcuni dei trend che si sono manifestati con più forza nel corso degli ultimi anni sono lo spostamento della domanda di formazione manageriale da programmi di “general management” a programmi “specialistici”, e una competizione sul mercato della formazione manageriale che si sta enormemente accentuando come conseguenza dell’ingresso di nuovi player. Da un lato infatti, le società di consulenza e di executive search stanno espandendo la loro offerta includendo servizi di formazione a sviluppo del capitale umano. Dall’altro, nuovi player “edtech” si stanno prepotentemente affacciando sul mercato della formazione, e i colossi globali della tecnologia (si pensi ad esempio a Microsoft, Google, Amazon) stanno sempre più seriamente considerando il mondo della formazione come una possibile nuova frontiera per sostenere i loro tassi di crescita.
La domanda di servizi di life-long learning sta crescendo rapidamente, anche per effetto della sempre più rapida obsolescenza delle competenze che vengono apprese nei percorsi di formazione manageriale “classici”; le attività extra-curriculari e quella che possiamo chiamare “campus life” stanno assumendo una crescente rilevanza nelle scelte degli studenti; infine, si rileva una “crisi” del valore sociale attribuito alle istituzioni accademiche, che stanno rapidamente perdendo reputazione, specialmente agli occhi delle generazioni più giovani.

Oltre a queste trasformazioni, ve ne sono altre che sono state profondamente accelerate dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus. Da un lato, le business school dovranno ridefinire il loro “purpose” e chiarire il contributo che intendono e sono in grado di dare nella costruzione di un futuro più inclusivo e sostenibile. Dall’altro, non potranno più ritardare l’avvio di un profondo processo di digitalizzazione dei loro processi e delle loro modalità ed approcci didattici.

Rispondere a queste sfide richiede un profondo ripensamento del modello di business delle business school. Alcuni dei cambiamenti più rilevanti che dovrebbero essere attentamente considerati dalla leadership delle business school in tutto il mondo sono i seguenti: da un focus sul trasferimento di competenze “disciplinari” a competenze “trasversali”, tra cui l’imprenditorialità, le digital skills, la sostenibilità, il critical thinking; da modelli di formazione “separata dalla pratica” a formazione “hands-on” e basata su una crescente contaminazione con la pratica manageriale ed imprenditoriale; da approcci alla formazione “uniformi per popolazioni omogenee di studenti”, a formazione “personalizzata”, in ottica “one-to-one”; da formazione “intermittente” e concentrata nel tempo, a formazione “on demand”, e continuamente mescolata all’attività professionale ed alla vita privata degli studenti; da formazione face-to-face vs. digitale, a modelli di formazione “omnicanale”; dal focus sulla produzione di conoscenza attraverso la ricerca ed il suo trasferimento attraverso il proprio portafoglio di prodotti formativi, alla ricerca ed integrazione della conoscenza disponibile al di fuori dei confini della business school (si pensi ad esempio alla disponibilità di contenuti di formazione di alta qualità sulle piattaforme MOOCs – Massive Online Open Courses).

Queste trasformazioni hanno una portata ed un potenziale impatto che spesso si scontrano con la cultura “burocratica” delle business school, con i processi di creazione di consenso che le contraddistinguono, e con i meccanismi di governance che spesso richiedono tempi di approvazione delle decisioni che male si sposano con le condizioni di contesto identificate in precedenza. Diventa quindi fondamentale per la leadership delle business school di tutto il mondo promuovere una trasformazione della cultura organizzativa, dei processi, delle competenze dello staff, e delle strutture organizzative nell’ottica di una maggiore imprenditorialità e capacità innovativa. Questo significa mutuare le soluzioni e gli approcci manageriali che le business school insegnano ai propri allievi ed applicarli nei propri modelli di gestione. Ad esempio, per gestire progetti di innovazione “radicali”, che richiedono profondi cambiamenti alle routine ed ai modelli operativi consolidati (si pensi, ad esempio, al lancio di piattaforme per la formazione a distanza, oppure di servizi di life-long learning abilitati dalle tecnologie digitali), molte business school stanno dando vita a degli spin-off per collocare questi progetti in un contesto organizzativo più agile e imprenditoriale. Molte business school stanno creando delle posizioni all’interno del loro staff di Chief Innovation Officer (CIO), che ha il compito di promuovere un processo di innovazione e trasformazione digitale continuo delle operations e dell’offerta. Si stanno sempre più diffondendo modelli di coopetition tra business school, con l’obiettivo di raggiungere una superiore massa critica e condividere i rischi ed i costi che progetti di innovazione radicale comportano (come ad esempio la messa a punto di innovativi Learning Management Systems).

Molte di queste trasformazioni richiederanno tempo per manifestarsi nel mondo delle business school, ma saranno fondamentali per sostenere la loro competitività nel tempo e garantirne la sopravvivenza.