Emergenza Covid in Italia: l’effetto startup da non vanificare

Le startup hanno nel proprio DNA la capacità di adattarsi al cambiamento e in questa emergenza hanno messo a disposizione idee, capacità di lavoro e velocità di reazione, spesso pensando prima all’interesse della comunità piuttosto che al ritorno economico. Un asset del nostro tessuto imprenditoriale che va sostenuto e incentivato.

 

Alessandra Luksch, Direttore Osservatorio Startup Intelligence
Osservatori Digital Innovation, School of Management Politecnico di Milano

 

L’emergenza Coronavirus ha stravolto il mondo consolidato delle imprese. Per fare qualche esempio, le industrie manifatturiere sono costrette a condizioni di lavoro inusuali, gli operatori logistici oscillano tra impennate nelle consegne e fermi totali, gli esercizi commerciali, banche comprese, devono attrezzarsi per una nuova gestione della clientela.
In questo contesto di repentino inatteso cambiamento, in cui le imprese tradizionali e le istituzioni sono disorientate, l’ecosistema startup sembra trovare vie per supportare la nuova quotidianità imposta.

La bresciana Isinnova ha risposto immediatamente all’emergenza e progettato valvole per i respiratori per i pazienti Covid-19, da installare su maschere da snorkeling. Ha poi rilasciato pubblicamente il brevetto per stampa 3D, a patto che non venisse usato a scopo di lucro. Oggi sono milioni i pezzi stampati in tutto il mondo e decine gli ospedali che provano la dotazione. Ufirst sta fornendo gratuitamente l’app di gestione delle code agli esercizi commerciali, così come si sta diffondendo in modo free la neonata Filaindiana per conoscere la lunghezza delle file nei negozi. Soldo, startup per la gestione delle spese aziendali, sta lavorando con decine di comuni, tra cui Milano, per gestire la distribuzione dei sussidi alimentari. Weschool ha donato a centinaia di scuole italiane la propria piattaforma di didattica a distanza, formando i docenti e sostenendo i costi per il servizio in cloud. E tante si stanno adattando al cambiamento come FrescoFrigo, che ora installa i suoi punti di consegna anche nei condomini. Non mancano anche i casi di fallimento, ma la lista può continuare, come sta monitorando l’Osservatorio Startup Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano.

Non siamo stupiti. Le startup hanno nel proprio DNA la capacità di adattarsi al cambiamento e in molti casi fanno del cambiamento la propria spinta propulsiva. Il modello lean startup, teorizzato da Eric Ries, è agile, resiliente, frugale, orientato alla sperimentazione veloce, alla centralità del cliente. Le startup sono abituate ad ascoltare costantemente il mercato, a testare in pochi giorni nuovi prodotti o nuovi mercati, a cambiare strategia, cliente, modello di business, a sfruttare le tecnologie. In questo frangente esse stanno mettendo a disposizione velocemente le loro principali risorse: idee e capacità di lavoro; spesso pensando prima all’interesse della comunità piuttosto che al ritorno economico.

Questo sforzo prodigioso, questo “effetto startup”, manifestatosi così forte in un momento così grave, non deve essere vanificato nel nostro Paese ma si spera possa essere valorizzato come patrimonio di sistema. Due, almeno, sono le riflessioni da cui parte questo augurio.

La prima riflessione è relativa all’effetto culturale. L’approccio mostrato dalle startup potrà essere la chiave di volta per affrontare le prossime fasi e portarci verso la nuova normalità. Le imprese tradizionali devono imparare a ragionare come le startup, per adattarsi e sopravvivere ai cambiamenti (come recita Darwin). In Italia già oggi il 35% delle grandi imprese collabora con le startup, come emerge dalle ricerche dell’Osservatorio Startup Intelligence, mentre è molto più limitato il fenomeno nelle PMI (4%). Le imprese tradizionali dovranno imparare a uscire dai propri modelli rigidi, dalle procedure impaludate, superare al proprio interno silos funzionali, o ancor peggio culturali. Dovranno saper prendere rapidamente decisioni, anche sulla base di errori perché, parafrasando una famosa citazione del pilota Mario Andretti, in questo momento dobbiamo andare veloci anche a rischio di non avere tutto sotto controllo. Superato questo drammatico momento, le imprese che avranno saputo adottare nuovi modelli culturali e di gestione d’impresa possiederanno un importante vantaggio competitivo rispetto a quelle che avranno solo cercato di limitare i danni.
Pochi giorni fa, lo stesso Henry Chesbrough, padre del concetto di Open Innovation, ha dedicato un articolo all’emergenza Coronavirus, in cui sottolinea che in tempo di crisi, come quello che stiamo vivendo a livello mondiale, la velocità è elemento cruciale. Prima conosciamo, prima possiamo agire. Altrettanto cruciale è sapere collaborare perché questo può potenziare il progresso collettivo, e Chesbrough chiama alle armi alcune note aziende affinché mettano a disposizione i propri bevetti (magari inutilizzati) e i propri asset per fronteggiare l’emergenza.

La seconda riflessione riguarda l’effetto sul sistema economico. Molte imprese stanno soffrendo l’assenza di liquidità. L’emergenza ha portato uno shock nell’offerta ma anche un profondo shock nella domanda. Si stima una caduta del Pil interno di quasi dieci punti percentuali (Confindustria); non va meglio nel resto del mondo (primo trimestre 2020 in Cina -6,8%) e per quasi tutte le imprese permane l’incertezza per il futuro. In questa condizione quasi tutti gli investimenti sono stati bloccati, per qualsiasi cifra superiore a zero. Gli investimenti in startup non fanno eccezione. In questo periodo i round di investimenti in Cina si sono dimezzati (Fortune Italia), e alcuni studi stimano che nel 2020 verranno perse decine di miliardi di dollari di investimenti in startup, con ulteriori ricadute drammatiche sull’ecosistema globale (Fortune Italia). Il nostro ecosistema di finanziamenti alle startup non ha le spalle larghe, esso non raggiunge il miliardo di euro, secondo i dati dell’Osservatorio Startup Hi-tech, ed è di gran lunga sottodimensionato rispetto a tutti i Paesi europei con noi confrontabili. Il lavoro degli investitori formali, i Venture Capital, non si è completamente fermato ed essi chiamano a gran voce, insieme alle associazioni, l’aiuto dello Stato per sostenere questo comparto della nostra economia, così come ha fatto la Francia con 4 miliardi di euro di sostegno alle startup. Le startup spesso non fatturano, non rientrando così nei requisiti dei piani liquidità attuali di sostegno alle imprese. Ma esse investono in Ricerca e Sviluppo, la linfa vitale per lo sviluppo, il progresso e la crescita del nostro Paese. Inoltre, esse sono fonte cruciale di nuova occupazione qualificata: negli Stati Uniti il 95% dei nuovi posti di lavoro è creato da imprese con meno di 5 anni (US Census Bureau). Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro la crisi attuale potrebbe causare 25 milioni di disoccupati in tutto il mondo, assai peggio della crisi del 2008. Fermare l’ecosistema startup potrebbe significare bloccare un meccanismo potente di riavvio e di crescita nel nostro Paese.

Per almeno questi motivi l’effetto startup a cui stiamo assistendo non deve essere vanificato, ma deve essere incentivato, per non compromettere una parte promettente del nostro tessuto imprenditoriale. Le startup non devono essere dimenticate, ma sostenute. Determinanti saranno gli interventi che il nostro Governo saprà mettere in campo, dall’iniezione di credito nei circuiti dei finanziamenti all’alleggerimento degli oneri a carico delle startup.
Nessuno sa ancora come sarà domani, ma la mentalità e l’ecosistema startup nel loro complesso potranno contribuire, come già ora fanno, alla ripartenza di tutto il nostro sistema economico.

