L’industria a supporto dell’insegnamento: la collaborazione tra Chateau d’Ax e la School of Management del Politecnico di Milano

Chateau d’Ax e la School of Management del Politecnico di Milano hanno realizzato un project work nel quale gli studenti hanno risposto con progetti e strategie ad una challenge reale proposta dalla storica azienda nel settore dell’arredamento. L’azienda ha selezionato i tre migliori progetti tra i 258 realizzati.

 

La collaborazione tra università e aziende è di importanza strategica sia per l’occupabilità dei futuri laureati, sia per le aziende che sempre più si rivolgono agli atenei per ottenere analisi e proposte di tipo strategico e innovativo. La challenge organizzata ogni anno all’interno del corso di Laurea Magistrale di Strategy & Marketing di Ingegneria Gestionale è un esempio concreto che permette ai laureandi di confrontare le competenze maturate durante il percorso di studi con le attività delle imprese: una sfida lanciata dall’azienda a cui gli studenti devono rispondere progettando soluzioni innovative  utilizzando a supporto gli elementi teorici appresi durante il corso.

Per quest’anno accademico, la School of Management ha scelto di collaborare con Chateau DAx. “Abbiamo deciso di coinvolgere Chateau dAx e il settore dellarredamento – spiega Francesca Capella, project manager del progetto e research fellow del Politecnicoperché si tratta di uno dei settori ai quali la pandemia ha richiesto maggiormente di reinventarsi, di definire nuove strategie di posizionamento e un nuovo approccio al mercato per rimanere competitivi nonostante il momento di difficoltà.”

Sono più di 250 i project work sviluppati dagli studenti per Chateau D’Ax che hanno preso in considerazione gli ambiti di maggior interesse per lo sviluppo dell’azienda all’interno di un mercato complesso e in rapido mutamento: materie prime e sostenibilità, economia circolare, innovazione di prodotto, esposizione del prodotto e, infine, comunicazione.

Abbiamo aderito volentieri alla proposta del Politecnico di Milano perché crediamo molto nella collaborazione tra industria e università e che il suo sviluppo possa contribuire concretamente a formare una classe dirigente migliore e più preparata. – racconta Alessandro Colombo, direttore generale di Chateau d’Ax – Abbiamo condiviso con gli studenti gli ambiti nei quali si sviluppa la nostra strategia e abbiamo lasciato liberi i ragazzi di sviluppare le loro visioni”.

“Abbiamo selezionato 10 progetti su un totale di 258 – prosegue Capella – in base all’innovatività dell’idea, alla struttura della proposta sviluppata e alla capacità di utilizzare tool e costrutti teorici applicati ad una challenge di business reale. I progetti sono stati presentati dagli studenti stessi al management di Chateau d’Ax che li ha commentati ad uno ad uno dando agli studenti preziosi consigli di esperienza di vita aziendale”.

Continua Alessandro Colombo: “Da questi 10 progetti abbiamo selezionato i 3 migliori per l’articolazione della struttura, la comprensione delle opportunità derivanti dall’attuale scenario economico, ad esempio il Recovery Fund, e gli economics analizzati. Infine, la nostra valutazione si è basata anche sulla presentazione dei progetti in video call e sull’approccio più o meno spigliato che hanno manifestato gli studenti.”

Questo incontro ravvicinato tra Chateau d’Ax e la School of Management  è importante sia per l’azienda, perché permette di incontrare i futuri manager con uno strumento di employer branding efficace, sia per gli studenti, perché hanno l’opportunità di confrontarsi con una realtà aziendale in continua evoluzione.

Per i futuri laureati che hanno presentato i 10 progetti più in linea con la strategia aziendale, Chateau d’Ax offrirà dei percorsi di “training&job” per accompagnare gli studenti verso l’acquisizione di conoscenze e lo sviluppo di capacità personali funzionali per l’avvio di una carriera professionale in diversi ambiti aziendali.

 

Cambiamento climatico: un grado in più di temperatura costa mancati ricavi alle imprese italiane

Analizzate oltre un milione di aziende per dieci anni (2009-2018): Centro e Nord Est le zone più colpite. Le maggiori perdite si registrano nei settori costruzioni, finanza, estrazioni e ICT, pochi danni a turismo, agricoltura e trasporti.

 

Il cambiamento climatico costa al sistema economico, e non poco: esaminando dieci anni (2009-2018), un grado in più di temperatura ha determinato una riduzione media di fatturato e redditività per le imprese italiane pari rispettivamente a -5,8% e -3,4%. Se poi si considerano le variazioni effettive della temperatura nelle varie aree geografiche, nel solo 2018 – anno particolarmente caldo – il nostro tessuto imprenditoriale ha registrato mancati ricavi per 133 miliardi di euro, con le maggiori perdite percentuali al Nord Est e al Centro.

