SOM per gli SDGs: premi di laurea per tesi con impatti connessi ai Sustainable Development Goals

E’ aperto il bando per 2 premi di laurea: SOM per gli SDGs: Tesi con impatti connessi ai Sustainable Development Goals.

La School of Management del Politecnico di Milano promuove i principi di una gestione responsabile e sostenibile in tutti i suoi programmi e sostiene attività di apprendimento e ricerca coerenti con i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile/ Sustainable Development Goals (SDG) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (https://unric.org/it/agenda-2030).

I premi di laurea, del valore di € 1.000,00 ciascuno, sono destinati a laureati/e al corso di Laurea Magistrale o Laurea Specialistica o V.O in Ingegneria Gestionale che abbiano conseguito il relativo titolo nel periodo novembre 2020 – ottobre 2021.

I lavori (tesi o tesine) dovranno dimostrare di avere ricadute su uno o più SDGs (es. sviluppo di ricerche in ambito di progetti, prodotti o servizi alla persona per la promozione della salute e del benessere, parità di genere, sicurezza, protezione dell’ambiente, conservazione del patrimonio culturale, miglioramento delle condizioni di vita delle fasce deboli).

Per maggiori informazioni, si prega di consultare il bando disponibile alla pagina: https://www.som.polimi.it/albo-e-bandi/

 

 

Premio di Laurea 2021: Save The Duck e la School of Management del Politecnico di Milano premiano la tesi più sostenibile

Save The Duck, il primo marchio di piumini 100% animal free, ha consegnato oggi nella sua seconda edizione il premio di laurea alla migliore tesi sul tema della sostenibilità nel settore fashion, dedicato agli studenti del Politecnico di Milano

 

Save The Duck, il primo marchio di piumini 100% animal free, in collaborazione con la Sustainable Luxury Academy della School of Management del Politecnico di Milano, ha consegnato oggi il premio di laurea dall’importo di 5.000 euro alla migliore tesi di uno studente o studentessa del Politecnico di Milano che abbia affrontato il tema della sostenibilità nel settore fashion. Ad aggiudicarsi il riconoscimento è stata Eleonora Coira con la tesi “Progettare la circolarità – Strategie progettuali per l’integrazione di modelli di circular economy nel sistema moda”: “un lavoro completo e approfondito – si legge nella motivazione – con diverse idee innovative per aumentare la sostenibilità e aiutare l’evoluzione nel settore moda verso un modello di economia circolare”.

Al premio hanno potuto candidarsi tutti coloro che hanno conseguito il titolo di laurea magistrale al Politecnico di Milano nel periodo aprile 2020 – aprile 2021, in tutti i corsi di studio, e con una votazione non inferiore a 100/110. La vincitrice si è focalizzata sui modelli di business e le scelte progettuali per migliorare l’impatto ecologico di un brand e dei suoi prodotti. Il progetto è incentrato in particolare su come sia possibile integrare nei processi di sviluppo di una collezione i principi di sostenibilità che tengono conto delle 3 P: Profit, Planet, People, individuando le strategie progettuali circolari a oggi percorribili e verificando nuovi approcci alla progettazione sostenibile.

Il riconoscimento è stato consegnato con una cerimonia digitale dalla giuria che ha valutato le tesi, insieme ad Alessandro Brun, direttore del Master in Global Luxury Management e department chief della Sustainable Luxury Academy della School of Management del Politecnico di Milano.

L’obiettivo del progetto promosso da Save The Duck è investire sul futuro delle giovani generazioni e sensibilizzarle ulteriormente su un tema cruciale per tutti: la sostenibilità a 360°. Lanciata nel 2012, l’azienda realizza capi privi di piume, pellami, pellicce e in generale materiali/tessuti di derivazione animale. Nel 2019 è stata la prima azienda fashion in Italia ad avere ottenuto la certificazione B Corp, che distingue le aziende che volontariamente rispettano i più alti standard di responsabilità e trasparenza in ambito sociale e ambientale. Una tematica che sta a cuore a Save The Duck fin dalla sua fondazione e che l’ha resa capofila ed esempio nell’avvicinare la moda alle questioni ambientali e sociali.

“È per noi di Save The Duck fondamentale investire nella formazione dei giovani, affinché arrivino preparati ad affrontare le sfide che li aspettano. Dare spazio alle loro visioni e alle loro proposte di approccio rigenerativo significa dare voce ai protagonisti di domani. Siamo molto contenti del percorso instaurato con il Politecnico di Milano che sicuramente ci vedrà impegnati anche l’anno prossimo con la terza edizione del premio di laurea. ” dichiara Nicolas Bargi, fondatore e CEO di Save the Duck.

“Alla School of Management del Politecnico di Milano siamo convinti di poter contribuire a realizzare un futuro più sostenibile – gli fa eco Alessandro Brun, a capo della Sustainable Luxury Academy e Direttore del Master in Global Luxury Management del Politecnico di MilanoConsapevoli che ‘non esiste un pianeta B’, vogliamo che ogni settore industriale diventi ogni giorno più eco-compatibile, in particolare il fashion-luxury, e in questo cammino siamo grati a Save The Duck per aver finanziato, per il secondo anno, un premio di laurea alla miglior tesi sulla moda sostenibile. I 17 lavori candidati testimoniano che i nostri studenti hanno idee innovative e concrete in grado di impattare sulla società, la tesi vincitrice ad esempio propone un quadro completo di metodologie che i Fashion designer possono applicare per ridurre gli sprechi, adottando un’ottica di prodotti circolari. Il concetto che sta alla base della ‘moda sostenibile’ è una vera rivoluzione: solamente riscrivendo i modelli di business e le pratiche produttive e gestionali si potranno ottenere risultati significativi”.

SER Social Energy Renovations

Al via il progetto H2020 per finanziare l’edilizia sostenibile nel terzo settore

 

Finanziare ristrutturazioni edilizie sostenibili nel Terzo Settore grazie a uno strumento innovativo che consentirà di accelerare la transizione ecologica e contrastare la povertà energetica. È l’obiettivo del progetto europeo SER-Social Energy Renovations, cui partecipano, per il nostro Paese, CGM Finance,  la School of Management del Politecnico di MilanoENEA e Fratello Sole, società consortile di enti no profit impegnata nel contrasto alla povertà energetica;  gli altri partner sono la società spagnola GNE Finance, capofila del progetto, Secours Catholique-Caritas France e la filiale bulgara della società Econoler.