La crisi globale da Covid-19 e le ripercussioni sul commercio internazionale e sulle catene globali del valore

Lo shock all’economia mondiale provocato dall’emergenza sanitaria Covid-19 è tanto globale quanto le catene del valore su cui si basa. Ma chiudere le frontiere e applicare restrizioni agli scambi non è una soluzione auspicabile: agire in modo coordinato può garantire una ripartenza efficace per tutti i sistemi economici, bilanciando le necessità e le capacità produttive dei singoli paesi.

 

Lucia Tajoli, professoressa di International Markets and European Institution
School of Management Politecnico di Milano

 

E’ ancora presto per avere dati ufficiali e stabilizzati, ma è oramai molto chiaro che la diffusione del cosiddetto COVID-19 e la associata pandemia stanno avendo effetti molto pesanti sull’economia mondiale, con chiare implicazioni anche per il commercio internazionale.
Il commercio internazionale risultava già in decelerazione nell’ultima parte del 2019, a causa del generale rallentamento del ciclo economico in molti paesi. I primi mesi del 2020 stanno confermando questo forte rallentamento degli scambi. La World Trade Organization (WTO) sta aggiornando in modo continuo le previsioni per l’anno in corso, che risultano al ribasso sia per gli scambi di beni sia per gli scambi di servizi a seguito dello shock sulla produzione e sulla domanda che si sta allargando a vari paesi. Dato l’elevato livello di incertezza però, le maggiori istituzioni internazionali non si azzardano ancora a fornire cifre precise. Anche le stime prodotte dal WTO nel mese di aprile sulla possibile caduta degli scambi mostrano un intervallo amplissimo, tra – 13% e – 32%.

La caduta del commercio internazionale è una conseguenza inevitabile della situazione attuale, dal momento che le aree al momento più coinvolte nella crisi sanitaria con gravi ripercussioni economiche sono quelle dei maggiori protagonisti del commercio mondiale: Cina, Unione Europea, ed USA generano oltre la metà dell’intero commercio mondiale. Dunque, l’impatto del rallentamento in questi paesi si fa sentire sui flussi di scambio a livello globale, anche in aree relativamente poco esposte al contagio.

Un aspetto particolare degli scambi commerciali rende più grave l’effetto della crisi e preoccupa gli osservatori. Da almeno venti anni è cresciuto il peso e il ruolo delle catene globali del valore nei mercati mondiali. Secondo un recente rapporto della Banca Mondiale, oggigiorno la maggior parte dei flussi di scambio tra paesi avviene all’interno delle catene globali del valore (o Global Value Chains, GVCs), ovvero è generato da processi produttivi che attraversano i confini dei paesi e coinvolgono nella catena di produzione di beni, soprattutto complessi, imprese specializzate localizzate in aree anche lontane. Il ruolo di queste catene globali del valore in questa crisi appare cruciale. Secondo alcuni osservatori, questa organizzazione internazionale della produzione ha creato un sistema economico fragile e maggiormente esposto agli shock internazionali. Il rischio di una interruzione della fornitura degli input necessari per la produzione è maggiore in una catena produttiva molto dispersa geograficamente. Inoltre, la presenza di queste catene produttive può amplificare la trasmissione degli shock secondo il cosiddetto “effetto frusta”. In presenza di uno shock negativo che colpisce quasi simultaneamente molti paesi economicamente connessi, il rallentamento della produzione di un sistema economico fornitore di input produttivi essenziali si trasmette ai sistemi connessi a valle, riducendone la capacità di produzione, aggiungendo un ulteriore stretta negativa al rallentamento locale della produzione (che può essere dovuto a fattori locali sia di domanda che di offerta), ed amplificando quindi lo shock. Le aree in cui la diffusione dell’epidemia è risultata maggiore sono tra loro strettamente collegate dalle GVCs in molti settori cruciali, dal tessile-abbigliamento all’elettronica di consumo. Per questo effetto di amplificazione dello shock, le previsioni sull’andamento dell’economia globale e sul commercio internazionale sono più negative che in qualsiasi altra crisi del passato.

E’ importante però ricordare che queste catene globali di produzione, anche se hanno reso più interdipendenti le diverse economie tra loro, hanno generato enormi guadagni di efficienza in moltissimi settori e hanno reso disponibili molti beni a prezzi che hanno consentito una diffusione di massa tra tutti i consumatori. Senza la specializzazione in specifiche fasi e componenti della produzione di alcuni paesi e di imprese collegate tra loro, molti dei beni oggigiorno di uso comune non sarebbero disponibili, o lo sarebbero a costi proibitivi. Inoltre, questa organizzazione della produzione ha consentito la partecipazione ai mercati internazionali anche a paesi emergenti che hanno trovato nelle GVCs una modalità di accesso a produzioni che non avrebbero potuto sviluppare in modo autonomo, generando così crescita, occupazione e diffusione della tecnologia.

Già prima dell’attuale crisi si parlava di una tendenza all’accorciamento delle GVCs e del cosiddetto “reshoring”, ovvero di riportare all’interno di alcuni paesi i cicli produttivi in precedenza delocalizzati all’estero. Questo perché questa organizzazione internazionale della produzione, anche se permette guadagni di efficienza e vantaggi di costo, per alcune imprese e alcuni settori risulta troppo complessa, con la perdita del controllo diretto su alcune fasi produttive ed un aumento dei rischi e dei costi organizzativi. In realtà, il fenomeno del reshoring è stato limitato ad alcuni paesi e ad alcune nicchie produttive particolari. La mancanza di controllo sul ciclo produttivo appare potenzialmente rischiosa per alcuni paesi, prima di tutti per la Cina, spingendola negli ultimi anni ad accorciare le proprie catene internazionali di produzione per ragioni soprattutto geopolitiche. Questa scelta ha avuto effetti a livello globale data la rilevanza economica di questo paese. Tuttavia, la crisi in corso potrebbe spingere ulteriormente sul ridimensionamento delle catene produttive internazionali, anche nel tentativo di ridurre l’interdipendenza dei paesi.

Va però ricordato che anche in questa fase di crisi, gli scambi tra paesi svolgono un ruolo fondamentale, ed è essenziale cercare di non ostacolarli eccessivamente. Il commercio internazionale spesso garantisce la disponibilità e l’accessibilità economica di medicinali vitali, prodotti medici e servizi sanitari, in particolare per i paesi più vulnerabili: nessun paese è completamente autosufficiente per i prodotti e le attrezzature di cui ha bisogno per i suoi sistemi di sanità pubblica. Anche molte attrezzature mediche sono prodotte all’interno di GVCs che rendono disponibili componenti avanzate non sempre facilmente prodotte in tutti i paesi. Inoltre, attraverso il commercio internazionale è possibile sopperire a carenze della produzione, oltre che di apparecchiature sanitarie e di farmaci, anche di varie tipologie di beni di prima necessità, distribuendo in modo più efficiente questi beni dove sono più necessari. In questa situazione di emergenza, nonostante la tentazione di alcuni paesi di chiudere le frontiere e di applicare restrizioni agli scambi per accumulare scorte, i governi si accorgono anche di avere bisogno gli uni degli altri e dell’importanza di agire per quanto possibile in modo coordinato a fronte di un problema che è assolutamente globale.