È quanto emerge dal primo anno di attività dell’Osservatorio Climate Finance della School of Management del Politecnico di Milano, che lo scorso 27 aprile 2021  ha presentato i principali risultati in un convegno online dove sono intervenuti istituzioni, imprese, investitori e associazioni di categoria. Il surriscaldamento globale è ormai a pieno titolo un tema economico.  “Abbiamo sviluppato un database che incrocia le informazioni economico/finanziarie su 1.154.000 imprese in Italia tra il 2009 e il 2018 (22 milioni in Europa) con i dati metereologici di temperatura, piovosità, irraggiamento solare dal 1950 – spiega Vincenzo Butticè, vicedirettore dell’Osservatorioper trovare evidenze empiriche solide sul rapporto che lega clima e sistema economico”. Ne sono derivate metriche affidabili per supportare gli enti regolatori, le istituzioni finanziarie e le realtà produttive nell’analisi economico/finanziaria del cambiamento climatico.

L’Osservatorio ha infatti calcolato i danni reali, non ipotetici, dovuti all’aumento della temperatura di 1 grado centigrado in Italia: le piccole imprese sono quelle che più hanno perso in redditività, mentre le grandi realtà, potendo meglio agire sui costi e sui processi, nonostante una diminuzione di ricavi e di domanda, hanno contenuto meglio le perdite in marginalità.

Tra i settori, ad aver patito i maggiori contraccolpi dall’aumento di temperatura sono le costruzioni, la finanza e le estrazioni. L’information technology, il real estate e la ricerca e innovazione hanno visto lo stesso calo di fatturato (-6,4%) a fronte però di una diminuzione della marginalità più contenuta. Il manifatturiero e il retail sono i settori che si sono meglio difesi, preceduti solo da agricoltura, turismo e trasporti.

In termini geografici invece, sempre a fronte di un grado in più di temperatura, la ricaduta è stata peggiore nel Centro Italia e nel Nord Est, dove però le aziende sono riuscite a conservare una maggiore marginalità. Il Nord Ovest ha visto una brusca perdita di redditività ma non altrettanto di fatturato, mentre il Sud e le Isole hanno risentito poco dei cambiamenti climatici.

Esaminando invece il calo di fatturato in cifre assolute, le perdite decisamente più consistenti si sono registrate in Lazio, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana.

La gestione delle conseguenze del cambiamento climatico e le strategie di mitigazione rappresentano la maggiore sfida che le economie mondiali dovranno affrontare nel corso nei prossimi anni – commenta Roberto Bianchini, direttore dell’Osservatorio Climate Finance -. Ad esempio, l’analisi mostra come un’alluvione possa costare alle aziende del territorio colpito fino al 4% di fatturato e una perdita di valore degli attivi di bilancio di circa lo 0.9%, che sale all’1,9% nel caso di un incendio di vaste proporzioni. Anche l’emergenza mondiale legata alla pandemia ha contribuito ad aumentare la percezione del rischio, perché ha mostrato come gli attori economici subiscano conseguenze non solo in modo diretto, ma anche indiretto, attraverso i canali della domanda, dell’offerta o della propria catena di approvvigionamento”.

Dal punto di vista regolatorio e normativo, nel corso degli ultimi mesi sia la Commissione Europea che le agenzie di regolazione hanno redatto un numero elevato di documenti per migliorare la comprensione delle interrelazioni fra rischi climatici e attività economiche. Un esempio è costituito dalla “Tassonomia verde”, un documento che identifica, all’interno dei diversi settori, gli interventi in grado di promuovere l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici evitando nel contempo impatti negativi sull’ambiente.

E’ estremamente importante individuare i rischi e identificare strumenti e metriche per quantificare l’esposizione climatica delle attività in portafoglio. In questa direzione rilevante è l’azione della BCE, che ha condotto un’analisi su circa 4 milioni di imprese e 2.000 banche per identificare l’esposizione del sistema finanziario fino ai prossimi 30 anni. Lo studio rivela che i costi per adottare ora strategie di adattamento e mitigazione sono di gran lunga inferiori a quelli che si rischia di dover pagare in futuro: secondo la BCE, la probabilità di default delle banche sarà tanto più elevata quanto minori saranno le azioni intraprese dal sistema economico per modificare la traiettoria di incremento della temperatura.

 

Per maggiori informazioni: https://www.osservatoriefi.it/efi/2021/04/28/climate-change-finance-rischi-e-opportunita-per-le-imprese/

Road to Social Change: un percorso per formare i Social Change Manager del Terzo Settore

La School of Management è uno dei partner promotori di “Road to Social Change”, un progetto dedicato al Terzo Settore che può oggi giocare un ruolo da protagonista nel processo di ripartenza del Paese.

L’iniziativa “Road to Social Change”, nata da un’idea di UniCredit nell’ambito della sua Banking Academy, è stata sviluppata in collaborazione con AICCON, Politecnico di Milano – Centro di Ricerca Tiresia, MIP Graduate School of Business, Fondazione Italiana Accenture e TechSoup.