Il progetto, finanziato nell’ambito del programma Horizon 2020, si sviluppa sull’arco di tre anni, nei quali verrà ideato e sviluppato un meccanismo di de-risking per ridurre il rischio associato ai finanziamenti e consentire l’accesso al credito anche a soggetti con capacità economica limitata. Il  meccanismo includerà l’analisi e la standardizzazione tecnica del processo di definizione degli interventi di efficientamento energetico degli immobili.

I progetti saranno aggregati e sottoposti a valutazione dell’impatto sociale per poi essere finanziati, consentendo agli investitori di accedere a investimenti sicuri, efficaci, in linea con i criteri ESG; e alle imprese sociali di effettuare ristrutturazioni green a prezzi accessibili, con l’assistenza tecnica necessaria.

ENEA e Fratello Sole coinvolgeranno gli enti del Terzo Settore e selezioneranno gli edifici dedicati ad attività no profit sui quali intervenire con le ristrutturazioni edilizie energicamente efficienti e sostenibili. I lavori di riqualificazione energetica saranno a cura di Fratello Sole Energie Solidali – ESConata dalla joint venture tra Fratello Sole Scarl e Iren Energia.

Nell’ambito del progetto, la School of Management identificherà gli indicatori di valutazione e analizzerà l’impatto sociale dei progetti finanziati.

“La questione della valutazione dell’impatto sociale è tanto attuale quanto com­plessa, e da argomento di interesse di pochi è diventato ormai parte integrante della strategia imprenditoriale e tema essenziale della finanza”, sottolinea il professor Mario Calderini, Professore di Social Innovation del Dipartimento di Ingegneria Gestionale.
E aggiunge: “Con questo progetto si vuole valorizzare non solo l’impatto ambientale generato dagli interventi di efficientamento energetico degli immobili, ma anche quello sociale generato dalle organizzazioni del Terzo Settore che grazie ai benefici di questo intervento saranno in grado di offrire maggiori servizi.”

Infine, Secours Catholique-Caritas France insieme alla filiale bulgara della società di consulenza sull’efficienza energetica Econoler esploreranno la replicabilità dello strumento in altri Paesi europei.

Sostenibilità nel fashion: seconda edizione del premio di laurea “Save The Duck”

Cinquemila gli euro messi in palio dal marchio di piumini 100% animal free per la migliore tesi che affronti il tema della sostenibilità nel fashion, con un focus sui materiali vegetali o sintetici o sui modelli di consumo sostenibili e circolari.

 

E’ giunta alla seconda edizione l’iniziativa lanciata da Save The Duck, in collaborazione con la Sustainable Luxury Academy della School of Management del Politecnico di Milano, l’Osservatorio permanente sul lusso sostenibile nato per riunire le voci più influenti dell’industria dell’alto di gamma e incidere positivamente sul mercato.

Al premio di laurea, del valore di 5.000 euro lordi, potranno partecipare gli studenti che abbiano conseguito il titolo di laurea magistrale al Politecnico di Milano tra aprile 2020 e aprile 2021, in tutti i corsi di studio, con una votazione non inferiore a 100/110. Le candidature vanno presentate sul sito del Politecnico di Milano nella sezione «Borse di studio e premi di laurea (non DSU)» entro le 12 del 14 maggio 2021, il vincitore sarà proclamato a fine giugno 2021.

La partnership tra la School of Management e Save The Duck nasce nel 2019 per offrire sostegno concreto ai giovani che si impegnano per un futuro a minore impatto ambientale e sociale.

Sensibilizzare maggiormente il settore del lusso sui temi della sostenibilità e della responsabilità sociale a partire dalle nuove generazioni, è un obiettivo che da anni ci siamo prefissi, e il premio di laurea con Save The Duck va esattamente in questa direzione – conferma Alessandro Brun, a capo della Sustainable Luxury Academy e direttore del Master in Global Luxury Management -. “Come School of Management abbiamo posto le tematiche ambientali, sociali e di governance al centro di tutti i nostri programmi e la risposta degli studenti è stata eccezionale: sono ormai moltissimi i giovani che nella loro tesi affrontano questi argomenti. Un premio che valorizzi i loro sforzi non può che innescare un circolo virtuoso, favorendo ulteriore interesse da parte dei futuri manager, designer e professionisti che domani guideranno il settore moda in Italia e nel mondo”.

Sostenibilità del trasporto aereo: un PhD in collaborazione tra easyJet e la School of Management

Diego Babuder, pilota easyJet, intraprenderà il percorso di ricerca quadriennale Executive del Programma di Dottorato in Management Engineering

 

Quest’anno la School of Management del Politecnico di Milano, in collaborazione con easyJet, avvia un dottorato Executive in Management Engineering incentrato sulla sostenibilità nel settore aereo. Il percorso pone il focus sulle sfide e sulle opportunità che l’innovazione digitale può avere in quest’ambito, con particolare attenzione a come le compagnie aeree possano contribuire alla decarbonizzazione del settore e a ridurre gli effetti del cambiamento climatico.

La sostenibilità ambientale è un cardine della strategia di sviluppo di easyJet, che nel 2019 ha deciso di compensare le emissioni prodotte dal carburante impiegato su tutti i suoi voli per far fronte alle sfide globali poste dal cambiamento climatico. “Investire ora nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie rivoluzionarie come gli aerei ibridi, elettrici e a idrogeno, è il modo migliore di affrontare efficacemente le sfide globali poste dal cambiamento climatico per questo settore. Questo è un momento storico per l’aviazione commerciale e intendiamo svolgere un ruolo di primo piano nella transizione verso soluzioni capaci di ridurre significativamente l’impatto del settore aereo sull’ambiente” – commenta Lorenzo Lagorio, country manager easyJet Italia.

La transizione verso sistemi industriali più sostenibili e circolari è un processo inarrestabile e per l’aviazione commerciale rappresenta al contempo una sfida ed una grande opportunità. Non si tratta solo di innovazione tecnologica, ma di una complessiva trasformazione dei modelli di business con impatti sistemici a livello di settore che porterà alla nascita di nuove filiere – commenta Paolo Trucco, docente di sistemi industriali della School of Management e responsabile del progetto di ricerca con easyJetE’ per noi motivo di orgoglio e di grande stimolo poter studiare e indirizzare questi fenomeni attraverso una partnership di ricerca e formazione con un’azienda leader di settore come easyJet. E’ significativo poi che questa collaborazione abbia come fulcro il percorso di dottorato di un loro pilota; dimostrazione di quanto lo sviluppo del capitale umano sia alla base della capacità delle organizzazioni di trasformarsi e cogliere tutte le opportunità tecnologiche e operative per rendere il proprio business sempre più sostenibile”.

