MBA e Master: scopri le Borse di Studio

Borse di studio, contributi e finanziamenti sono alcune delle agevolazioni che il MIP mette a disposizione degli aspiranti studenti e degli Alumni che vogliono continuare la propria esperienza di formazione

Il candidato interessato a Master o MBA erogati presso la nostra scuola infatti, può contare su una grande varietà di aiuti volti a favorire studenti meritevoli e, in alcuni casi, a garantire un maggior contatto con aziende leader attraverso stage e tirocini.

Di seguito sono riportate le principali Borse di Studio disponibili.

 

Borsa di Studio GS1 – MASTER iMSCPM

Ogni anno GS1 sceglie e sponsorizza alcuni candidati del master iMSCPM con un contributo parziale.

I candidati avranno la possibilità di entrare in contatto con le aziende del network GS1 ed essere scelti per lo svolgimento di un tirocinio presso una di queste.

Requisiti:

-Aver superato la selezione per l’International Master in Supply Chain and Procurement Management

-Avere una buona conoscenza della lingua italiana

 

Borsa di Studio ALUMNI – TUTTI I MASTER

Sono disponibili diversi contributi basati sul merito, per Alumni dei corsi MIP o di altri dipartimenti del Politecnico di Milano.

 

Borsa di Studio GMAT/GRE – TUTTI I MASTER

I candidati di qualunque Master del MIP che abbiano raggiunto un alto punteggio GMAT/GRE potranno fare richiesta per ottenere una parziale esenzione sul costo di iscrizione.

 

Borsa di Studio Gianluca Spina – Full Time MBA, iMSCPM, MEM, MPAM

La Borsa di Studio Gianluca Spina è disponibile per studenti meritevoli che vogliano iscriversi ai Master FT MBA, iMSCPM e MPAM nell’anno accademico 2020/2021 e copre il 50% della retta. Inoltre per il Master MEM, la borsa copre il 100% del costo del Master.

Il contributo è offerto dall’Associazione Gianluca Spina, nata nel 2015 a seguito della prematura scomparsa dell’allora Dean del MIP, Gianluca Spina, professore di Business Management e Supply Chain Management presso il Dipartimento di Management, Economics and Industrial Engineering del Politecnico di Milano.

La deadline per partecipare è fissata al 31 maggio 2020. I candidati verranno scelti da una commissione universitaria.

Al fine di presentare la domanda per il beneficio, i candidati dovranno presentare:

-Form di iscrizione

-Certificazione TOEFL, IELTS o CPE

-Rilevanti lettere di referenze

-Documenti che attestino l’ammissione al programma e il pagamento della quota d’iscrizione

-Un saggio dedicato al tema della Supply Chain

 

Maggiori informazioni sui singoli contributi e borse di studio potranno essere visionate sulle pagine dedicate ai Master sul nostro sito web.

Povertà e aiuti alimentari al tempo del Covid-19

L’emergenza sanitaria sta creando nuove situazioni di povertà con l’aumento della richiesta di aiuti di beni di prima necessità e una conseguente pressione sul sistema di assistenza sociale. Una risposta rapida ed efficace per distribuire aiuti alimentari può arrivare da una solida rete di partnership tra pubblico, settore profit e non profit, con un ruolo centrale giocato dall’amministrazione pubblica. Occorre ora lavorare sulle condizioni di sostenibilità e di resilienza del sistema in una prospettiva futura.

Giulia Bartezzaghi, Direttore Osservatorio Food Sustainability
Food Sustainability Lab, School of Management Politecnico di Milano

 