Si tratta di un percorso di formazione orientato a formare i Social Change Manager, nuove figure professionali che potranno contribuire alla trasformazione e alla crescita del terzo settore. Il Social Change Manager è un professionista in grado di sviluppare una visione trasformativa e, in collaborazione con le comunità locali, di implementare tale visione tramite processi di co-progettazione e co-produzione in partenariato con attori pubblici e privati del territorio, attraverso strumenti di gestione dell’impatto generato e di tecnologie digitali.

Il percorso si articola in 7 Digital Talk nazionali, 14 incontri territoriali, due per ciascuna area territoriale (Sicilia, Sud, Centro, Centro Nord, Nord Est, Nord Ovest, Lombardia), e contenuti video on demand disponibili sulla piattaforma IdeaTre60 di Fondazione Italiana Accenture. Il percorso, partendo dalla formazione e grazie all’attivazione di una rete virtuosa con stakeholder di rilievo nazionale e locale, mira a innescare, valorizzare e accompagnare processi di cambiamento e innovazione ad alto impatto sui territori e sulle comunità che lo abitano.

Al termine del percorso, i partecipanti che avranno frequentato almeno 5 incontri nazionali, due territoriali e avranno fruito di tutti i contenuti on demand potranno ottenere l’Open Badge di Social Change Manager (una certificazione digitale di conoscenze e competenze acquisite) rilasciato dal MIP – Politecnico di Milano Graduate School of Business.

Parallelamente al percorso di formazione, il progetto prevede anche la “Call Road to Social Change”. Le organizzazioni del Terzo Settore sono invitate a proporre progetti di community building a forte ricaduta sociale sui territori, capaci di fornire soluzioni in grado di rendere più solide e coese le comunità, stimolando innovazione e nuove economie.
I 7 vincitori, uno per ciascuna area territoriale, potranno ricevere contributi economici e accompagnamento allo sviluppo delle idee progettuali da parte di Fondazione Italiana Accenture, Politecnico di Milano e TechSoup.

Per maggiori informazioni sul progetto e su come iscriversi:  https://www.unicredit.it/it/chi-siamo/educazionefinanziaria/unicredit-talk/road-to-social-change.html

Venture Capital: il primato di Londra

Qual è la distribuzione geografica del Venture Capital (VC) in Europa? Si concentra in poche aree preferenziali o, piuttosto, siamo di fronte ad una crescente dispersione del VC al di fuori delle grandi aree metropolitane?

 

Il Venture Capital è un’importante risorsa finanziaria per la crescita delle start-up innovative, che contribuiscono in modo significativo alla competitività internazionale di un Paese, in quanto motore essenziale di innovazione, creazione di posti di lavoro e sviluppo economico.

Conoscere la distribuzione geografica degli investimenti di VC è quindi utile per capire come si sviluppano gli ecosistemi imprenditoriali in Europa e di conseguenza costituisce uno strumento prezioso nel momento in cui si approcciano politiche di innovazione.

Attraverso l’analisi e l’interpretazione dei dati nel DATASET VICO di RISIS (European Research Infrastructure for Science, technology and Innovation policy Studies) è stato possibile descrivere i modelli di agglomerazione dell’attività di VC a livello regionale, metropolitano e industriale, e dare così una risposta a queste domande.

Lo studio, realizzato da Massimiliano Guerini, Massimo Colombo e Francesca Enrica Tenca della School of Management del Politecnico di Milano, identifica una serie di evidenze chiave.
Il Regno Unito e la Francia sono i mercati più importanti per il VC in termini numerici, mentre i Paesi dell’Europa dell’Est e Israele hanno i tassi di incidenza più elevati (deal VC/PIL). Inoltre, l’attività di VC si concentra per lo più nelle grandi aree metropolitane, con livelli di concentrazione crescenti fra il 2010 e il 2018. In particolare, la città di Londra, che rappresenta di gran lunga il principale hub per le attività di VC, fra il 2010 e il 2018 ha registrato una crescita delle suddette attività pari al +50%, contro un modesto +6% di Parigi (il secondo hub più importante), e un +23% di Tel Aviv (terzo hub in termini di attività di VC). Alcune aree più piccole in termini di attività di VC hanno registrato tassi di crescita considerevolmente elevati tra il 2010 e il 2018, fra queste Budapest (+167%), Milano (+62%) e Tallinn (+124%).

Si rilevano, inoltre, importanti differenze fra i vari settori. Il settore life science mostra una marcata dispersione dell’attività di VC al di fuori dei principali hub, soprattutto in aree caratterizzate da un’importante attività di knowledge creation. Al contrario, nei settori Software, Internet & TLC, e R&D & engineering l’attività di VC si concentra nelle grandi aree metropolitane.

I risultati dello studio hanno implicazioni politiche rilevanti in termini di democratizzazione dell’accesso al VC nelle aree più periferiche e per lo sviluppo dell’imprenditorialità e invitano al dibattito sulla strutturazione della ricerca e delle politiche di innovazione.