Diego Babuder, pilota easyJet da oltre 7 anni, ora neo-dottorando al Politecnico, è laureato in gestione del trasporto aereo nel Regno Unito e ha collaborato con il Politecnico di Milano alle lezioni del master di primo livello in “Fondamenti del sistema di trasporto aereo”. “Sono convinto che il trasporto aereo possa giocare un ruolo da protagonista nel contrasto al cambiamento climatico e porsi come esempio per molte altre industrie. C’è molto entusiasmo per i diversi filoni di ricerca che sono attualmente in corso, a partire da quelli che riguardano lo sviluppo dell’aereo ibrido ed elettrico e la produzione di carburanti sostenibili.”

Welfin: premiato a Switch2Product il prestito sostenibile

Il team nato sui banchi dell’Executive MBA del MIP si aggiudica la Menzione Speciale MIP di Switch2Product, la challenge di Politecnico di Milano, Deloitte e PoliHub, che valorizza soluzioni innovative, nuove tecnologie e idee offrendo loro risorse economiche per supportare lo sviluppo tecnologico e un percorso di accelerazione imprenditoriale dedicato realizzato da PoliHub, dal Technology Transfer Office (TTO) e da Officine Innovazione di Deloitte.

Una piattaforma per prestiti Peer 2 Peer, la prima in Italia, in cui sono le aziende stesse a fare da garante per i propri dipendenti. Il risultato? Tassi più bassi per chi prende in prestito, un rendimento sicuro per chi presta e un modo innovativo di fare welfare per le aziende coinvolte.

È Welfin, progetto creato sui banchi dell’Executive MBA dai nostri Alumni Francesco Giordani, Ideo Righi e Alessandra Bellerio, e premiato poche settimane fa a Switch2Product con la “Menzione Speciale MIP”.

Un’idea imprenditoriale che sta dimostrando non solo di essere innovativa, ma di riservare un’attenzione speciale anche a un tema importante per la nostra Scuola, la sostenibilità. Da un lato, infatti, Welfin si impegna a creare impatto sociale offrendo migliori condizioni economiche – i tassi sono vantaggiosi sia per chi prende in prestito che per chi presta; dall’altro, coinvolgendo le aziende come garante, permette l’accesso al credito anche a persone che altrimenti lo avrebbero avuto con difficoltà.

Un progetto come questo non sta passando inosservato: la menzione vinta a Switch2Product, competizione organizzata dal Polihub, infatti arriva a pochi mesi di distanza da un altro riconoscimento, il premio Fintech & Insuretch assegnato dall’omonimo Osservatorio.

Due occasioni importanti, che hanno offerto ai nostri studenti tutti gli elementi per rafforzare non solo il proprio network, ma anche la possibilità di ricevere supporto su aspetti specifici come quelli legali o fiscali.

“A seguito della vittoria del premio Fintech & Insurtech abbiamo potuto beneficiare di un periodo di incubazione di tre mesi presso il Polihub” – spiega Alessandra Bellerio. “Abbiamo cercato di avviare un percorso di networking utile ad acquisire una serie di input – positivi o negativi che fossero – importanti per aggiustare strategia e modello di business. Una delle cose che abbiamo imparato è che ogni opportunità di networking deve essere accolta, perché può trasformarsi in un’occasione di partnership o di confronto.”

Francesco Giordani aggiunge: “Aver vinto Switch2Product ci permette di continuare il percorso di accelerazione che abbiamo già iniziato, che ci ha dato un grande valore aggiunto in termini di competenze e di spunti raccolti. Inoltre, abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con professionalità diverse, di essere guidati da mentor e di incontrare professionisti di spicco dell’ambito bancario. Non solo! Il percorso di accelerazione Switch2Product ci sta traghettando verso un investor & corporate roadshow, che per noi rappresenta un’opportunità da non perdere. Infine, abbiamo anche avuto uno special grant di 30.000 Euro da parte della Camera di Commercio di Milano, Monza Brianza, Lodi, per supportare la fase inziale della startup.”

Switch2Product si sta quindi rivelando per i nostri Alumni un’occasione per mantenere ben saldo il rapporto con il Polihub, con il MIP – che offre ai vincitori della Menzione dei corsi della Management Academy – e, a livello più ampio, con l’ecosistema del Politecnico.

“Siamo figli del Politecnico” – sottolinea con orgoglio Ideo Righi. “Il team si è costituito al MIP, siamo parte dell’Osservatorio Fintech & Insurtech, siamo incubati al Polihub. Questo ci ha dato la possibilità di confrontarci con altri startupper e imprenditori, tutte persone che gravitano intorno al Politecnico. Si tratta di un network importante, che ci ha dato tanto e che pensiamo possa darci ancora molto”.

“E poi non dimentichiamo che ci siamo conosciuti proprio grazie all’EMBA del MIP e lì è nato il nostro team” – aggiunge con un sorriso Alessandra.

Anche Francesco è d’accordo nel definire il team uno degli aspetti strategici: “Siamo stati fortunati, abbiamo avuto tempo di sceglierci, di conoscerci durante l’EMBA. Siamo arrivati già pronti, sapendo di essere accomunati da una visione di fondo – quella di trasformare un’idea di business in un’impresa di successo.”.

Ma c’è di più. Infatti, Giordani continua: “L’Executive MBA è stata l’occasione di rafforzare le nostre competenze. Volendo contestualizzare nell’ambito startup ed entrepreneurship, uno dei temi più interessanti è stato quello della Lean Startup. È uno degli elementi che stiamo applicando a Welfin. Tra l’altro il MIP ci ha fornito dei modelli da applicare ai vari contesti – strategici, di marketing, delle operation. Questo ci guida nel definire la rotta”.  

Tuttavia, l’EMBA non è fatto solo di hard skill, ma anche di soft! Alessandra infatti specifica: “Durante l’Executive MBA ho avuto modo di approfondire dei corsi riguardanti degli aspetti un po’ più personali, ma che ho scoperto essere fondamentali nell’ambito del business. Infatti, perché un’attività sia di successo è importante che il team si efficace: lavorare sulle proprie soft skill e sulla crescita personale è quindi indispensabile. Per me le soft skill si sono rivelate utili per dare risalto a delle componenti tecniche essenziali”.