L’emergenza sanitaria in corso sta mettendo a dura prova il sistema economico e sociale del Paese. A subirne gli effetti sono in primo luogo le fasce di popolazione che già vivevano in condizioni di fragilità, inasprendo o creando nuove situazioni di povertà. Aumenta di giorno in giorno la richiesta di aiuti di beni di prima necessità, quindi cibo e farmaci, e la pressione sul sistema di assistenza sociale.
Con l’obbligo di rimanere a casa, il Terzo Settore, impegnato nella distribuzione di pasti e pacchi alimentari alle persone bisognose, ha subito un forte calo di volontari, la maggior parte dei quali over 65, quindi i più esposti ai rischi del contagio. Nel contempo mense, ristoranti e piccoli esercizi commerciali, impegnati nella donazione di pasti e prodotti alimentari in eccedenza alle organizzazioni non profit, hanno dovuto temporaneamente sospendere il servizio. L’attività di recupero e distribuzione dei prodotti rimasti invenduti nei supermercati, in particolare i prodotti freschi e freschissimi, è diventata sempre più difficile, se non impossibile, per le difficoltà operative di erogazione del servizio in condizioni di rigide disposizioni sanitarie, di personale limitato e calo dei volontari, con il contestuale aumento di domanda di beni alimentari da parte dei cittadini.
Di fronte a queste criticità, nelle scorse settimane il Governo ha stanziato 400 milioni di euro per aiuti alimentari immediati come anticipo straordinario sul Fondo di solidarietà comunale, distribuiti tra i Comuni in base a criteri di popolazione e reddito. Questi aiuti possono tradursi in acquisto di buoni spesa e/o in distribuzione di pacchi alimentari alle famiglie in maggiore difficoltà. I singoli Comuni si stanno quindi adoperando per mettere in campo queste misure, avvalendosi della collaborazione di enti del Terzo Settore per la distribuzione del cibo e dei servizi sociali per individuare i nuclei familiari beneficiari dell’aiuto.

In questo scenario, guardando alla Lombardia, la Regione italiana più colpita dalla pandemia, e più nello specifico alla realtà di Milano, il Comune ha ottenuto come anticipo dal Governo 7 milioni di euro, da poter usare in diversa forma per “sfamare” la città. Ha adottato un “dispositivo” di misure per fornire aiuti alimentari alle fasce più deboli, in prima battuta le persone in condizioni di povertà e gli anziani, che rimarrà attivo almeno fino alla fine della crisi sanitaria.

Mettendo a sistema Politiche Sociali, Food Policy e Protezione Civile e attraverso una rete di alleanze con attori chiave, quali Fondazione Cariplo e il Programma QuBì, Banco Alimentare della Lombardia, Caritas Ambrosiana, Croce Rossa Italiana-Comitato di Milano, Istituto Beata Vergine Addolorata (IBVA), Milano Ristorazione, AMAT e Sogemi, il Comune di Milano ha messo in atto in poche settimane un sistema di distribuzione di pacchi alimentari, che fa leva su 10 hub temporanei situati in diversi quartieri della città dove è maggiore la densità di povertà, in particolare minorile, e dove era già operativa la rete sociale del Programma QuBì, coordinato da Fondazione Cariplo.
Una task force composta da assistenti sociali del Comune di Milano e referenti delle reti territoriali QuBì ha creato la lista delle persone e dei nuclei familiari in stato di bisogno, incrociando i dati già disponibili con le richieste di aiuti alimentari raccolte in queste settimane, lista che è in continua evoluzione con il contestuale aumento delle domande di aiuto. Sono attualmente circa 16.000 le persone raggiunte, a cui corrispondono 4.500 nuclei familiari, in prevalenza famiglie con minori (che è anche il focus dell’intervento del Programma QuBì – La Ricetta di Milano contro la povertà infantile).