 

Per maggiori informazioni:
Policy Brief
https://www.risis2.eu/

Presentazione dello studio (evento online):
30 aprile 2021
ore 14.00-16.00
7th RISIS Policymakers SessionDemocratising access to smart money in EU, evidence form the VICO-DATASET

 

Milano Digital Week 2021: gli eventi della School of Management

 

Anche quest’anno il Politecnico di Milano partecipa alla quarta edizione della Milano Digital Week, un’iniziativa promossa dal Comune di Milano che si svolgerà dal 17 al 21 marzo.

Un’edizione completamente online a tema “Città Equa e Sostenibile”, tema riferito a una Milano che vede un suo nuovo orizzonte delinearsi sotto il profilo economico, sociale e ambientale.

Dal lavoro all’ambiente, dalla mobilità all’economia, dalla cultura alla formazione, dalla sostenibilità ai media: questi sono gli ambiti che abbracciano in maniera trasversale la manifestazione e su cui si sviluppa un palinsesto di oltre 650 eventi online composto da talk, webinar, workshop, lectio magistralis, grande cinema, performance e installazioni sonore.

 

In particolare la School of Management del Politecnico di Milano prenderà parte alla manifestazione con le seguenti attività:

18 Marzo, ore 15:00: Le Energy Community come leva per lo sviluppo sostenibile delle città

18 Marzo, ore 16:30: Tecnologie digitali per una filiera agroalimentare circolare inclusiva

19 Marzo, ore 16:30: Le startup in prima linea per fronteggiare l’emergenza sanitaria

19 Marzo, ore 17:00: GIFT – enGIneering For sporT for all Perché lo sport non crei più esclusione sociale

 

La Scuola è inoltre coinvolta nei seguenti eventi:

17 Marzo, ore 18:00: Opening – “Data Language | Il Linguaggio Dei Dati. Dialoghi, Storie e Persone dietro ai Dati”
(a cura di Comune di Milano, Assessorato alla Trasformazione digitale e Servizi civici)

18 Marzo, ore 10:00: The Next Normal – How digital and circular economy will help companies for growth beyond coronavirus
(proposto da Cariplo Factory, Fondazione Silvio Tronchetti Provera)

18 Marzo, ore 14:30: Digital e green: fare bene la spesa è una questione di etichetta
(proposto da GS1 Italy)

19 Marzo, ore 17:00: Cosa il 5G può fare per te: il progetto BASE5G
(proposto da Politecnico di Milano, AKKA, VODAFONE, LIFE, YAPE e ANOTHEREALITY)

20 Marzo, ore 10:00: Inclusione finanziaria e competenze digitali. Per una nuova cittadinanza consapevole e informata (la sfida della complessità)
(proposto da Banca d’Italia, sede di Milano)

 

Per consultare l’intera rassegna eventi di ateneo clicca qui.

Per maggiori informazioni sulla manifestazione: https://www.milanodigitalweek.com/

“Inclusione: costruire una societa’ migliore per tutti”: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #5 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

In questo numero intitolato “Inclusion: shaping a better society for all” discutiamo del tema dell’inclusione, declinato in ambito universitario, lavorativo e sociale.

Ne parliamo con Donatella Sciuto, Prorettrice del Politecnico di Milano, che ci racconta come le università possano contribuire a ridurre il divario di genere nello studio delle materie STEM, e debbano farsi promotrici di un’inclusione a tutto tondo, creando le condizioni per accogliere la diversità in tutte le sue forme.

Diversità che può essere valore aggiunto nelle aziende, come spiega Guido Micheli nel suo editoriale sull’inclusione dei lavoratori disabili.

Emanuele Lettieri racconta la sfida dell’Healthy Ageing, ossia come invecchiare in salute ed essere “inclusi” come soggetti attivi e partecipativi nella società il più a lungo possibile.

Infine una riflessione di Lucio Lamberti e Alessandro Perego sulla progressiva “remotizzazione” del lavoro e della formazione, che ha stravolto tutti i modelli sociali tradizionali, e la proposta di una piattaforma multidisciplinare per lo studio di benefici e costi sociali della nuova remote economy.

Nelle “Stories” alcuni nostri nuovi progetti di ricerca e azioni sul territorio: dal percorso di dottorato sulla sostenibilità aerea, ai risultati dei Food Hub di quartiere nella lotta contro lo spreco alimentare.

 

Per leggere SOMe #5 clicca qui.

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I numeri precedenti:

  • # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”
  • Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses
  • #2 “Being entrepreneurial in a high-tech world”
  • #3 “New connections in the post-covid era”
  • #4 “Multidisciplinarity: a new discipline”

Includere a distanza: la sfida del benessere nella società post-Covid

La pandemia di Sars-Cov2 ha affermato il ruolo dell’abitazione come luogo centrale di lavoro e vita privata, stravolgendo tutti i modelli sociali tradizionali. La tecnologia ha permesso di portare avanti il sistema economico in modo efficace anche a distanza, ma quali sono le conseguenze della “remotizzazione” sul benessere degli individui? La School of Management propone una piattaforma multidisciplinare per lo studio di benefici e costi sociali della remote economy.