Anche con un Executive MBA alle spalle, rimane importante non abbandonare mai il processo di continuous learning. E lo sanno bene in nostri Alumni, che stanno già riflettendo su quali tematiche approfondire grazie ai corsi della Management Academy del MIP, vinti in occasione di Switch2Product.
Non vediamo quindi l’ora di riaverli nuovamente sui nostri banchi!

Premio per tesi di laurea con impatti sui Sustainable Development Goals

E’ aperto il bando per il premio “SOM per gli SDG: Tesi con impatti connessi ai Sustainable Development Goals.

La School of Management del Politecnico di Milano in tutti i suoi programmi sostiene le attività di apprendimento e ricerca coerenti con i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile/ Sustainable Development Goals (SDG) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite promuovendo i principi di una gestione responsabile e sostenibile.

Possono essere presentate candidature per tesi o tesine che rappresentino un contributo per risolvere le sfide sociali del nostro tempo e individuare modelli di sviluppo sostenibile sul piano ambientale, economico e sociale (es. sviluppo di ricerche in ambito di progetti, prodotti o servizi alla persona per la promozione della salute e del benessere, parità di genere, sicurezza, protezione dell’ambiente, conservazione del patrimonio culturale, miglioramento delle condizioni di vita delle fasce deboli).

I premi sono destinati a laureati/e nel corso di Laurea Magistrale o Laurea Specialistica o V.O in Ingegneria Gestionale presso il Politecnico di Milano che abbiano conseguito il relativo titolo nel periodo Novembre 2019 – Ottobre 2020.

La scadenza del bando è il 9 ottobre 2020.

Per maggiori informazioni, si prega di consultare il bando disponibile alla pagina https://www.som.polimi.it/albo-e-bandi/

 

Dalla tecnologia al luxury, passando per il MIP: l’esperienza di Merry Le

Alumna dell’MBA, racconta il successo ottenuto alla Mark Challenge, competizione per startup nell’ambito luxury&yachting. Un risultato che passa anche dalla capacità di utilizzare al meglio le proprie skill

 

C’è una frase, attribuita ad André Citroën, fondatore dell’omonima casa automobilistica francese, che recita più o meno così: “Saper fare è nulla senza far sapere.” Perché a volte la sfida più grande non è trovare un’ottima idea e svilupparla. Può essere molto più complesso raccontarla in modo efficace, soprattutto quando si ha di fronte un pubblico variegato, con diversi background formativi. Come convincere tutti? È quanto si è chiesta Merry Le, che dopo aver frequentato il Master in Business Administration presso il MIP Politecnico di Milano è diventata business strategy lead per Moi Composites. L’azienda, uno spin off del Politecnico di Milano, opera nel mercato della stampa 3D on demand e si è aggiudicata lo Special award in Yachting nell’ambito della Mark Challenge, competizione per startup in ambito luxury. «La nostra tecnologia brevettata, la Continuous Fiber Manufacturing, permette la produzione di prodotti uniciin maniera più efficiente e economicamente più accessibile», spiega Le. «Caratteristiche che si sposano alle esigenze produttive di un settore di lusso come lo yachting, in cui la personalizzazione è ricercata. La Mark Challenge ci sembrava il palcoscenico adatto per valorizzare i vantaggi unici della nostra startup. C’era un ostacolo principale: poiché si tratta di un innovazione tecnologico, era difficile far comprendere le sfumature più tecniche».

 

L’importanza di un buon pitch

Merry Le e i suoi colleghi, tutti e quattro provenienti dal MIP e dal Politecnico, hanno così deciso di sfruttare il proprio network di conoscenze, inclusi i docenti del MIP: «Abbiamo presentato il progetto a numerose persone, per ottenere dei feedback sulla sua efficacia. Quindi abbiamo semplificato il linguaggio e reso più chiaro alcuni messaggi. La presentazione vera e propria, poi, ci ha messi di fronte a una complicazione ulteriore», racconta Le, «poiché è avvenuta nel pieno dell’emergenza sanitaria da Covid-19, così tutto si è svolto online». Ma la strategia di Moi Composites ha pagato, perché Merry Le e i suoi colleghi sono stati premiati e hanno ottenuto la possibilità di presentare il proprio pitch davanti alla commissione del Monaco Yachting Cluster. Non solo: la stessa presentazione è stata votata dal pubblico come miglior pitch. «Un successo che abbiamo ottenuto, io e miei colleghi, anche grazie ai nostri differenti background, che ci hanno permesso tanto di sviluppare un business plan solido, quanto di lavorare con una tecnologia innovativa.»

 

Il futuro del lusso tra personalizzazione e sostenibilità

Le caratteristiche del business di Moi Composites si adattano alle ultime evoluzioni del mercato del lusso in generale, e non solo dell’industria nautica: «Il trend attuale è quello della personalizzazione. I clienti cercano sempre più prodotti tagliati su misura, adatti alle loro specifiche esigenze. È una tendenza accompagnata da una richiesta sempre maggiore di sostenibilità ambientale e sociale, oltre che di circolarità», continua Le. «Sono convinta che, nonostante il Covid-19 abbia avuto un grande impatto sull’economia, e quindi anche sul luxury, siamo più preparati ad affrontare il cambiamento. La recessione del 2008 colpì all’improvviso, cogliendo tutti di sorpresa; ma proprio grazie a quella crisi le persone hanno imparato come affrontare la ripresa ea diventare più creative e più propositive».

 

La ricchezza dell’MBA

Merry Le ha frequentato il Master in Business Administration presso il MIP perché, dopo anni di carriera, sentiva il bisogno di ampliare il proprio bagaglio di competenze: «Il mondo cambia in fretta, è sempre più importante poter contare su skills che permettano di comprendere e affrontare al meglio i cambiamenti in atto». Statunitense della East Coast, dopo 14 anni nell’industria aeronautica e aerospaziale, oggi Merry Le, nel suo nuovo ruolo di business strategy lead, ha la possibilità di impiegare le conoscenze acquisite durante il master. Non solo: il project work con cui ha partecipato alla Mark Challenge le è stato proposto proprio dal MIP. E se si tiene conto che Moi Composites, con sede nella vicina cittadina di Pero, è nata grazie al supporto del Politecnico di Milano, appare evidente come l’offerta del MIP non sia limitata alla formazione, ma possa contare anche su un tessuto produttivo geograficamente vicinissimo, popolato di aziende di alto livello alla costante ricerca di professionalità altrettanto valide. «La mia esperienza è stata fantastica», conclude Le. «Consiglierei a chiunque la scelta che ho fatto. Ad attrarmi è stata soprattutto l’enfasi sul tech e sui big data, ma più in generale sentivo il bisogno di imparare qualcosa di nuovo, oltre che di migliorare e affinare le skill di cui ero già in possesso. Un ulteriore valore aggiunto è dato dall’eterogeneità della classe: gli studenti provenivano da venti Paesi differenti, e questo ci ha permesso di confrontarci con punti di vista inediti. Una grande ricchezza».