Le derrate alimentari sono in parte prodotti donati da imprese agroalimentari, che confluiscono nel magazzino di Banco Alimentare della Lombardia a Muggiò, e in parte prodotti acquistati tramite le donazioni monetarie di diversi enti privati alla Croce Rossa Italiana – Comitato di Milano, che provvede a stoccarli nel proprio deposito logistico a Segrate. In questi due poli vengono allestiti i pallet con mix di prodotti, trasportati agli 8 hub per mezzo di 8 furgoni messi disposizione da Milano Ristorazione. Negli hub sono coinvolti dipendenti del Comune di Milano e volontari delle associazioni non profit impegnati nella preparazione dei pacchi alimentari, che vengono poi consegnati a domicilio alle persone e alle famiglie selezionate tramite 25 pulmini gestiti da cooperative sociali. Le consegne a domicilio sono organizzate secondo un piano di trasporto elaborato da AMAT (Agenzia Mobilità Ambiente e Territorio di Milano), che ottimizza la composizione dei pacchi alimentari e i giri dei furgoni sulla base del numero di persone da servire nei diversi territori.
Ciascun hub ha un proprio coordinatore, che gestisce e monitora le attività dell’hub e documenta i flussi in entrata e in uscita su base giornaliera, riportando all’unità operativa centrale del Comune di Milano, in capo al Coordinatore della Food Policy.
Tutto il sistema si muove in linea con un protocollo di sicurezza, che prevede la sanificazione delle infrastrutture utilizzate e l’utilizzo di DPI (mascherine e guanti monouso) per tutti gli operatori coinvolti.

La spesa consegnata, per un totale di oltre 30 tonnellate di cibo a settimana, serve a ricoprire le necessità di ciascuna famiglia per sette giorni, cercando di rispondere quanto possibile alle varie esigenze. Le derrate alimentari raccolte e distribuite sono costituite in prevalenza da alimenti di prima necessità e di più facile gestione e conservabilità come pasta, riso, passata, legumi, tonno, biscotti, ai quali si aggiungono olio, sale, zucchero e altri beni recuperati tramite donazioni occasionali, come latte, succhi di frutta, caffe, budini, salumi. Un accordo con Sogemi ha permesso di integrare nella spesa anche frutta e verdura per fornire un’alimentazione più equilibrata. Diverse imprese alimentari e altri enti privati hanno messo a disposizione altri prodotti alimentari, anche freschi, e risorse materiali e finanziarie, che contribuiscono al funzionamento del sistema.
A Pasqua non è mancata la solidarietà: sono state consegnate alle famiglie colombe e uova di cioccolato, donazioni di due note imprese del settore.

Per il disegno e l’implementazione del sistema è risultata preziosa l’esperienza maturata nell’ambito del progetto Hub di Quartiere Contro lo Spreco Alimentare con l’Hub in via Borsieri nel Municipio 9 di Milano, lanciato a gennaio 2019 da un partenariato composto da Comune di Milano, Politecnico di Milano, Assolombarda, QuBì, Banco Alimentare della Lombardia, un network di imprese e organizzazioni del Terzo Settore. L’Hub di Borsieri, in attesa di riprendere l’attività di recupero delle eccedenze dalle mense e dalla GDO dopo l’emergenza sanitaria, ha fornito un modello operativo di riferimento, poi adattato alle necessità e ai vincoli dell’emergenza ed esteso ad altri quartieri di Milano, facendo leva sulla rete e sul know-how dei partner già esistenti e su nuove alleanze.

In parallelo alla distribuzione dei pacchi alimentari tramite hub, sono attivi a Milano i tre Empori Solidali della Caritas Ambrosiana e il supermercato sociale Solidando dell’associazione IBVA, presso i quali è possibile fare la spesa con una tessera a punti, grazie al sostegno economico di Fondazione Cariplo e delle altre fondazioni bancarie aderenti al Programma QuBì. Questi store permettono alle persone bisognose di integrare nella spesa anche prodotti più specifici e mirati per le proprie esigenze, ad esempio i prodotti per l’infanzia.
Anche la Grande Distribuzione Organizzata sta facendo la sua parte per fronteggiare l’emergenza. Le principali insegne hanno rafforzato il servizio di spesa online con consegna a domicilio, facendo leva sui propri portali web o su altre piattaforme e-commerce che erogano il servizio avvalendosi di una flotta di shopper (ad esempio, Supermercato24 e Glovo), e offrendo la consegna gratuita alle persone over 65. In parallelo, il Comune di Milano ha attivato un centralino telefonico (02 02 02) dedicato ad anziani e persone affette da patologie croniche o immunodepresse per fornire informazioni aggiornate sui servizi di assistenza messi a disposizione per l’emergenza, compresa la possibilità di richiedere buoni spesa (ticket) da usare nei supermercati e la consegna di pasti e pacchi a domicilio, forniti in collaborazione con la distribuzione e cooperative sociali.
Contestualmente, stanno emergendo nuove applicazioni digitali per la gestione dei flussi all’interno dei supermercati e l’ottimizzazione dei tempi di attesa a beneficio degli utenti, come ad esempio le app FilaIndiana e Ufirst, oggetto di particolare attenzione anche da parte dell’ente pubblico. Infatti, in questo clima di emergenza sono state lanciate, sia a livello europeo che nazionale, numerose call a startup, aziende e privati cittadini, per promuovere soluzioni innovative in grado di contribuire alla lotta contro l’emergenza Covid-19.