 

Lucio Lamberti, Professore Ordinario di Multichannel Customer Strategy, Coordinator of the Physiology, Emotion and Experience Lab
Alessandro Perego, Direttore accademico School of Management Politecnico di Milano

L’inclusione e l’inclusività sono temi fondamentali per lo sviluppo sostenibile: una questione ampia, multidimensionale, che richiede non solo uno sforzo trasversale, ma chiare progettualità verticali attraverso le quali contribuire a un reale progresso collettivo. Tra le varie iniziative intraprese dalla nostra Scuola, una rappresenta per noi un tema che concilia le nostre sensibilità, le nostre competenze e il tipo di contributo che la nostra istituzione può offrire: l’analisi delle ricadute della mediazione tecnologica dei rapporti di studio e lavoro.

La pandemia di Sars-Cov2 ha infatti riaffermato il ruolo dell’abitazione come luogo centrale di lavoro, vita privata, acquisto, raccolta di informazioni, studio, intrattenimento, attraverso l’enorme accelerazione di fenomeni come il Working From Home (WFH) e il distance learning.
Negli ultimi mesi, con una virulenza e una rapidità impensabili, si sono trasformati i modelli sociali degli individui e delle famiglie. Milioni di persone hanno cominciato a lavorare e studiare assiduamente da casa, e, per quanto possa essere presumibile una forma di ritorno a dinamiche sociali più canoniche una volta – si spera presto – rientrata la fase pandemica, si stanno iniziando a osservare fenomeni di alienazione (o perlomeno depauperazione del valore esperienziale) legati alla perdita della dimensione fisica della socialità, se non addirittura manifestazioni della cosiddetta Sindrome della Capanna (o del Prigioniero), ovvero la paura del ritorno a una normale interazione fuori casa con il resto del mondo di chi è costretto a restare chiuso in uno spazio per un tempo più o meno lungo.

Inoltre, dopo una fase di attenzione all’abilitazione tecnologica e organizzativa del WFH e del distance learning, è giunto il momento di valutarne l’efficacia comparata ai modelli tradizionali. Ci troviamo di fronte a fenomeni di portata storica: da un lato, si pone un tema di inclusione e tenuta sociale, in quanto la remote economy estremizza le conseguenze di distacco sociale delle fasce meno digitalizzate della popolazione, che spesso sono anche le fasce più vulnerabili della popolazione (es. famiglie a basso reddito, anziani, disabili).
D’altro canto, nella complessissima equazione sociale che stima benefici e costi sociali di una progressiva “remotizzazione” del lavoro e della formazione, i termini relativi all’efficacia (qualità dell’apprendimento, produttività, innovatività, ecc.) e al benessere degli individui coinvolti (soddisfazione, qualità di vita, socialità) risultano ancora sostanzialmente ignoti.

Si tratta di driver di coesione sociale, benessere individuale, efficienza ed efficacia nel lavoro e nello studio, sviluppo relazionale ed emotivo che, ragionando per estremi, potrebbero essere conquiste epocali in grado di generare sviluppo sostenibile (meno traffico, meno inquinamento, maggiore inclusività, rivitalizzazione delle aree non urbane), o pericolose minacce di deterioramento del benessere economico, della qualità di vita e della qualità del capitale umano, se non di ingenerazione di tensioni individuali, familiari e sociali.

La School of Management ha intrapreso un percorso di ricerca multidisciplinare e multipiattaforma sul benessere dell’individuo nella remote economy volto specificatamente a qualificare e quantificare le dinamiche di relazione, ingaggio e produttività legate al WFH, le dimensioni dell’efficacia del distance learning, i fattori di costo e beneficio sociale della “remotizzazione” dei rapporti di studio/lavoro.

Per fare questo, si vuole (e si deve) attingere all’ampio ventaglio di competenze che la Scuola può esprimere: il MIP, business school ai vertici mondiali nel distance learning; gli Osservatori Digital Innovation, che analizzano da più di dieci anni fenomeni come lo Smart Working, la digitalizzazione delle case e i modelli di relazione mediati dalle tecnologie; il Laboratorio IOT, che sviluppa e studia modelli di interfaccia tra gli individui e dispositivi connessi; il Laboratorio Pheel, che studia e misura, in chiave multimodale e a partire dalla biometria, l’efficacia e la reazione delle interfacce e delle esperienze sugli individui.

Ma anche un ventaglio così ampio di competenze rischia di non riuscire ad abbracciare la complessità del tema. Per questo, in ossequio al nostro piano strategico e a quello del nostro Ateneo, stiamo creando un sistema di relazioni con le altre anime del nostro Politecnico (ad esempio, i dipartimenti di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, Fisica, Ingegneria Civile, Meccanica, Design), con centri di ricerca in domini disciplinari altri da quelli politecnici (Psicologi e Sociologi, in primis), e con imprese e istituzioni co-interessate al tema.