E’ economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale nell’ “era coronavirus”?

La profonda crisi causata dall’emergenza sanitaria costringe le imprese ad un taglio dei costi e degli investimenti non indispensabili, con un forte ridimensionamento di quelli finalizzati alla trasformazione ambientale. Con l’incremento complessivo del debito pubblico dei paesi, come sarà possibile sostenere la sostenibilità ambientale e reperire le risorse necessarie per finanziarla?

 

Umberto Bertelè, Professore Emerito di Strategia del Politecnico di Milano

 

Che fine ha fatto Greta?”, si chiedeva La Repubblica in un articolo del 22 marzo di quest’anno. Ancora a fine febbraio, meno di un mese prima, Greta Thunberg era riuscita a portare in piazza 15mila giovani per il “Bristol Youth Strike 4 Climate (BYS4C) event” e a dicembre – al massimo della notorietà – era stata posta dalla rivista Time in copertina come “2019 Person of the Year”, dopo gli interventi a Davos e all’ONU.
Poi di colpo, con l’arrivo del lockdown in Europa e negli US, il quasi oblio: a testimonianza della velocità con cui nel giro di pochi giorni erano radicalmente cambiate le priorità delle persone, meno preoccupate per l’impatto – percepito come lontano nel tempo – del cambiamento climatico generato dal global warming che non per i rischi immediati per la salute e la stessa sopravvivenza e quelli appena successivi connessi con le pesanti conseguenze economiche e occupazionali (30 milioni di disoccupati nell’UE e oltre 30 negli US prima della riapertura) del lockdown. Con il lockdown che viceversa – bloccando larga parte delle attività e riducendo drasticamente gli spostamenti – aveva un effetto benefico, ma temporaneo (a meno di una poco auspicabile caduta permanente dell’economia), su tutti i parametri ambientali.
E meno di un mese dopo, il 14 aprile, il Financial Times titolava un suo corposo servizio su questo tema “How coronavirus stalled climate change momentum – Emissions have fallen but the pandemic will hit policy commitments as nations look to kick-start their economies”. E in due successivi articoli degli inizi di maggio le domande (in evidenza nei titoli) erano: “Can companies still afford to care about sustainability?” e “Can we tackle both climate change and Covid-19 recovery?”.

 

Prima del lockdown: con l’uscita dalla “grande crisi” l’ambiente conquista una posizione di testa nella scala delle priorità sociali

Il tema “ambiente” – la guerra contro il global warming ma anche quella contro l’uso della plastica o contro l’inquinamento urbano – aveva assunto, con la ripresa dell’economia mondiale dopo la grande crisi iniziata nel 2008, una rilevanza quasi contagiosa. Non più riservato ai soli ambientalisti, esso riscuoteva ampi consensi (o almeno simpatie) in fasce crescenti della popolazione, fra i giovani in primo luogo, anche se non era altrettanto diffusa la coscienza dei costi e dei trade-off che il perseguimento degli obiettivi ambientali – la decarbonizzazione in primo luogo – avrebbe comportato. L’accordo formalmente sottoscritto da 195 Paesi nella conferenza sul clima di Parigi (COP21) di dicembre 2015 aveva creato un clima di ottimismo sulla possibilità di un’azione internazionale coordinata e proiettata nel tempo contro il global warming, anche se già prima del lockdown ampie crepe si erano manifestate al momento di rendere operativi i primi passi degli accordi: per il rovesciamento di fronte da un lato degli US, dopo l’avvento alla presidenza di Trump, e per l’ambivalenza dall’altro della Cina, formalmente allineata con l’UE ma pronta a ricorrere al carbone per incrementare la produzione elettrica. Con la UE però fortemente determinata non solo a proseguire i suoi programmi (quale quello relativo al mondo dell’auto diventato operativo quest’anno), ma a fare dell’ambiente – con l’European Green Deal lanciato da Ursula von der Leyen al momento dell’assunzione della presidenza della Commissione – il punto focale della strategia di crescita dell’economia comunitaria.
L’attenzione verso l’ambiente sembrava essere diventata una sorta di obbligo pure per le imprese, non solo per obblighi di legge o ragioni di immagine ma anche, per le quotate in particolare, come conseguenza dell’enorme successo dei fondi ESG-Environmental Social and Governance – la cui consistenza era arrivata a molte migliaia di miliardi di $ – per statuto obbligati a investire in imprese eco-friendly, oltre che attente al benessere di dipendenti e collaboratori e al rispetto delle regole di governance. In questo contesto, il CEO di BlackRock (primo gruppo di asset management al mondo) era arrivato, a seguito delle critiche di inazione da parte dei movimenti ambientalisti, a minacciare di votare contro la rielezione di CEO e consiglieri delle imprese partecipate che non si fossero mostrate sufficientemente attive nel promuovere investimenti e comportamenti coerenti con gli obiettivi ESG.
Alle imprese – a partire da quelle quotate di dimensione maggiore – veniva sempre più richiesto non solo di essere eco-friendly, ma anche di evidenziare nei loro bilanci i rischi connessi con l’ambiente. Questo per la convinzione che il cambiamento climatico (in una proiezione temporale più lunga) e (soprattutto e da subito) le misure adottate dagli Stati per combatterlo – un mix di aiuti finanziari e di crescenti divieti – potessero stravolgere gli equilibri del sistema delle imprese, generando quella che in un mio articolo dello scorso anno avevo denominato eco-disruption (in analogia con la digital disruption): mettendo in estrema difficoltà comparti come quello petrolifero (per la spinta alla decarbonizzazione e l’incentivazione di fonti energetiche alternative pulite) e quello automobilistico tradizionale (costretto a chiudere molte attività e a investire pesantemente nell’elettrico) e facendone crescere altri più rispondenti alle nuove esigenze.
Di conseguenza, e coerentemente, i banchieri centrali (a partire da quello UK) spingevano per l’affiancare agli stress test – diventati ormai una consuetudine dopo la “grande crisi” – i “climate” stress test, volti a valutare la resilienza delle banche a fronte dell’accentuarsi di fenomeni di eco-disruption. E si cominciava a parlare di “green” quantitative easing, immaginando interventi simili a quelli attuati da Draghi come capo della BCE, ma a favore questa volta delle grandi risorse che gli Stati e le imprese avrebbero dovuto mettere in gioco per la trasformazione ambientale.