Un ridimensionamento drastico delle catene globali del valore avrebbe conseguenze molto serie, sia nel corso della crisi per gli effetti che questo avrebbe su molti approvvigionamenti, sia in seguito alla crisi impattando su molti settori fondamentali che si sono sviluppati grazie a questa interdipendenza. L’attuale crisi può però essere l’occasione per ripensare ad alcuni aspetti organizzativi di queste catene produttive, accettando un ribilanciamento tra vantaggi e rischi, nella direzione eventualmente di una parziale riduzione di efficienza per ottenere una riduzione dei rischi, per esempio accumulando maggiori scorte o diversificando di più i fornitori, i distributori o i canali logistici. Eppure, proprio una crisi così acuta e la necessità di assicurare una ripartenza efficace dei sistemi economici sottolinea l’importanza di non rinunciare ad una modalità di organizzazione internazionale della produzione che ha prodotto miglioramenti economici fondamentali, e di mantenere aperti gli scambi internazionali proprio come mezzo per bilanciare le necessità e le capacità produttive dei singoli paesi.

Figura 1 – Partecipazione dei paesi alle catene globali del valore (dati 2015)

Fonte: World Bank, World Development Report 2020

 

Figura 2 – Aumento tendenziale del coinvolgimento nelle GVCs nei settori produttivi

Fonte: World Bank, World Development Report 2020

I cambiamenti nella logistica a fronte del Covid-19

La pandemia Covid-19 ha imposto al settore della logistica, più che in altri, di adattarsi rapidamente alle nuove necessità dei territori, delle filiere e dei consumatori, sperimentando nuovi modelli collaborativi e organizzativi basati su flessibilità e digitalizzazione. Il punto di partenza per affrontare le prossime sfide.

 

Prof Marco Melacini, professore di Logistics Management, Direttore Osservatorio Contract Logistics “Gino Marchet”
School of Management Politecnico di Milano

 

La risposta all’emergenza che la popolazione sta vivendo vede in prima linea il sistema sanitario, a fianco del quale stanno lavorando altri comparti che forniscono i servizi essenziali. A garantire il loro funzionamento attraverso l’approvvigionamento di tutti i prodotti necessari, c’è la logistica, le cui origini in ambito militare hanno fornito i cromosomi per affrontare la sfida odierna. Sebbene siamo ancora in piena emergenza è utile cominciare a pensare alla “fase 2” e a come cambierà la logistica, soprattutto perché difficilmente il Paese riprenderà a funzionare come prima nel medio periodo e ci potranno essere diversi momenti di stop and go, magari con applicazione delle “zone rosse” a aree del Paese più limitate.

Il modo migliore per rispondere alla domanda su come cambierà la logistica è osservare la reazione mostrata nell’ultimo mese, che ha sconvolto la vita di ognuno e delle aziende, con particolare attenzione alla logistica della filiera farmaceutica e di quella alimentare, che hanno mantenuto una piena operatività.

In primo luogo, emerge l’importanza di adottare una strategia “agile” rispetto a una strategia maggiormente orientata alla minimizzazione dei costi in un contesto di domanda prevedibile. Concretamente questo significa lavorare con una maggiore ridondanza di risorse (in primis magazzini) per poter riallocare velocemente le scorte e superare le criticità, come lo stop delle attività, a livello locale. L’implementazione di tale strategia richiede anche un incremento della velocità decisionale, in cui le scelte devono essere sempre più data driven e dinamiche. Per la parte di pianificazione, un metodo adottato è stato lo smart working, la cui efficacia è stata maggiore per le aziende che avevano già sperimentato questa modalità di lavoro da remoto e che adottano tecnologie e software in cloud. Quest’ultime infatti facilitano l’accesso ai sistemi informatici da remoto e favoriscono l’incremento della visibility lungo la filiera.

Esiste poi una parte di attività che rimane forzatamente sul campo, come l’allestimento degli ordini e il trasporto. Su queste è fondamentale declinare il concetto di responsabilità sociale in termini di sicurezza del luogo di lavoro. Concretamente questo si è tradotto nella distribuzione dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) per tutti i lavoratori, nella frequente sanificazione dei luoghi di lavoro (magazzini, cabine dei mezzi di trasporto, ma anche risorse utilizzate come terminali o supporti di movimentazione come le cassette per la consegna dei farmaci), nel monitoraggio delle temperature corporee di tutte le persone prima dell’accesso al sito, oltre che nella revisione delle procedure operative (ad esempio per ridurre la condivisione di risorse, come le cuffie per il voice picking, o aumentare le distanze fra gli operatori). La riduzione dei “contatti” fisici sarà sempre più favorita dalla digitalizzazione della filiera, che consentirà ad esempio di evitare la stampa e la gestione cartacea dei documenti di trasporto.

La strategia “agile” si basa anche sul concetto di flessibilità, che consente di implementare velocemente le soluzioni più idonee per rispondere ai cambiamenti del contesto. In questa situazione le aziende sono riuscite ad essere flessibili grazie alla terziarizzazione della logistica e al modello di terziarizzazione adottato nel Paese. Alcuni operatori logistici hanno riallocato in poco tempo merci per oltre 25.000 m2 di occupazione di magazzino. La collaborazione orizzontale fra gli operatori della logistica conto terzi (un settore che vale oltre 84 miliardi di fatturato) è risultata e sarà sempre più fondamentale anche in un’ottica di sharing economy. La collaborazione ha significato l’impiego di camion/autisti fermi di operatori di altre filiere per gestire le crescite elevate della domanda e soprattutto i picchi improvvisi, generati nei consumi a fronte dei timori della popolazione. Analogamente è stato possibile spostare personale di magazzino da siti le cui attività si erano fermate, supplendo alla riduzione di capacità operativa a fronte di una fisiologica crescita dell’assenteismo. Il rapporto stretto fra azienda e lavoratore, tipico del modello cooperativo, ha favorito la comunicazione all’interno dell’azienda e la risoluzione di potenziali aree di rischio, oltre che una maggiore flessibilità operativa, volta a compensare parzialmente l’inevitabile perdita di produttività. Soprattutto si è passati ad una pianificazione giornaliera delle attività, lavorando in stretto contatto con le aziende committenti per allineare il più possibile la capacità logistica alla domanda di mercato. Tale attività è fondamentale per garantire la sostenibilità economica in un contesto a margini contenuti come la logistica conto terzi.

Il contesto che stiamo vivendo ha portato ad un modello di coordinamento specifico per le emergenze: riunioni frequenti di allineamento, adozione di scelte che nel breve periodo non sempre ottimizzano i costi (si pensi alla maggiore difficoltà di trovare i viaggi di ritorno o le distanze da rispettare in magazzino, a discapito della produttività) ma garantiscono la continuità del servizio, relazione di collaborazione con le aziende committenti che va oltre al contratto di outsourcing, con un approccio open book, e condivisione dei segnali di mercato e delle scelte operative.

A livello di macro-scelte strategiche, accanto all’analisi critica del livello di servizio da fornire in futuro in base alle riflessioni contingenti (ad esempio alcune aziende hanno ridotto il numero di consegne per punto di destino per ridurre la frammentazione degli ordini), emerge la centralità della capacità di consegna in ambito urbano, non solo a livello di consegne a domicilio (l’e-commerce ha fatto il salto definitivo per il suo sviluppo in Italia con crescite superiori al 50%) ma anche a livello di singolo punto vendita con la riscoperta del valore dei negozi di prossimità (spesso utilizzati anche come punti di allestimento per le consegne in ambito urbano in una prospettiva di omnicanalità). La stessa logistica urbana, con origine e destinazione all’interno della città, sarà sempre più importante. Sempre in ambito trasporto, si osserva lo sviluppo dell’intermodalità strada-ferrovia, fondamentale per superare i blocchi nel trasporto fra paesi della Comunità Europea, oltre che per gestire in futuro l’attraversamento/l’approvvigionamento di nuove “zone rosse”. Da ultimo l’automazione di magazzino, ad oggi ancora poco sviluppata, sarà sempre più rilevante anche per favorire il lavoro in luoghi protetti e con minore concentrazione di persone.