La nostra piattaforma intende creare ambienti sperimentali che riproducano l’esperienza domestica per consentire la conduzione di esperimenti sulle esperienze di WFH e smart learning in termini di ergonomia, isolamento acustico, contestualizzazione, impatto dei materiali, user experience e dinamiche di produttività. Coerentemente con le attività di riflessione strategica sullo smart working del nostro Ateneo, intendiamo esplorare il tema del bilanciamento tra lavoro in presenza e a distanza per individuare soluzioni in grado di compendiare i vantaggi di entrambi limitandone le possibili aree di debolezza. A livello metodologico, intendiamo lavorare con dispositivi wearable a bassa invasività per condurre ricerche su benessere e stress con disegni longitudinali su panel mirati di popolazione. Per valutare l’efficacia di interventi educativi e di pratiche didattiche intendiamo sviluppare spazi di simulazione 3D, realtà aumentata e realtà virtuale e di prototipizzazione di interfacce di distance learning.

La chiave del progetto è la sua multidisciplinarietà: i problemi dello sviluppo sostenibile sono troppo complessi e multi-sfaccettati per essere affrontati in modo realmente efficace all’interno di un’area disciplinare come l’economia, il management o l’ingegneria.
E’ la contaminazione, l’inclusione culturale la vera chiave di innovazione, ed è in questa direzione che le istituzioni di ricerca, in ogni campo, dovrebbero muoversi.

 

Inclusione: costruire una società migliore per tutti

Intervista a Donatella Sciuto, Prorettrice del Politecnico di Milano

 

Diminuire il divario di genere è parte dell’agenda 2030 degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, anche in relazione all’incidenza femminile nell’ambito delle materie STEM. Discipline che garantiscono tassi di occupazione molto alti ma sono ancora prevalentemente appannaggio degli uomini. Quali sono i fattori che provocano questo divario?

I fattori sono diversi e riconducibili a mio avviso a tre dimensioni: individuale, di contesto e di cultura. Per individuale intendo le attitudini personali; per contesto l’ambiente in cui le ragazze crescono – la famiglia, la scuola, la comunità a loro più vicina; per cultura mi riferisco a quella di un paese o di un’area geografica, che con le proprie regole può influire nelle scelte individuali.

Ancora oggi esiste nel gioco dei bambini la distinzione tra i ruoli maschili e femminili: fin dall’asilo le bambine sono abituate a confrontarsi con determinati modelli e anche quelle cresciute con modelli diversi quando stanno con le loro compagne tendono ad adeguarsi al comportamento “atteso” per non essere emarginate. E crescendo le cose non cambiano, perché nell’adolescenza l’identità di gruppo è ancora più forte.

A livello di contesto familiare solitamente viene favorita una socializzazione di genere e lo stesso vale per l’esposizione alla scienza, alla matematica o alla tecnologia: le ragazze tendono ad essere meno esposte e quindi meno interessate a questi temi, probabilmente anche in virtù dell’identità di gruppo. Mancano i role model di riferimento, che in questa fase della crescita sono di tutt’altro tipo.
Nelle ragazze c’è spesso un livello di propensione al rischio più basso rispetto ai maschi, e proprio per questo le famiglie tendono a proteggerle maggiormente. In alcuni contesti le carriere scientifiche sono considerate più “a rischio” di altre, o comunque meno appropriate alle ragazze perché a maggioranza maschile, alimentando così la paura di un ambiente di lavoro ostile.

A livello culturale ci sono paesi in cui lo studio delle discipline scientifiche è più diffuso, come alcuni paesi dell’Asia, e le ragazze sono di conseguenza più propense a studiarle, anche se questo non si traduce poi necessariamente in carriere scientifiche. In Europa e nei paesi anglosassoni lo studio della scienza è meno diffuso, con l’eccezione dei paesi scandinavi in cui l’uguaglianza di genere è più radicata a tutti i livelli.

Alla luce di questo contesto, qual è il ruolo che devono avere le università nel ridurre il gender gap in questi percorsi di studi?

Possiamo fare tanto, e fin dai primi livelli scolari: lavorando con le scuole possiamo mostrare che scienza e tecnologia non hanno “genere” e sono divertenti e interessanti per tutti.
Con questo obiettivo al Politecnico di Milano negli anni scorsi abbiamo organizzato lezioni e laboratori scientifici per bambini delle scuole elementari in collaborazione con la rivista Focus Junior.