 

Con la profonda crisi causata dal lockdown la sostenibilità economica e occupazionale torna a essere la priorità fondamentale

Con la contrazione dei fatturati della grande maggioranza delle imprese a causa del lockdown, con la conseguente enfasi sulla liquidità – e quindi sul taglio dei costi e degli investimenti non indispensabili – come condizione per la sopravvivenza di molte di esse, con l’enorme crescita dei “non occupati” o “parzialmente occupati”, con l’ovvio aumento delle incertezze sul futuro, le priorità (come detto) sono immediatamente cambiate e tale cambiamento presumibilmente perdurerà almeno in parte sino al consolidarsi del rilancio – auspicato ma assolutamente incerto nei tempi e differenziato per Paesi – dell’economia. La maggior coscienza ambientale sviluppatasi negli ultimi anni permane come valore di fondo della società, come molte indagini svolte in vari Paesi evidenziano, ma con una influenza minore sui comportamenti delle imprese e sulle allocazioni delle risorse pubbliche.
Concentrando il discorso sulle imprese, l’enfasi sulla liquidità come condizione di sopravvivenza comporta per larga parte di esse – al di là delle dichiarazioni ufficiali (soprattutto delle quotate) sull’importanza degli obiettivi ambientali – un forte ridimensionamento o dilazione nel tempo degli investimenti strettamente finalizzati alla trasformazione ambientale. Mentre l’attenzione all’ambiente permane – come obiettivo in sede di progettazione – nella messa a punto degli investimenti finalizzati alle esigenze di business: una attitudine importante, che potrà essere rafforzata ponendola come prerequisito per l’accesso alle risorse pubbliche specificamente erogate per il ridecollo dell’economia.
I fondi ESG a loro volta, che devono proteggere il valore degli investimenti fatti, tendono a non forzare le imprese a investimenti ambientali che ne possano mettere a rischio la sopravvivenza e a limitare gli interventi critici a quelle patrimonialmente solide che palesemente rifiutino di darsi obiettivi ambientali: come di recente avvenuto con LGIM – primo gruppo di asset management inglese – che ha accusato Exxon Mobil, di cui è uno dei principali azionisti, di “lack of strategic ambition around climate change”, a differenza di BP e Shell che si sono date l’obiettivo “net-zero”, e ha deciso di votare contro la riconferma di CEO e chairman.

 

Il lockdown ha avuto un impatto benefico su tutti i parametri ambientali, ma cosa accadrà con il progressivo ritorno a una qualche forma di normalità?

È ovvio che, nel momento in cui – per ordine dei governi – larga parte delle attività produttive e commerciali viene sospesa e gli spostamenti vengono quasi cancellati per il confinamento di una quota elevata della popolazione, le fonti inquinanti si riducono drasticamente e i parametri ambientali presentano tutti rilevanti miglioramenti. È ovvio che, più lenta sarà la ripresa, più lentamente i livelli di inquinamento torneranno ai valori precedenti la crisi da coronavirus. È altrettanto ovvio che questa non è la soluzione per i problemi ambientali, per cui sono necessari interventi più strutturali, anche se le nuove abitudini sviluppate durante il lockdown – quali il più diffuso utilizzo dell’ecommerce, il ricorso massiccio al remote working e alla formazione a distanza, la telemedicina, la disponibilità di strumenti molto più efficienti per le interrelazioni online (per ragioni di lavoro ma non solo) e per l’organizzazione di eventi online (con partecipanti attivi sempre più numerosi) – lasceranno presumibilmente tracce profonde nei nostri stili di vita e di lavoro, riducendo ceteris paribus la pressione sull’ambiente.
Facebook ha ad esempio annunciato un profondo ripensamento della strutturazione delle sue attività, che prevede che nel giro di qualche anno la metà dei dipendenti operi in remote working e abbia una remunerazione correlata con il costo della vita dei luoghi in cui vivono: con un vantaggio economico diretto, dati il costo della vita ormai proibitivo nell’area di San Francisco, ma con un impatto significativo – se saranno molte le imprese della Silicon Valley che (come già Twitter, Square e Shopify) seguiranno la stessa strada – sul decongestionamento del territorio e sulla salute dell’ambiente.
Di converso uno stimolo all’aumento della carbonizzazione potrebbe pervenire dal crollo dei prezzi dei carburanti fossili – del petrolio in primo luogo – legato non solo agli scontri fra Paesi produttori (Arabia Saudita, Russia e US i grandi protagonisti), ma anche e soprattutto dal crollo della domanda causato dal lockdown: crollo destinato ad attenuarsi con la progressiva uscita dal lockdown, ma molto sensibile a quelli che saranno i tempi della ripresa. Prezzi eccessivamente bassi delle materie prime fossili significano, soprattutto in una fase di emergenza economica, scarsi stimoli agli investimenti in energie pulite (quali la solare o l’eolica) o addirittura – come accennato in precedenza per la Cina – ricorso a materie prime come l’economicissimo carbone per alimentare le nuove centrali elettriche.

 

Gli elevati costi della “decarbonizzazione” e le difficoltà politiche per attuarla