Tempi di attraversamento alle “frontiere” fra gli Stati Europei (fonte: sixfold.com/covid-19)

In conclusione, anche per la logistica non si tratta semplicemente di tornare alla “normalità”, ma di trovare nuovi equilibri che ci permetteranno di affrontare non solo questa sfida ma quelle future, quali il rischio di una recessione economica e la necessità di una sempre maggiore attenzione al tema del cambiamento climatico.

 

Al MIP la Corporate Education è digitale

L’offerta formativa rivolta alle aziende si trasferisce completamente online per far fronte alle restrizioni causate dal Covid-19. Un passaggio agevolato da una didattica concepita per essere versatile, flessibile e al servizio delle imprese, come spiega Davide Chiaroni.

La formazione non si ferma. Prosegue, invece, online. Vale anche per l’offerta Corporate Education del MIP Politecnico di Milano che, già in larga parte fondata sull’esperienza digitale, ha accentuato questa sua caratteristica per rispondere alle necessità delle aziende. «L’esperienza accumulata negli ultimi anni con D Hub, la nostra piattaforma di e-learning, non solo ci ha permesso di proseguire nell’erogazione della nostra offerta formativa», spiega Davide Chiaroni, Associate Dean for Corporate Relations del MIP, «ma anche di rimodularla sulle improvvise esigenze emerse dal diffondersi del Covid-19».

Sfruttare il tempo per formarsi

Sono tre, in particolare, le linee che il MIP ha deciso di seguire in questa periodo così delicato. «In primo luogo, abbiamo voluto manifestare vicinanza alle nostre imprese. L’abbiamo fatto diffondendo tramite i nostri canali digital un webinar gratuito incentrato sull’impatto che il coronavirus sta avendo sull’economia, affrontando temi urgenti, come la gestione dello smart working o della supply chain in un momento segnato da una disruption così importante», spiega Chiaroni. «Il secondo fronte verrà aperto a breve: si tratta della piattaforma D-Hub Management Skills, fruibile fino alla fine del 2020, che ospiterà le oltre 950 clip prodotte dalla nostra business school. È un’iniziativa rivolta a dipendenti, collaboratori di impresa, associazioni e fondazioni. Una vera e propria library ad hoc al servizio delle imprese, uno strumento con cui trasformare questo periodo di eccezionale difficoltà in un’opportunità di rilancio attraverso la formazione delle proprie risorse». Infine, un terzo punto: «Se da una parte alcune imprese hanno ridotto la propria attività, dall’altra molte aziende legate ad ambiti specifici come quello farmaceutico o finanziario si sono ritrovate nell’esigenza di gestire dati e progetti a ritmi molto più elevati. Significa che le persone vanno formate per agire in maniera più veloce ed efficace. Per loro stiamo facendo lo sforzo di riprogettare ulteriormente la nostra offerta formativa in digitale, perché ciò che era previsto nell’aula fisica ovviamente in questo momento non è praticabile».

Capire e fare: l’offerta Corporate

Gli indirizzi dell’attività formativa, comunque, non cambiano. L’ultimo biennio, in particolare, è stato caratterizzato dalla forte richiesta di corsi legati alla digital transformation, ai big data, agli analytics, ma anche al mondo del marketing e dell’e-commerce: «Ci sono due assi che orientano la nostra offerta, l’Understanding e l’Acting. La parte legata all’Understanding ha l’obiettivo di aiutare le imprese a comprendere i cambiamenti in atto, le sfide che devono affrontare e le necessità di formazione». L’Acting invece, racconta Chiaroni, ha un taglio più operativo: «Si tratta di programmi più profondi, anche più lunghi, la cui finalità è trasferire competenze, conoscenze, modi di agire concretamente». Queste due direttrici si incrociano con un asse trasversale, che è quello del target: «In entrambi i casi, i nostri corsi coprono sia le esigenze delle figure manageriali professionalmente più giovani, sia di quelle senior».

Una piattaforma pensata per il mondo Corporate

Flessibilità e versatilità della didattica sono possibili soprattutto grazie alla forte impronta digital. Un percorso intrapreso già nel 2014 e che nel 2019 si è concretizzato proprio nell’inaugurazione della piattaforma D Hub: «È nata pensando all’universo corporate. Volevamo una piattaforma pienamente fruibile in mobilità, a cui fosse possibile accedere utilizzando il login aziendale, e che integrasse tutti gli strumenti formativi necessari. Proponiamo centinaia di pillole digitali, ultimamente arricchitesi e realizzate anche grazie alla partecipazione delle imprese. Si tratta di video che includono dei test di valutazione, oltre a delle metriche che ci permettono di valutare l’efficacia formativa delle pillole stesse, e quindi di affinarle e migliorarle. Il nostro obiettivo è erogare una formazione che sia davvero digitale, e non semplicemente semplicemente informatizzata», conclude Chiaroni.

QS online MBA Ranking 2020: MIP Politecnico di Milano è quinta al mondo con il corso “International Flex EMBA”

La School of Management del Politecnico di Milano migliora ulteriormente il risultato del 2019 nella classifica promossa da QS Quacquarelli Symonds dedicata ai corsi MBA online.

MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business si posiziona al quinto posto al mondo secondo il QS Online MBA Ranking 2020, la classifica annuale che valuta le migliori scuole nell’erogazione di corsi online a distanza. Il corso MBA online erogato da MIP è l’unico italiano a figurare nella graduatoria, e il quarto in Europa. MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business migliora così ulteriormente il proprio posizionamento rispetto al 2019, quando si trovava al settimo posto.

L’International Flex MBA è la versione in lingua inglese del Flex MBA, il primo MBA in smart learning lanciato in Italia nel 2014 e divenuto il fiore all’occhiello dei programmi proposti da MIP.  Ha coinvolto fino a oggi quasi 500 studenti, sia nella versione italiana che in quella internazionale. Selezionato nel 2016 tra i più innovativi MBA al mondo da AMBA (Association of MBAs), nel 2017 il Flex MBA ha ottenuto per primo in Italia l’accreditamento EOCCS dell’EFMD, che certifica la qualità dei programmi online a livello mondiale. L’International Flex MBA è anche l’unico programma italiano in distance learning tra i migliori 10 al mondo, il nono a livello internazionale e il quarto se si considerano solo le business school europee, in base alla classifica stilata dal Financial Times per questi programmi, l’FT Online MBA 2020.

Il programma è erogato grazie a una specifica piattaforma digitale sviluppata in partnership con Microsoft.

La classifica dei programmi MBA online delle business school promossa da QS Quacquarelli Symonds si basa su quattro diversi parametri.

  • Employability (30% del punteggio finale): che considera il grado di occupabilità delle persone iscritte al corso.
  • Class Profile (30%): che valuta diversi parametri, tra cui il numero di studenti iscritti e l’esperienza professionale media degli iscritti.
  • Faculty and Teaching (35%): valuta il livello di qualità relativo all’insegnamento e al corpo docenti.
  • Class Experience (5%): considera una serie di indicatori tra cui la percentuale di attività svolte in presenza, la possibilità di utilizzare un’app a supporto dell’apprendimento accessibile tramite cellulare e/o tablet e il livello del supporto tecnico.

Per quanto riguarda i singoli parametri sopra citati, la School of Management si classifica in terza posizione per Faculty and Teaching e in quinta per Employability.