In conclusione, tirando le fila, il caso di Milano rappresenta un esempio virtuoso, che può fornire molteplici spunti per concepire e mettere a terra un piano di azione per fronteggiare situazioni similari in futuro.
Una possibile risposta alla domanda di aiuto alimentare in clima emergenziale può passare quindi attraverso la riconfigurazione di processi esistenti e una maggior centralizzazione di responsabilità e attività in capo all’amministrazione pubblica, la creazione di una rete solida di partnership tra pubblico e settore profit e non profit, e il connubio sempre più forte tra canale fisico tradizionale e tecnologia digitale.
I motori ad alimentare l’intero sistema rimangono la solidarietà e la dedizione del volontariato e delle reti sociali, che permettono di raccogliere e interpretare i bisogni dei territori e delle persone in difficoltà e disegnare soluzioni in maniera rapida e flessibile insieme al decisore politico locale.

Emergono quindi interrogativi sulle prospettive future, quando l’emergenza sanitaria sarà allentata e successivamente, e auspicabilmente, superata, ma rimarrà più che mai vivo il problema della povertà e dell’accesso al cibo. Occorre ragionare sull’efficacia e sulla sostenibilità dell’intero sistema di aiuti, comprensivo del modello degli “hub” territoriali, in una prospettiva di più lungo periodo. Sarà forse necessario partire dalle difficoltà riscontrate e ripensare alla configurazione del modello organizzativo, a partire dai ruoli dell’ente pubblico e del Terzo Settore, per riuscire a mitigare o prevenire gli effetti di un’analoga situazione di difficoltà in futuro.

Financial Times Executive Education Ranking 2020

La School of Management del Politecnico di Milano migliora ulteriormente rispetto al 2019. In Europa è 2° e 3° tra le Scuole legate a Università tecniche nell’offerta di corsi Open e Custom. 

 

 

Dopo il nono posto al mondo per offerta di master online, MIP Politecnico di Milano migliora ulteriormente il proprio posizionamento anche nell’offerta di corsi executive.

 

MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business si conferma con la sua offerta di corsi Open e Custom tra le migliori scuole del mondo nel Financial Times Executive Education Rankings 2020, la graduatoria dedicata ai programmi Executive. Nello specifico, la School of Management ottiene l’81° posto nella classifica sui corsi “Custom” e il 74° nella “Open”.

La School of Management ottiene inoltre il secondo e il terzo posto in Europa, rispettivamente nelle classifiche “Open” e “Custom”, tra le Scuole legate a Università europee cosiddette “tecniche”, laddove con tale aggettivo si definiscono gli atenei con programmi focalizzati su ingegneria e tecnologia, naturalmente propensi a unire l’innovazione alle competenze di management.

A marzo il Financial Times Online MBA 2020 Ranking ha premiato con il nono posto nella classifica internazionale l’offerta MIP nei Master in Business Administration fruibili a distanza.

Per quanto riguarda il Financial Times Executive Education Ranking Open 2020, MIP Politecnico di Milano sale dal 79° al 74° posto, migliorando il proprio punteggio in quasi tutti i parametri. In particolare, le valutazioni più alte si registrano nel Follow-up, Facilities e Female Participants.
Considerando solamente il contesto europeo, School of Management si classifica seconda nell’insieme delle Università Tecniche che hanno una Business School o un Dipartimento di Management, e settima nell’insieme delle Università Generaliste che hanno competenza tecnica e hanno una Business School oppure un Dipartimento di Management.