La trasformazione ambientale non si identifica con la sola guerra al global warming, ma non c’è dubbio che sia quest’ultima a richiedere gli sforzi di gran lunga maggiori se si vuole puntare all’obiettivo – più o meno proiettato nel tempo – di rendere carbon neutral l’economia e la società mondiale: sforzi nel contempo economici, perché senza risorse si fa poca strada, e politici.
L’entità delle risorse da mettere in gioco è molto elevata: da parte in primo luogo delle imprese, non tutte in grado di sopravvivere ai nuovi standard (da cui il termine eco-disruption sopra accennato); da parte delle famiglie, che devono adeguare fra l’altro le loro abitazioni e i loro mezzi di trasporto privati (operazioni tanto più ardue quanto più stagnante è l’economia); da parte degli Stati, per incentivare le imprese e la famiglie e per finanziare gli interventi infrastrutturali necessari. Molto ambizioso ad esempio il Green New Deal, lanciato a fine 2018 negli US dai rappresentanti democratici alla Camera dopo il favorevole esito delle elezioni di mid term ma bocciato dal Senato, che si proponeva di rendere carbon neutral l’economia statunitense entro il 2030. Un obiettivo poi ripreso dai candidati democratici nelle successive primarie, che avevano anche definito le cifre annue (con gli ovvi limiti di credibilità delle promesse elettorali) che avrebbero fatto stanziare a livello federale se eletti presidenti: 170 miliardi di $ all’anno Joe Biden, il più moderato, vincitore in pectore delle primarie; 300 miliardi Elisabeth Warren; addirittura oltre 1.600 Bernie Sanders, il più radicale, principale oppositore di Biden. Meno ambizioso nella scelta dell’orizzonte temporale di raggiungimento della neutralità (il 2050 invece che il 2030) e nelle cifre (1000 miliardi di euro complessivi in 10 anni incluse però le risorse di imprese e Stati membri attivate), l’European Green Deal visto in precedenza, approvato formalmente dal Parlamento Europeo con una richiesta di irrobustimento ma non operativo.
Le cifre citate sono troppo elevate o insufficienti (io propenderei per questa seconda ipotesi) per conseguire gli obiettivi dichiarati? Le cifre tengono conto della necessità di bilanciare l’inevitabile disruption di parte dell’economia provocata dalle nuove regole, prevedendo che sia la crescita delle attività eco-friendly a fornire la compensazione, o sono necessari investimenti addizionali agevolati dalla mano pubblica?
Accanto ai problemi economici, il conseguimento della neutralità su scala mondiale pone problemi politici molto severi: che cosa accade se non si trova un accordo almeno tra i tre principali attori della scena mondiale, US, UE e Cina? È possibile che una singola area si muova da sola, come ufficialmente vuole fare l’UE, senza poi porre vincoli agli scambi commerciali con le aree che – non dovendo rispettare gli stessi vincoli – sono più competitive (non è un caso a tale proposito che la Francia ponga come condizione per gli accordi post-Brexit il rispetto da parte dell’UK degli accordi di Parigi)? Chi si prende l’onere di aiutare finanziariamente le aree più povere del mondo a crescere nel rispetto delle regole di neutralità, affrontando costi sensibilmente maggiori ad esempio nella produzione di energia – almeno fino a quando il prezzo delle materie prime fossili rimarrà basso – o nei trasporti?
Non sono domande cui sono in grado di rispondere, ma che a mio avviso richiederebbero riflessioni molto più approfondite di quelle che molto spesso si sentono nei dibattiti o si trovano in letteratura e sulla stampa.

 

La guerra per la sostenibilità economica “post-lockdown” strappa risorse a quella per la sostenibilità ambientale

“I Paesi ricchi – i Paesi cioè con 1,3 miliardi di abitanti facenti capo all’OCSE stessa – sono destinati a subire un incremento complessivo dei loro debiti pubblici di almeno 17 trilioni di $ (quasi otto volte il PIL italiano) come conseguenza della pandemia, per l’effetto congiunto delle misure di salvataggio e di stimolo già poste in atto e (in misura probabilmente maggiore) della caduta a picco prevista per le entrate fiscali. Il livello di indebitamento medio, pari a oltre 13mila $ per abitante, passerà conseguentemente dal 109 al 137 per cento del PIL, ovvero al livello ante-coronavirus dell’Italia. E le cose potrebbero andare anche peggio, se il recupero richiedesse più tempo di quanto previsto, ponendo addirittura dubbi sulla sostenibilità di lungo termine del debito stesso”. È una mia libera traduzione della dichiarazione dell’OCSE riportata con grandissima evidenza dal Financial Times il 24 maggio.

 

Rimangono ancora risorse per finanziare la “decarbonizzazione”?

È la domanda questa che echeggia il titolo dell’articolo: è economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale oppure il reperimento delle risorse necessarie per finanziare la trasformazione ambientale (la decarbonizzazione in primo luogo) – già arduo prima del coronavirus – sarà sempre più difficile in un mondo sempre più indebitato? È possibile utilizzare a vantaggio anche dell’ambiente almeno parte delle enormi risorse destinate al salvataggio delle imprese e delle famiglie e al rilancio dell’economia, come apparirebbe razionale fare e come da più parti è richiesto?
Per quanto concerne il primo punto, non c’è dubbio che, data la rilevanza delle cifre da mettere in gioco per finanziare la decarbonizzazione e dati i livelli di guardia raggiunti dall’indebitamento complessivo (pubblico più privato), un ulteriore consistente ricorso all’indebitamento non è impossibile – lo si è fatto ad esempio da sempre nei periodi di guerra – ma comporta rischi crescenti di destabilizzazione del sistema economico-finanziario mondiale. Si procederà o meno in questa direzione? Banalmente credo che giocherà un ruolo fondamentale il livello di percezione del pericolo: l’emergenza economica post-lockdown ha attirato grandi risorse perché è immediatamente visibile, i danni che il cambiamento climatico potrebbe provocare (dal rialzo del livello del mare alla desertificazione di un numero crescente di aree ..) al momento lo sono in misura molto ridotta.
Per quanto concerne il secondo punto, la Commissione UE – nelle sue annuali raccomandazioni-Paese pubblicate il 20 maggio – ha auspicato che la grave recessione provocata dalla pandemia sia l’occasione per accelerare la riforma dell’economia, sulla base soprattutto dei due obiettivi, trasformazione ambientale e trasformazione digitale, che l’UE stessa si è data. Simile la raccomandazione che The Economist del 21 maggio ha posto in copertina di un numero in larga parte dedicato alle tematiche ambientali: “A new opportunity to tackle climate change: Countries should seize the moment to flatten the climate curve. The pandemic shows how hard it will be to decarbonize – and creates an opportunity“. Sono considerazioni in linea di principio molto condivisibili, perché si rifanno all’esperienza storica che sono le grandi crisi che creano le opportunità per le grandi trasformazioni. Con un limite però: è a mio avviso molto ridotta la quota di risorse pubbliche post-lockdown
destinate al rilancio dell’economia – l’unica che può essere impiegata anche con finalità ambientali – rispetto a quella volta a evitare i fallimenti delle imprese o a garantire un reddito alle famiglie colpite dalla crisi.
L’Italia, in questo contesto, soffre di una doppia criticità: ha meno risorse da mettere in gioco, dato il livello potenzialmente esplosivo del nostro debito pubblico; destina al rilancio una quota probabilmente più bassa rispetto ad altri Paesi, per la nostra tradizionale preferenza a mantenere in vita le imprese decotte (non faccio nomi) piuttosto che a investire in innovazione.