Nella graduatoria complessiva, occupa il primo posto la IE Business School (Spagna), seconda l’Imperial College Business School (Regno Unito), terza la Warwick Business School (Regno Unito) e quarta la AGSM @ UNSW Business School (Australia).

Vittorio Chiesa e Federico Frattini, rispettivamente Presidente e Dean del MIP Politecnico di Milano: “Siamo felici di aver migliorato ulteriormente il nostro posizionamento rispetto al 2019 e continueremo ad investire nell’innovazione digitale e nella qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento. Per crescere ancora, con la consapevolezza della straordinaria importanza che la  didattica online ha in questo momento e continuerà ad avere in futuro”.

Resilienza digitale del Paese: il ruolo chiave della PA

La digitalizzazione è considerata uno dei pilastri su cui basare la ripresa post Covid-19, tanto per il settore privato che per quello pubblico. Alla PA spetta ora più che mai un ruolo chiave, complementare alle imprese, nell’adottare e guidare processi di digitalizzazione che possano generare benefici per cittadini e imprese, influenzando la capacità di innovazione di entrambi.

 

Luca Gastaldi, professore di Impresa e decisioni strategiche, e Direttore dell’Osservatorio Agenda Digitale
School of Management Politecnico di Milano

 

Nella Strategia 2025 presentata dal Ministro per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione lo scorso dicembre, le parole “salute”, “sanità”, “crisi” ed “emergenza” non appaiono mai. È una mancanza che salta agli occhi oggi, in tempi di #iorestoacasa, ma che è perfettamente comprensibile in un’ottica – quella di ieri – in cui il digitale è prima di tutto un motore per l’economia e la competitività. Anzi, da questo punto di vista il documento ha rappresentato un passo in avanti, ponendo un forte accento sulla sostenibilità sociale dell’innovazione tecnologica.

La crisi del Nuovo Coronavirus sta però rendendo ancor più evidente quanto a molti già chiaro: il digitale può rendere una società più resiliente, non solo più competitiva ed efficiente. Un Paese resiliente, meno fragile, è capace di reagire di fronte ai traumi e alle difficoltà, di resistere agli urti e di tornare il più velocemente possibile a uno stato di (relativo) equilibrio.
L’urto del COVID-19 è arrivato forte, e solo con la ricerca di soluzioni concrete ed efficaci – certamente nel breve, ma anche nel medio e nel lungo periodo – l’Italia potrà acquisire resilienza rispetto alla crisi presente e a quelle future.

Su quali direttrici agire per abilitare questo processo? Ognuno offre la propria ricetta e non ho certo la velleità di dare la mia. C’è tuttavia un ingrediente che mi sento di consigliare da aggiungere a tutte le ricette in circolazione: accelerare la trasformazione digitale della nostra Pubblica Amministrazione (PA).

 

La centralità della PA nella trasformazione digitale del Paese

L’Italia sembra aver finalmente capito che le tecnologie digitali rappresentano le nuove infrastrutture portanti del paese. Come nel dopoguerra lo Stato ha capito la centralità delle infrastrutture stradali per la crescita economica, progettandole e realizzandole in modo integrato, oggi — anche grazie al Coronavirus — si sta finalmente affermando la medesima visione di lungo periodo e si inquadra la trasformazione digitale come un’imperdibile occasione per realizzare il nuovo sistema nervoso su cui basare la crescita economica dell’Italia, non solo nella cosiddetta “fase 2” della gestione del Covid19, ma per tutti i prossimi anni.

La PA può e deve guidare questo processo, innescando percorsi di digitalizzazione pervasivi. Una PA più semplice e digitale potrebbe infatti:

  • incentivare la richiesta e l’utilizzo di servizi online da parte dei cittadini;
  • aumentare l’uso di internet;
  • incidere sulla progressiva diffusione di competenze digitali;
  • accelerare la digitalizzazione delle imprese.

In un’economia sempre più basata sui dati, se il patrimonio informativo pubblico fosse completamente digitale e interoperabile si aprirebbero opportunità immense per il paese. Se non adeguatamente presidiate, tali opportunità potrebbero essere velocemente colte da soggetti privati che, già oggi, sono capaci di esercitare un efficace ruolo di info-mediazione – in molti casi a discapito della collettività.

La PA deve prendere consapevolezza dell’enorme mole di informazioni e dati in suo possesso e della propria capacità di innescare processi di migrazione al digitale che non solo generino benefici per cittadini e imprese ma che possano influenzare lo spazio per innovare di entrambi. Quando riesce a fare squadra, la PA, grazie alla propria massa critica e alla sostanziale assenza di competitor, è in grado di scatenare processi di cambiamento che – se ben progettati e realizzati – hanno impatti dirompenti.

Mai come oggi è necessario rimettere in discussione il ruolo della PA nella creazione di valore tramite le tecnologie digitali. L’impresa privata è considerata da tutti come una forza innovativa e coraggiosa, mentre la PA è spesso bollata come un essere inerziale, indispensabile per aspetti “basilari”, ma troppo pesante o destrutturata per imprimere accelerazioni all’economia di un paese e concretizzarne la capacità di innovare. Diversi esempi dimostrano quanto tale dicotomia non sia sempre vera. È sufficiente pensare a internet, al protocollo HTTP, alla comunicazione cellulare e al GPS. Tutte queste fondamentali innovazioni tecnologiche sono state prodotte da PA coraggiose che, con un forte spirito imprenditoriale, hanno lavorato efficacemente con le imprese private, guidandole e sapendo gestire i relativi rischi. Così facendo, hanno avviato percorsi di trasformazione digitale che hanno creato incredibili opportunità di business.

La PA non è semplicemente una versione “sociale” e inefficiente del settore privato, ma è un attore chiave da concepire come complementare alle imprese nei processi di digitalizzazione. Se le imprese sono il “motore” dell’economia, la PA deve prendere consapevolezza di essere la “macchina” in cui tale motore funziona, viene indirizzato e valorizzato. Per rendere più digitale e resiliente l’Italia è necessario interpretare la sua PA come una delle più importanti piattaforme di innovazione su cui agire con decisione. Pensare alla PA solo come a un “corpaccione” improduttivo e burocratico, incapace di guidare la trasformazione digitale del resto del Paese, rischia di essere una profezia che si auto-avvera.

 

Come far correre la “macchina” pubblica? 4 elementi necessari

Oggi la PA italiana è ancora inefficiente, poco trasparente e attempata. Le tecnologie digitali rappresentano la leva più importante (se non l’unica) su cui agire per rendere le nostre amministrazioni capaci di bilanciare efficacia e sostenibilità, trasparenti nel loro agire e in grado di attrarre personale qualificato. Per poter correre, la “macchina” pubblica deve prima di tutto digitalizzare se stessa, accelerando le tante iniziative di switch-off in atto e ridisegnando interamente i processi mediante i quali i servizi pubblici sono gestiti ed erogati, in modo da sfruttare a pieno le potenzialità delle tecnologie digitali. È particolarmente importante digitalizzare, integrare e re-ingegnerizzare sia i processi di front-office che quelli di back-office, cambiando il modo di interagire tra l’amministrazione nel suo complesso e cittadini e imprese.

La digitalizzazione, l’integrazione e lo switch-off sono certamente fondamentali per consentire alla PA di guidare la trasformazione digitale del paese ma non bastano e, soprattutto, richiedono tempi molto lunghi per potere essere realizzati. Sono necessari almeno altri tre elementi complementari.