Nel Financial Times Executive Education Ranking Custom 2020, rispetto allo scorso anno MIP passa dall’80° all’81° posto, a fronte però di un aumento del numero complessivo scuole considerate. La crescita tocca moltissimi criteri, soprattutto Follow-up, New Skills&Learning, Future Use, International Clients, Overseas Programs, Faculty Diversity.
La classifica stilata dal Financial Times è strutturata pertanto in due parti differenti. La prima è relativa ai programmi “open”, i cui target sono i singoli professionisti che scelgono autonomamente il proprio percorso di formazione. La seconda fa invece riferimento ai programmi “custom”, ossia ai corsi rivolti in maniera specifica alle aziende ed erogato ai rispettivi manager, e dipendenti ad alto potenziale. I parametri presi in considerazione per il giudizio finale sono valutati direttamente dai partecipanti, CEO e Direttori HR delle aziende che hanno avuto esperienza diretta del programma.

Vittorio Chiesa e Federico Frattini, Presidente e Dean di MIP Politecnico di Milano: “Abbiamo fatto un grandissimo lavoro per migliorare ulteriormente la nostra offerta anche nei corsi executive. Nelle prossime settimane presenteremo la piattaforma D-HUB Management Skills e la raccolta Management Toolbox, dedicata ai professionisti che desiderano contribuire alla crescita della propria impresa utilizzando la nostra offerta digitale. I risultati premiano i nostri sforzi in uno scenario sempre più competitivo che richiede un costante investimento nella qualità dell’offerta didattica”.

«Hostmate: così al MIP è nata la nostra startup»

La storia di questa società che opera nel mercato degli affitti brevi, nata tra i banchi del MIP. Ce la racconta uno dei suoi fondatori, Felipe Aguilera, alumnus MBA, che illustra opportunità e sfide e offre qualche consiglio a chi sta per intraprendere il percorso del master.

Le buone idee, da sole, non bastano. Devono essere studiate, approfondite, discusse, difese. È il modo migliore per tirare fuori il loro vero potenziale: «D’altra parte, se un’idea nasce perfetta, vuol dire che non è abbastanza innovativa», afferma Felipe Aguilera, alumnus del Master in Business Administration del MIP e tra i fondatori di Hostmate, startup innovativa con sede a Milano che opera nel mercato degli affitti brevi. «Gestiamo ogni aspetto del servizio, dalla messa online dell’immobile alla pulizia degli appartamenti, passando attraverso l’adempimento della parte compliance, l’accoglienza degli ospiti e la manutenzione».

Competenze trasversali per un servizio unico

Come spesso accade, Hostmate nasce da un brainstorming: «Circa tre anni fa, insieme ad alcuni amici e colleghi ci siamo messi a discutere sui cosiddetti megatrend del mercato immobiliare. Tra questi spiccava l’home sharing», racconta Felipe. «E così abbiamo dato vita a Hostmate. Attualmente operiamo soprattutto a Milano, ma piano piano ci stiamo espandendo verso Torino e Venezia. Roma e Firenze saranno le nostre prossime grandi sfide. Ci teniamo a distinguerci dai nostri competitor e a offrire un servizio unico». Le variabili da gestire sono molte e richiedono un variegato ventaglio di professionalità: «Per questo, al team si sono uniti altri due alumni del MIP: Virginia Soana, attualmente business manager, e Amr Aladl, operations strategy advisor. Due profili con background accademici molto diversi, in giurisprudenza e in ingegneria. Ma la complessità del business lo richiede», spiega Felipe. «Il nostro obiettivo primario è offrire una customer experience di alto livello, che per noi è uno dei parametri più importanti. Il cliente deve essere soddisfatto: è la migliore garanzia per il successo del nostro business. Ma per rispondere alle sue esigenze, dobbiamo conoscere il business in ogni sfaccettatura».