Per creare consapevolezza e favorire l’orientamento l’11 febbraio scorso, giornata che l’ONU dedica a celebrare le donne nella scienza, abbiamo pubblicato un video per aiutare le ragazze a prendere in considerazione ingegneria come percorso universitario.  Il video è ora in distribuzione nelle scuole superiori con cui siamo in contatto. Lavoriamo infatti molto con le scuole secondarie, e in particolare con i docenti di fisica e matematica per un confronto sull’insegnamento finalizzato all’ingegneria. Organizziamo inoltre le Summer School Tech Camp, dedicate agli studenti del terzo e quarto anno di liceo. I Tech Camp si svolgono in inglese, durano una settimana e prevedono lo sviluppo un progetto tecnologico (teoria e pratica) che vengono presentati alle famiglie.

Nel nostro ateneo abbiamo anche deciso di sostenere le ragazze con delle borse di studio specifiche. Il programma Girls@Polimi intende favorire la loro iscrizione ai corsi di laurea in ingegneria in cui sono meno rappresentate, offrendo un supporto economico supplementare finanziato da aziende: il primo anno ne avevamo 2, il secondo 12 e ora 20. Poi ci sono borse di studio per studentesse di laurea magistrale, e percorsi di mentoring, sempre in collaborazione con aziende.

Infine, ma questo vale come premessa, oltre a orientamento e sostegno, le università devono garantire l’uguaglianza e bandire qualsiasi forma di discriminazione.

Il nostro paese in Europa registra una percentuale di dottoresse di ricerca, in totale e anche nelle aree STEM, superiore a quelle di Spagna, Regno Unito, Francia e Germania (*rapporto del ministero dell’Istruzione sulle carriere femminili in ambito accademico, marzo 2020). Significa che stiamo andando nella direzione giusta per quanto riguarda la rappresentanza femminile a tendere oppure è solo un primo passo?

Siamo solo ai primi passi. Guardando i dati in maniera più attenta ci si rende conto che sono buoni perché le materie STEM comprendono spesso anche biologia e medicina, che non hanno mai avuto il problema di un divario di genere. Prendiamo ad esempio ingegneria biomedica: nel nostro ateneo le studentesse di questo corso sono il 50%. Tuttavia in altre aree le donne sono pochissime, come elettronica ed informatica ad esempio, in cui da noi il tasso femminile registra meno del 10%, sebbene le professioni informatiche siano richiestissime. A livello di dottorato i dati migliorano perché abbiamo molte studentesse straniere che decidono di studiare qui, quindi la presenza internazionale riduce il divario.

E’ vero che siamo in un periodo storico in cui c’è consapevolezza del problema e si registra un rinnovato interesse da parte delle aziende per ridurre il gender gap, in linea con gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals SDGs), ma la realtà mostra che è il pay gap ad essere ancora importante, e si verifica sin dal primo impiego e a parità di voti negli studi.

Per aiutare le donne dal punto di vista professionale è fondamentale eliminare il pay gap, e per la loro carriera considerarle nella prospettiva della diversità.
Un aumento della rappresentanza femminile è quindi relativo se è riferito solo ad alcune funzioni e a determinate aree aziendali, abitualmente più umanistiche.
In questo senso c’è ancora molto da fare e il giusto spazio nel mondo del lavoro deve essere ancora conquistato.

Oltre alle tematiche di genere, quali sono le sfide di inclusione che a tuo avviso sono più stringenti per il sistema della ricerca e dell’università?

Prima di tutto sostenere la carriera delle donne. Man mano che si sale nella gerarchia accademica le donne sono sempre meno, come rilevato dal rapporto italiano della CRUI. La carriera femminile non deve essere danneggiata dai compiti di cura e da una maternità, per esempio. Noi abbiamo creato un bonus economico per sostenere il rientro delle ricercatrici dopo la maternità e supportarle nella ripresa della loro attività di ricerca scientifica.

A parte questo, credo che in università il tema dell’inclusione debba essere affrontato a tutto tondo: la priorità è creare le condizioni per accogliere la diversità in tutte le sue forme.

Noi lo stiamo facendo con il programma “POP” (Pari Opportunità Politecniche) che ha l’obiettivo di garantire un ambiente di studio e lavoro che rispetti le identità di genere, le diverse abilità, le culture e provenienze. Essendo un ateneo internazionale è importante infatti anche imparare a vivere con persone che appartengono a culture diverse ed è un percorso in cui dobbiamo impegnarci tutti, docenti, studenti e personale amministrativo.  Per raggiungere questi obiettivi, nella riorganizzazione dei servizi del Politecnico dell’anno scorso abbiamo voluto creare una unità organizzativa che segua tutti gli aspetti, chiamata Equal Opportunities, all’interno dell’area Campus Life.

Le persone non devono essere giudicate dalle apparenze, bensì dai meriti.  Solo eliminando ogni tipo di stereotipo o pregiudizio possiamo costruire un mondo inclusivo per tutti.

 

Sostenibilità nel fashion: seconda edizione del premio di laurea “Save The Duck”

Cinquemila gli euro messi in palio dal marchio di piumini 100% animal free per la migliore tesi che affronti il tema della sostenibilità nel fashion, con un focus sui materiali vegetali o sintetici o sui modelli di consumo sostenibili e circolari.