Tiresia Impact Outlook 2019

I capitali per l’impatto sociale in Italia superano gli 8 miliardi di euro, in crescita gli asset gestiti dagli operatori equity.

Presentato il Tiresia Impact Outlook 2019 realizzato dall’omonimo Centro di ricerca di innovazione e finanza per l’impatto sociale della School of Management.

Il 2019 è stato l’anno d’oro per la finanza per l’impatto sociale. I temi legati alla sostenibilità sono diventati centrali nella coscienza collettiva e nel sistema economico e finanziario tradizionale: la famosa lettera di Larry Fink, amministratore delegato di Blackrock, il manifesto della Business Roundtable e la prima pagina del Financial Times su tutti hanno sancito la necessità di ripensare il capitalismo, hanno segnato la definitiva consacrazione dell’imperativo dell’impatto.

La ricerca Tiresia Impact Outlook 2019, realizzata dall’omonimo Centro di ricerca di innovazione e finanza per l’impatto sociale della School of Management e presentato la scorsa settimana, offre una descrizione aggiornata dello stato dell’arte della finanza per l’impatto sociale in Italia e alcune riflessioni sulle sue possibili traiettorie di sviluppo. L’analisi è basata su 58 interviste strutturate a operatori sia dal lato dell’offerta sia della domanda di capitali.

“Lo studio restituisce l’immagine di un settore ancora piccolo, in grande trasformazione – commenta Mario Calderini, docente di Social Innovation e direttore di Tiresia – nel quale gli operatori stanno via via strutturando modelli e strumenti. Una enclave che tuttavia potrà giocare un ruolo prezioso nel contaminare virtuosamente l’industria finanziaria, il suo processo di trasformazione, verso modelli più sostenibili e inclusivi”.

La metodologia poggia su una definizione inclusiva di finanza per l’impatto: un’ampia gamma di investimenti e finanziamenti basati sull’assunto che i capitali privati, talvolta in combinazione con i fondi pubblici, possano intenzionalmente contribuire a creare impatti sociali positivi e, al tempo stesso, rendimenti economici. Gli operatori così identificati sono stati profilati in base alle loro caratteristiche e all’approccio utilizzato nelle loro attività riconducibili alla finanza per l’impatto, descritto attraverso una triade di elementi qualificanti, la cosiddetta triade dell’impatto: intenzionalità, misurabilità e addizionalità.

Il capitale per l’impatto impiegato dal 2006 in Italia è circa 8 miliardi di euro. Di questi, gli investimenti in equity effettuati dai soggetti intervistati dal momento del loro ingresso nell’industry è di 1.263,4 milioni di euro (15,7% del totale degli impieghi). Il totale dei finanziamenti erogati dagli intervistati, sotto forma di credito alle organizzazioni ad impatto sociale, è di 6.767,8 milioni di euro (84,3% del totale degli impieghi). Nel 2019, il totale degli asset gestiti dagli operatori equity è di 1.824,75 milioni e crescerà del 19% nel prossimo anno.

Rispetto alle aree di impatto sociale, obiettivo degli investimenti e dei finanziamenti, classificate secondo i 17 SDGs delle Nazioni Unite, prevale l’obiettivo “Buona occupazione e crescita economica” (73,7% degli operatori) seguito da “Imprese, innovazione e infrastrutture” (65,8%).

Per quanto riguarda i rendimenti attesi, il 60% degli intervistati dichiara aspettative di rendimento inferiori rispetto ai normali valori di mercato. Per il 73% degli investitori equity i rendimenti attesi si attestano tra il 2% e il 5%. Per chi opera nel mercato del credito, i rendimenti attesi sono prevalentemente in linea con gli ordinari tassi di mercato.

Circa il rischio finanziario associato alle operazioni di finanza per l’impatto, l’insieme di intervistati ha dato risposte eterogenee: il 45,5% dichiara un rischio maggiore delle operazioni ordinarie, mentre il 42,4% in linea ed un 15,2% inferiore. È rilevante osservare che la percezione di maggiore rischiosità è sensibilmente differente tra investitori equity e operatori sul mercato del credito, essendo questi ultimi più orientati ad una percezione di rischio minore.

Tra i criteri di screening adottati dagli operatori per l’impiego del capitale, il più utilizzato è l’analisi del modello di business (83,3%) seguito dal potenziale del progetto imprenditoriale di rispondere a un bisogno sociale (66,7%) e dalle competenze manageriali e tecniche del team (30%). Da ciò si evince che per un terzo degli operatori l’impatto sociale rappresenta una condizione di eleggibilità dell’operazione finanziaria ma non un criterio di screening vero e proprio.

Tra le strategie di exit, riconosciute come un possibile ostacolo agli investimenti, prevalgono l’acquisizione delle quote da parte di altri investitori e il management buyout, mentre ancora irrilevante è l’aspettativa della possibile nascita di mercati organizzati per i titoli a impatto sociale. Dal punto di vista delle barriere che ostacolano lo sviluppo dell’industry, prevalgono la mancanza di competenze finanziarie dei soggetti investiti, debolezza dei social business model e un’assenza di politiche pubbliche.

Specularmente, tra le azioni necessarie a sviluppare l’industry, viene segnalata una necessità di azioni di capacity building tra le imprese che perseguono obiettivi di impatto sociale, lo sviluppo di azioni pubbliche volte alla semplificazione, nuovi schemi di partenariato pubblico-privato, la modellizzazione e l’omologazione dei processi e dei metodi utilizzati nei processi di investimento.

Coerentemente, il 60% degli intervistati considera il settore pubblico l’attore decisivo nell’imprimere un’accelerazione all’industry.

Il presente studio descrive un ecosistema che, seppur ancora di nicchia, contiene caratteristiche antropologiche, valori, modelli e strumenti che potranno giocare un ruolo decisivo nel fecondare una transizione dell’industria finanziaria mainstream verso un modello compatibile con le grandi sfide ambientali e sociali emergenti. Un laboratorio di innovazione e trasformazione che si propone come esempio per il ripensamento dei modelli di gestione di triliardi di asset affinchè possano generare insieme valore economico e sociale ristabilendo un rapporto più positivo con la società, con le comunità, con gli individui.

Il report completo è scaricabile dal sito www.tiresia.polimi.it