Tra burocrazia e innovazione

Anche il contesto operativo assume la sua rilevanza. «L’Italia offre due vantaggi fondamentali per il mercato degli affitti brevi: la diffusione delle abitazioni di proprietà e grandi volumi turistici. D’altra parte, però, troviamo una forte resistenza al cambiamento, senza dimenticarsi dell’aspetto burocratico e amministrativo: è davvero sfidante districarsi tra le varie pratiche», spiega Felipe. Per fortuna, però, questi limiti sono compensati «dalla grande disponibilità di talenti e di giovani, e meno giovani, che hanno il desiderio di innovare, cambiare le regole, combattere la paura del nuovo».

Un master che insegna a fare

Caratteristiche che, poi, hanno contraddistinto l’esperienza di Felipe al MIP. «La mia formazione precedente era nell’ambito della finanza, ma sentivo il bisogno di approfondire le basi della logistica, delle operations, dell’innovazione in generale. Soprattutto, di un master che mi portasse a “fare”, oltre che a “imparare”. L’MBA ha risposto in pieno alle mie aspettative. Abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con professori che hanno condiviso ottime linee guida per la definizione di modelli di business, operativi e organizzativi “agili”, in grado di sopravvivere ad ambienti incerti e in continua evoluzione, come quello in cui viviamo oggi. Allo stesso modo, la comunicazione aperta e il costante scambio di esperienze con i miei colleghi hanno favorito la proliferazione e il miglioramento di idee che poi si sono concretizzate in progetti reali. Hostmate è uno di questi». Infine, un consiglio a chi sta per intraprendere questo percorso: «Bisogna prepararsi a un periodo intenso di studio e di pratica, e non dimenticare che gran parte del valore dell’MBA nascerà proprio dal confronto con i colleghi, come quello tra me, Amr e Virginia, e i professori. Quindi alzate la voce e alzate la mano».

Una risposta alle sfide Covid-19

Nonostante la pandemia del Covid-19 abbia impattato notevolmente il settore dell’hospitality, Hostmate e il suo team hanno saputo reagire. «Abbiamo deciso di approfittare di questo particolare frangente per accelerare alcuni importanti progetti inclusi nel piano strategico, in particolare, Hostmate Strutture Ricettive e Hostmate Centro Affitti» afferma Felipe «Il primo progetto, ad esempio, punta ad aiutare le strutture ricettive meno digitali , inserendo e gestendo la propria struttura nelle principali piattaforme virtuali di prenotazione e aiutandoli nella comunicazione con i propri ospiti». Rispetto al futuro del settore, l’alumnus commenta invece così «Ci aspettiamo lato inquilini e ospiti una maggiore attenzione a tematiche igienico-sanitarie nonché un incremento nell’utilizzo dei canali digitali per la prenotazione, comunicazione e pagamento dei servizi, ma saremo pronti ad affrontare le nuove sfide».

Privacy e Covid: le vere domande da porsi

Le applicazioni che tracciano gli spostamenti dei cittadini per prevenire il diffondersi incontrollato del contagio sollevano diverse preoccupazioni sul fronte della privacy.
Eppure ogni giorno esponiamo e cediamo i nostri dati volontariamente senza rendercene conto.

 

Tommaso Buganza, Professore di Leadership and Innovation
Daniel Trabucchi, Assistant Professor di Leadership and Innovation
School of Management Politecnico di Milano

 

Stiamo vivendo una situazione senza precedenti. La pandemia globale che abbiamo visto in molti film hollywoodiani è oggi una realtà e – senza popcorn – ha un aspetto completamente diverso.
In Italia – come si spera avvenga presto in altri paesi – il tasso di diffusione ha iniziato finalmente a scendere e la discussione si sta spostando sulla gestione della “Fase 2”. Come sarà il “new normal”? Come sarà vivere in un mondo in cui il virus è sotto controllo, ma ancora presente?

Gli esperti digitali stanno proponendo possibili “scenari futuristici” in cui le applicazioni mobili ci tracceranno per informare immediatamente le persone potenzialmente esposte e interrompere la catena di trasmissione del contagio (si veda, ad esempio, il progetto paneuropeo Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing project). È notizia del 17 aprile la firma del governo per la stipula del contratto per l’app “Immuni”, con l’obiettivo del contact tracing tramite bluetooth.