 

E’ giunta alla seconda edizione l’iniziativa lanciata da Save The Duck, in collaborazione con la Sustainable Luxury Academy della School of Management del Politecnico di Milano, l’Osservatorio permanente sul lusso sostenibile nato per riunire le voci più influenti dell’industria dell’alto di gamma e incidere positivamente sul mercato.

Al premio di laurea, del valore di 5.000 euro lordi, potranno partecipare gli studenti che abbiano conseguito il titolo di laurea magistrale al Politecnico di Milano tra aprile 2020 e aprile 2021, in tutti i corsi di studio, con una votazione non inferiore a 100/110. Le candidature vanno presentate sul sito del Politecnico di Milano nella sezione «Borse di studio e premi di laurea (non DSU)» entro le 12 del 14 maggio 2021, il vincitore sarà proclamato a fine giugno 2021.

La partnership tra la School of Management e Save The Duck nasce nel 2019 per offrire sostegno concreto ai giovani che si impegnano per un futuro a minore impatto ambientale e sociale.

Sensibilizzare maggiormente il settore del lusso sui temi della sostenibilità e della responsabilità sociale a partire dalle nuove generazioni, è un obiettivo che da anni ci siamo prefissi, e il premio di laurea con Save The Duck va esattamente in questa direzione – conferma Alessandro Brun, a capo della Sustainable Luxury Academy e direttore del Master in Global Luxury Management -. “Come School of Management abbiamo posto le tematiche ambientali, sociali e di governance al centro di tutti i nostri programmi e la risposta degli studenti è stata eccezionale: sono ormai moltissimi i giovani che nella loro tesi affrontano questi argomenti. Un premio che valorizzi i loro sforzi non può che innescare un circolo virtuoso, favorendo ulteriore interesse da parte dei futuri manager, designer e professionisti che domani guideranno il settore moda in Italia e nel mondo”.

Sostenibilità del trasporto aereo: un PhD in collaborazione tra easyJet e la School of Management

Diego Babuder, pilota easyJet, intraprenderà il percorso di ricerca quadriennale Executive del Programma di Dottorato in Management Engineering

 

Quest’anno la School of Management del Politecnico di Milano, in collaborazione con easyJet, avvia un dottorato Executive in Management Engineering incentrato sulla sostenibilità nel settore aereo. Il percorso pone il focus sulle sfide e sulle opportunità che l’innovazione digitale può avere in quest’ambito, con particolare attenzione a come le compagnie aeree possano contribuire alla decarbonizzazione del settore e a ridurre gli effetti del cambiamento climatico.

La sostenibilità ambientale è un cardine della strategia di sviluppo di easyJet, che nel 2019 ha deciso di compensare le emissioni prodotte dal carburante impiegato su tutti i suoi voli per far fronte alle sfide globali poste dal cambiamento climatico. “Investire ora nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie rivoluzionarie come gli aerei ibridi, elettrici e a idrogeno, è il modo migliore di affrontare efficacemente le sfide globali poste dal cambiamento climatico per questo settore. Questo è un momento storico per l’aviazione commerciale e intendiamo svolgere un ruolo di primo piano nella transizione verso soluzioni capaci di ridurre significativamente l’impatto del settore aereo sull’ambiente” – commenta Lorenzo Lagorio, country manager easyJet Italia.

La transizione verso sistemi industriali più sostenibili e circolari è un processo inarrestabile e per l’aviazione commerciale rappresenta al contempo una sfida ed una grande opportunità. Non si tratta solo di innovazione tecnologica, ma di una complessiva trasformazione dei modelli di business con impatti sistemici a livello di settore che porterà alla nascita di nuove filiere – commenta Paolo Trucco, docente di sistemi industriali della School of Management e responsabile del progetto di ricerca con easyJetE’ per noi motivo di orgoglio e di grande stimolo poter studiare e indirizzare questi fenomeni attraverso una partnership di ricerca e formazione con un’azienda leader di settore come easyJet. E’ significativo poi che questa collaborazione abbia come fulcro il percorso di dottorato di un loro pilota; dimostrazione di quanto lo sviluppo del capitale umano sia alla base della capacità delle organizzazioni di trasformarsi e cogliere tutte le opportunità tecnologiche e operative per rendere il proprio business sempre più sostenibile”.

Diego Babuder, pilota easyJet da oltre 7 anni, ora neo-dottorando al Politecnico, è laureato in gestione del trasporto aereo nel Regno Unito e ha collaborato con il Politecnico di Milano alle lezioni del master di primo livello in “Fondamenti del sistema di trasporto aereo”. “Sono convinto che il trasporto aereo possa giocare un ruolo da protagonista nel contrasto al cambiamento climatico e porsi come esempio per molte altre industrie. C’è molto entusiasmo per i diversi filoni di ricerca che sono attualmente in corso, a partire da quelli che riguardano lo sviluppo dell’aereo ibrido ed elettrico e la produzione di carburanti sostenibili.”