Per prima cosa la PA deve imparare a collaborare maggiormente con le imprese – da quelle più grandi fino alle startup o le PMI ad alto tasso innovativo. Senza una solida cinghia di trasmissione con il “motore dell’economia”, la macchina pubblica farà fatica a digitalizzarsi e non andrà molto lontano. Pertanto, è di vitale importanza ripensare il procurement pubblico, che sembra ancora vittima di un pregiudizio che lo vede come fonte di inefficienza (quando non di corruzione) piuttosto che di innovazione.

Le gare pubbliche sono ancora strutturate e gestite con la principale preoccupazione di prevenire ricorsi e contenziosi, mentre sono ancora troppo poche le PA che cercano di acquisire nel minor tempo possibile la migliore soluzione disponibile. Le imprese, dal canto loro, si concentrano non tanto sul proporre soluzioni efficienti e innovative, che diano reale valore al cliente pubblico, quanto nell’adempiere a ogni formalismo richiesto in fase di gara e prevenire ricorsi pretestuosi dei concorrenti. Così facendo sprecano le migliori energie a recitare liturgie che tutti sanno inutili. Il risultato di questa duplice spinta, alimentato dall’incertezza normativa, è che si finisce per allontanare dal settore pubblico quella parte di mercato sana e dinamica che potrebbe apportare competenze ed energie essenziali alla trasformazione della PA e dell’intero paese.

È urgente un impegno da parte di tutti per trasformare il procurement da ostacolo all’innovazione, quale è ancora in molti casi oggi, a potente leva che consenta a PA e imprese di collaborare maggiormente e meglio nel realizzare la trasformazione digitale dell’Italia. Il vero ostacolo non è la carenza di risorse, ma la povertà di competenze, progettualità e managerialità, che sono spesso risultato di un controllo politico eccessivo e non orientato ai risultati, bensì alla gestione del potere e a una ricerca miope e populista del consenso.

Ancora una volta, tuttavia, non è sufficiente saper collaborare con le imprese private e portare avanti efficaci iniziative di switch-off per rendere la PA capace di giocare un ruolo di primo piano nella digitalizzazione del paese. Switch-off e collaborazione con i privati devono essere indirizzati con in testa una chiara idea del futuro, in particolare delle opportunità offerte dalle tecnologie più dirompenti che, progressivamente, si affacciano sul mercato e dei vincoli legati a una loro efficace implementazione.

In questo momento storico pensiamo all’intelligenza artificiale, alla blockchain, ai big data analytics, all’Internet of Things, ecc. I vantaggi associati a un’efficace applicazione di tali soluzioni in ambito pubblico sono potenzialmente enormi e devono essere colti quanto prima. La PA non può permettersi di sprecare energie preziose nel perseguire iniziative di digitalizzazione obsolete e non può rimanere in balia dei fornitori semplicemente perché non conosce e sfrutta a pieno l’ecosistema di innovazione a cui potrebbe attingere.

È necessario pertanto che le PA avviino iniziative di open innovation, lavorando per essere maggiormente esposte a stimoli con cui mettere in discussione e cercare di migliorare la loro operatività. D’altro canto, non bisogna considerare le tecnologie emergenti come la panacea di tutti i mali. Sono necessarie risorse, competenze e consapevolezza di dove possano essere applicate con successo, per produrre risultati concreti e non infruttuosi “esercizi di stile”.

La PA deve insomma prendere consapevolezza che, invece che rincorrere con affanno il resto del mercato nell’applicazione dei nuovi trend tecnologici, può giocare un ruolo da protagonista a patto che esplori nuovi modi di creare valore con massicce dosi di pragmatismo e buon senso. L’equilibrio da mantenere tra la sperimentazione di nuove modalità di creazione di valore e il non perdersi dietro a ogni trend tecnologico è difficilissimo da mantenere e, pertanto, di vitale importanza.

C’è un ultimo elemento su cui è necessario lavorare per far correre pienamente la macchina pubblica: roadmap condivise di progressiva attuazione dell’Agenda Digitale – sia a livello nazionale che locale. Tali roadmap devono essere basate su solide evidenze empiriche, superare l’attuale parcellizzazione territoriale e tematica dei sistemi di monitoraggio e aprirsi a iniziative di benchmarking a livello territoriale e internazionale. Il Piano triennale e i cruscotti di monitoraggio di AgID e Team digitale hanno rappresentato dei grandi passi in avanti da questo punto di vista, ma molto può essere ancora fatto.

Più in generale, molte iniziative di digitalizzazione sono condotte senza veri e propri studi di fattibilità che ne valutino impatti e sostenibilità, evidenziando potenziali benefici da una parte e attività, tempi e costi del cambiamento dall’altra. È necessario monitorare con regolarità e in modo trasparente lo stato di attuazione dei progetti di innovazione digitale in ambito pubblico, evidenziando gli scostamenti rispetto agli obiettivi intrapresi, le eventuali criticità riscontrate nell’attuazione e le dinamiche di cambiamento dei bisogni dei territori. Altrimenti la macchina pubblica rischia di muoversi senza mappe precise e senza un cruscotto che le indichi a che velocità sta andando.

In sintesi, sembrano essere quattro gli elementi necessari a far sì che la PA giochi il ruolo chiave che può e deve giocare nella trasformazione digitale del paese:

  • accelerazione dello switch-off al digitale e del ridisegno dei processi di gestione ed erogazione dei servizi pubblici;
  • capacità di collaborare con le imprese – da quelle grandi alle PMI e/o startup innovative – mediante un ripensamento del procurement pubblico;
  • mantenimento di un delicato equilibrio nella sperimentazione pragmatica di tecnologie emergenti, evitando di disperdere energia in direzioni di digitalizzazione obsolete o troppo di frontiera;
  • sviluppo di un sistema di monitoraggio teso a fissare chiare roadmap di digitalizzazione sulla base di solide evidenze empiriche e in un confronto continuo con l’estero e tra i vari territori italiani.

Solo con questi quattro interventi si darà un senso ai tanti sforzi fatti finora, rendendo la macchina pubblica veramente pronta a correre e capace di fornire — grazie al digitale — resilienza al nostro Paese.

UNITIPOSSIAMO la piattaforma per aiutare gli esercenti

Una Startup no-profit composta da 5 alumni di Ingegneria Gestionale e altri di Energetica, Matematica e Design del Politecnico di Milano, oltre che da altri volontari under 30 per aiutare gli esercenti a superare la crisi economica dovuta al COVID-19.

Unitipossiamo è una iniziativa non profit nata dal desiderio di 15 ragazzi provenienti da tutta Italia – la maggior parte di loro mai conosciutisi di persona – di aiutare i commercianti a superare la crisi economica causata dal Covid-19. Il progetto viene portato avanti grazie all’impegno volontario di giovani professionisti ed è stato premiato all’interno dell’iniziativa Hackforitaly. Al momento sono presenti sulla piattaforma più di 4.000 attività commerciali distribuite su tutto il territorio italiano, che vendono buoni d’acquisto o consegnano prodotti a domicilio. Nei prossimi giorni si prevede di arrivare a più di 43.000 e generare un flusso economico fino a 90 mln di euro verso i commercianti.

Perché uniti possiamo?

A tutti è chiaro di dover offrire il proprio aiuto, per questo sul territorio nazionale si moltiplicano le iniziative che, in vario modo, cercano di sostenere le attività commerciali. Ma la frammentarietà è controproducente. Abbiamo quindi pensato di unire tutte le iniziative esistenti in un’unica piattaforma per aiutare coloro che vogliono dare il loro contributo a farlo più facilmente. Un aggregatore infatti semplifica la ricerca per l’utente che non dovrà districarsi tra decine di siti differenti e aumenta la visibilità delle offerte proposte dai commercianti.
Il fine di tutte queste piccole-medie iniziative nate finora è nobile, ma è difficile che possano avere un impatto sistemico se rimangono sole. Mentre uniti, possiamo.

I numeri del problema e il potenziale impatto

La chiusura temporanea delle attività commerciali può avere importanti ricadute sull’occupazione. Stiamo parlando di 43.000 attività chiuse e negli scenari più bui 630.000 posti di lavoro a rischio.
Con una iniziativa come Unitipossiamo pensiamo di poter raggiungere in pochi giorni 43.000 attività commerciali e 4,5 milioni di utenti che, con una spesa media di 20€ ciascuno, possono veicolare oltre 90 milioni di euro verso esercenti in difficoltà.

Cos’è Hackforitaly?

Prendendo spunto da iniziative precedenti in altri paesi europei, l’edizione italiana Hack for Italy è stata un weekend intenso (27-29 Marzo) durante il quale diversi team hanno lavorato online per trovare soluzioni digitali e non alle sfide economiche e sociali derivanti dalla crisi causata dall’epidemia che stiamo vivendo, divise nelle seguenti categorie: Save Lives, Save Communities, Save Businesses.

Quasi 1500 persone hanno raccolto la sfida, proponendo più di 50 progetti, sviluppati, partendo da semplici idee, durante l’intensa maratona di 48 ore. Nel corso del primo giorno sono stati formati i team contestualmente alla presentazione dei progetti, dove professionisti, esperti ed imprenditori, che non si conoscevano precedentemente, hanno portato una diversità di background che ha contribuito alla creatività e alla fattibilità dei progetti presentati.

Reagire alla pandemia: serve una (nuova) politica industriale

La pandemia in corso mette in ginocchio l’economia globale, ma la storia insegna che superare lo shock è possibile: attenzione a nuove opportunità di business, flessibilità e innovazione, sostenute da una politica industriale attiva, sono le azioni indispensabili per reagire

 

Massimo G. Colombo, professore di Entrepreneurship and Entrepreneurial Finance
School of Management Politecnico di Milano

 

La pandemia generata dal coronavirus promette di mettere in ginocchio l’economia mondiale con conseguenze nefaste sul PIL di tutti i paesi, avanzati o meno.
Tuttavia la letteratura scientifica che ha analizzato l’impatto economico delle “tempeste perfette” precedenti all’attuale ci da motivi di speranza. Il sistema capitalista è resiliente e a rapidi crolli della domanda e della produzione segue, in tempi più o meno rapidi, la ripresa, che può essere più o meno vigorosa (si veda The Economist, 21-27 marzo, “Free exchange: from v to victory”).

Che cosa deve fare il governo italiano per rendere la ripresa post-pandemia la più rapida e vigorosa possibile?

Innanzitutto, aldilà delle misure eventualmente messe in campo dalla Commissione Europea, occorre non ripetere gli errori del passato e fare “tutto quello che serve”. Un primo imperativo, sul quale tutti concordano, è di dare sostegno a chi soffre un decremento significativo di reddito, in modo da sostenere la domanda aggregata ed evitare la disgregazione sociale del Paese. Va anche assicurata al sistema produttivo tutta la liquidità necessaria ad evitare la chiusura di imprese sane, temporaneamente in difficoltà, e la conseguente riduzione di lungo termine della capacità produttiva. Il fondo per il finanziamento delle garanzie sui prestiti concessi alle imprese è una misura che va nella giusta direzione. L’importante è di riaprire i rubinetti se la capienza del fondo si rivelasse insufficiente.

Tuttavia, bisogna andare oltre e disegnare una politica industriale attiva per la ripresa. La pandemia, oltre a uno shock negativo sulla domanda e sull’offerta, genera anche nuove interessanti opportunità di business, legate alla trasformazione dei modelli di consumo e del modo di fare impresa. La scoperta che il telelavoro può avere vantaggi unici e l’interesse, anche se forzato, dei consumatori per la spesa e i servizi di intrattenimento a domicilio, ne sono ovvi esempi.

In questa situazione, le piccole imprese, soprattutto le più giovani, sono posizionate in modo ideale per catturare tali nuove opportunità di business, grazie alla loro flessibilità e allo spirito di iniziativa degli imprenditori che le gestiscono, e possono rivelarsi un fondamentale elemento di forza e di dinamismo del sistema produttivo nazionale. Tuttavia, per esprimere il proprio potenziale di crescita, devono essere in grado di ristrutturare e modificare il proprio portafoglio di risorse, investendo in un’ottica di lungo periodo in prodotti e servizi innovativi e nella capacità di commercializzarli su scala globale. Uno studio sulle strategie di un campione di 340 start-up italiane ad alta tecnologia durante la crisi globale del 2008, realizzato dalla School of Management del Politecnico di Milano e coordinato dal sottoscritto, conferma questa visione. Nonostante il calo di domanda che in media tali imprese hanno vissuto tra il 2008 il 2010, le start-up che hanno investito massicciamente nell’innovazione dei prodotti e dei servizi e nell’internazionalizzazione dei mercati hanno avuto una crescita del fatturato in tale periodo superiore di 20 punti percentuali alla media.

È compito del governo italiano assecondare e facilitare i processi di trasformazione di tali imprese. Da un lato il governo deve assicurare che tali imprese abbiamo accesso, a condizioni competitive, alle risorse finanziarie, in particolare nella forma del capitale di rischio, necessarie a sopportare tali processi e a scalare il proprio business. Il fondo per l’innovazione della CDP è uno strumento ideale per questo scopo.

Dall’altro lato, è prevedibile che risorse umane ad alta competenza (manager, tecnici) verranno espulse da imprese grandi e piccole con modelli di business resi obsoleti dalla pandemia, e saranno disponibili nel mercato del lavoro. Tali risorse umane sono preziosissime per la crescita delle piccole imprese innovative. Il governo può facilitare il loro assorbimento da parte di tali imprese, ad esempio tramite il temporaneo azzeramento degli oneri sociali sulle nuove assunzioni di personale qualificato.

 

«Grazie all’EMBA oggi so affrontare l’emergenza mascherine»

PierPaolo Zani, alumnus del MIP e general manager di BLS, azienda produttrice di dispositivi a protezione delle vie respiratorie, ci racconta l’impatto che il coronavirus ha avuto sul business a livello umano e organizzativo. Spiegando che, con basi solide e una mission chiara, anche lo stress test più duro può offrire delle opportunità

Può un momento di grande stress, per un’azienda, tradursi in un’opportunità? Sì, se l’impresa ha basi organizzative solide e una chiara visione strategica del proprio business. In una situazione di di questo tipo si è ritrovata, nel giro di poche settimane, BLS, azienda italiana produttrice di dispositivi di protezione delle vie respiratorie, più comunemente noti come “mascherine”. «Già a fine gennaio, prima che il contagio da Covid-19 si estendesse all’Italia e al resto del mondo, gli ordini avevano subito un’impennata fino a quel momento impensabile», racconta PierPaolo Zani, general manager di Bls e alumnus dell’EMBA Part Time presso il MIP Politecnico di Milano. «Fino a pochi mesi fa la richiesta di mascherine era legata alla necessità di proteggersi da agenti inquinanti, all’interno delle industrie e i nostri clienti erano legati a quell’ambito. Questo ci ha posto un problema: come fare, in questo momento, a soddisfare la domanda dei nostri clienti consolidati, e al contempo far sentire la nostra vicinanza alla Protezione civile e al Paese?»

La sfida di BLS tra emergenze di oggi e tendenze di domani

Un dilemma non da poco, su cui Zani e il suo team hanno dovuto riflettere a fondo prima di prendere una decisione: «Siamo riusciti a trovare un equilibrio. E ci siamo riusciti rifacendoci alla nostra mission aziendale: proteggere le persone, e farlo bene». L’impennata di ordini rischiava di generare una serie di difficoltà organizzative: «Devo dire, però, che avevamo cominciato a osservare la situazione già da un po’ di tempo. È fondamentale porre un’estrema attenzione a tutti i segnali che potrebbero avere un impatto sul proprio business, anche quando si tratta di segnali minimi».

Sempre in un’ottica strategica, poi, diventa necessario prendere in considerazione i cambiamenti che potrebbero derivare dall’epidemia di Coronavirus: «Non sappiamo quanto durerà questa emergenza, a livello globale. Sappiamo però che l’utilizzo delle mascherine in Occidente potrebbe seguire quello che è il modello asiatico, caratterizzato da una maggiore diffusione a livello consumer di questi dispositivi, a prescindere dalla pandemia. Per tutto questo periodo, la sfida sarà tenere la barra dritta, ma a guidarci avremo sempre i principi della nostra mission». Ed è possibile farlo, chiarisce Zani, anche perché l’azienda ha compiuto delle scelte lungimiranti: «Abbiamo lavorato molto per stipulare dei contratti a lungo termine, che assicurano la nostra operatività, e possiamo contare sui nostri fornitori di back-up. Questa situazione è un autentico stress test: ma le basi sono solide, per questo stiamo reggendo».

Ma per Zani c’è un elemento che è ancora più importante, quello che fa davvero la differenza: «Le persone. Mai come ora veniamo ripagati dalla nostra etica, che ci impone di proteggere tanto le persone in generale, tanto quelle che lavorano con noi. In questa fase è fondamentale stabilire un dialogo con la produzione, rafforzare le norme d’igiene, assicurare un luogo di lavoro sicuro».

Un EMBA per mettere alla prova la propria dedizione

Zani, d’altra parte, ha sempre avuto un forte interesse nel ruolo che l’elemento umano svolge nell’impresa. «È stato questo, forse, l’aspetto che più di tutti mi ha spinto a iscrivermi all’EMBA Part Time del MIP. Sentivo l’esigenza di un miglioramento. Mi servivano strumenti nuovi, più efficaci, più approfonditi. Dovevo approfondire i principi del comportamento organizzativo. E sotto tutti questi punti di vista il master mi è stato davvero di grande aiuto». Non solo; il formato part time dell’EMBA ha messo anche alla prova l’impegno e la dedizione di Zani. Una sorta di piccolo stress test personale: «Il consiglio che do a chi si avvicina a questo master è di affrontarlo con il massimo impegno. Può essere impegnativo trovare un equilibrio tra vita lavorativa, privata e accademica; ma il ritorno, poi, in termini di competenze e opportunità di carriera, è altissimo. Vale davvero la pena dedicarcisi con tutte le proprie forze. Mi fa piacere poi ricordare che BLS ha un rapporto strettissimo con il Politecnico di Milano, con il quale stiamo supportando la nascita di una startup, spin-off dell’ateneo, e con cui abbiamo già collaborato per diversi workshop. E guardiamo sempre con molta attenzione ai talenti che incontriamo in aula», conclude Zani.

Flessibilità, competenze, intelligenza artificiale: la sfida di Logol nasce dal MIP

Marco Farina, alumnus del Flex EMBA 2015, racconta come è nata Logol e che cosa ha appreso dalla partecipazione al master. A partire dalla capacità di lavorare a distanza, usando le nuove tecnologie

Perché intorno alla tecnologia, spesso, è ancora diffuso un sentimento negativo? E perché non si abbracciano appieno le sue potenzialità? Sono le domande da cui è partito Marco Farina, alumnus del Flex EMBA 2015 presso il MIP Politecnico di Milano, per fondare Logol, società svizzera che dal 2017 opera nel campo dell’intelligenza artificiale. «La mia idea», spiega Farina, «è che troppo spesso i servizi di trasformazione digitale siano gestiti in maniera improvvisata. L’obiettivo era e rimane quello di portare competenze vere all’interno delle aziende, competenze che possono tradursi in un reale valore aggiunto per il business. E in questo processo l’intelligenza artificiale gioca ormai un ruolo fondamentale».

I pilastri operativi di Logol

Sono quattro i pilastri su cui si regge il business model di Logol, racconta Farina: «Siamo innanzitutto degli advisor. Il nostro primo obiettivo è sostenere le aziende nel loro avvicinamento all’IA». Il secondo pilastro, invece, si ricollega all’idea da cui Logol è nata: «Nasciamo come una società senza un ufficio fisico. Lo smart working fa parte della nostra mentalità, ed è lo stesso atteggiamento che vogliamo esportare nelle aziende che si rivolgono a noi. Questo processo passa soprattutto dalla migrazione delle infrastrutture dai server al cloud. Nel passaggio di questi dati sensibili, l’aspetto della data security è fondamentale, e l’IA aiuta ad accrescere il livello di sicurezza».

Il terzo pilastro riguarda le business application. «Oggi le aziende devono essere snelle, se vogliono essere competitive. L’oro di oggi sono i dati, quindi la progettualità di un sistema informativo va pensata usando applicativi moderni che permettano di avere una visione olistica dell’azienda».

L’ultimo pilastro riguarda l’IA pura. «Dopo aver razionalizzato le tecnologie e i processi dell’azienda, applichiamo l’intelligenza artificiale alla tecnologia di riferimento, che si tratti di un chatbot, dell’ottimizzazione di uno stock di magazzino o dell’engagement del cliente nell’ecommerce».

Logol fa della flessibilità uno dei suoi punti di forza e opera sia con imprese medio-piccole sia con aziende più grandi: «Nel mondo dello small e medium business ci poniamo come unici interlocutori, perché andiamo a ridisegnare totalmente il loro approccio tecnologico», spiega Farina. «Nel rapporto con le imprese più grandi, con cui non abbiamo un rapporto esclusivo, esprimiamo le nostre competenze in ambiti più specifici».

L’esperienza Flex Emba: prove generali di flessibilità

Prima di fondare una realtà di business così innovativa, Marco Farina ha frequentato il Flex EMBA. Un’esperienza che gli è stata utile da diversi punti di vista: «Innanzitutto sentivo il bisogno di irrobustire il bagaglio delle mie competenze. Presso il Politecnico avevo già studiato ingegneria informatica, ma dovevo ancora acquisire le nozioni necessarie alla comprensione e alla gestione dei processi aziendali». Il master ha anche permesso a Farina di stringere relazioni importanti con i suoi colleghi: «Il rapporto con loro era fantastico, e lo è ancora, visto che siamo ancora in contatto. Ad accomunarci, ora come allora, è la voglia di metterci continuamente in gioco con l’obiettivo di migliorare. La possibilità di confrontarsi con persone dai background formativi molto diversi, adottando così punti di vista sempre nuovi, era un vero e proprio valore aggiunto». Il formato FLEX si sposava poi alla perfezione con le esigenze di quel particolare periodo della sua carriera: «Era un momento decisamente impegnativo, la flessibilità era fondamentale». Una flessibilità che si è tradotta in un banco di prova importante, su cui sviluppare quelle modalità di lavoro smart su cui poi sarebbe nata Logol: «Per due anni ci siamo abituati a interagire da remoto come se fossimo uno di fronte all’altro. Questo è fondamentale: si tratta di pratiche che noi, come imprenditori e dirigenti, dobbiamo trasmettere ai collaboratori. I lavoratori del futuro saranno persone che interagiranno in questo modo».