Nel frattempo, Google ha condiviso dati anonimi per aiutare le forze dell’ordine nell’identificazione di assembramenti durante il lockdown (Giuffrida, 2020; Hamilton, 2020) e ha stretto una partnership con Apple per sviluppare una tecnologia di tracciamento dei contatti (Apple, 2020). Allo stesso tempo, il mondo comincia a guardare avanti, chiedendosi “come” – dato che “se” non è più un’opzione – questa emergenza globale cambierà la nostra vita negli anni a venire. In un articolo sul Financial Times, Yuval Harari descrive le possibili implicazioni dell’utilizzo delle tecnologie disponibili per tracciare i movimenti e i comportamenti delle persone. Da un lato questo aiuterebbe i sistemi sanitari nazionali, ma, dall’altro, il costo potrebbe essere una “nuova normalità” in cui le nostre funzioni vitali sono costantemente misurate, memorizzate e analizzate. È facile immaginare come questa enorme banca dati, insieme alla crescente conoscenza della biomeccanica umana e all’impressionante progresso dell’intelligenza artificiale, possa portare a una riduzione della democrazia e dei diritti civili nei nostri Paesi (Harari, 2020).

Le persone sembrano spaventate, non solo dalla pandemia, ma anche dalla perdita di privacy (Brody and Nix, 2020). Stiamo lentamente ma inesorabilmente perdendo la nostra libertà?

Cosa sappiamo già sull’utilizzo dei nostri dati? I dati sono il nuovo petrolio, sempre più considerati una risorsa preziosa da sfruttare. Sono preziosi perché ci permettono di capire cose che altrimenti non capiremmo. Ci mostrano qualcosa che non conosciamo, sia come individui che come collettività. Ci mostrano cose che sono proprio davanti a noi, ma che sono troppo complicate per essere viste dai singoli cervelli umani.

Pensate a Netflix, uno dei servizi che molti di noi usano intensamente in questi giorni di isolamento. Scegliere un nuovo film o una nuova serie è un’avventura epica. Questo è vero. Ma forse non sapete che Netflix vi ha già reso le cose molto più facili. Probabilmente avrete notato che il “match score” (la percentuale che indica quanto sia probabile che apprezziate il contenuto) è spesso molto alto. Netflix traccia tutti i vostri comportamenti, i film e le serie tv che avete visto, la frequenza di visione e altri dati per proporvi solo contenuti che vi dovrebbero piacere. Se siete curiosi, potete provare a cercate in tutto il catalogo, scoprirete molti altri contenuti che non avete mai notato… e che probabilmente non vi piaceranno!

Questo è solo un esempio… ma la lista di servizi che usiamo quotidianamente, basati su questi meccanismi è molto lunga. Spotify può suggerirci canzoni, Amazon prodotti, la nostra app per il fitness -Runkeeper, Runtastic, Freeletics… – la prossima sessione di allenamento ottimizzata per noi, sulla base delle precedenti.
Potrebbe sembrare qualcosa di distintivo dell’app economy, ma non lo è. Google ha costruito il suo impero su un modello di business basato sui dati, partendo con gli annunci mirati sul loro motore di ricerca, usando gli utenti per taggare le immagini (con il gioco Google Image Labeler) ed anche i captcha per rilevare gli indirizzi (Perez, 2012) o identificare meglio le immagini di street view… con il fine ultimo di supportare lo sviluppo di algoritmi per le auto a guida autonoma (Kid, 2019). Anche imprese non native digitali ormai utilizzano pienamente i dati. Basti pensare a Starbucks che utilizza i dati della sua app per ottenere informazioni sulle abitudini e sui gusti dei propri clienti (Gallea-Pace, 2020).

Le grandi aziende digitali ci conoscono perfettamente, ci conoscono molto di più di quanto immaginiamo. E alcune di loro, nel corso degli anni, sono diventate estremamente brave a trarre profitto e a catturare valore dai dati (Trabucchi et al., 2017, 2018).
Ci “ripagano” con servizi personalizzati o, in alcuni casi, gratuiti… che ci piacciono ancora di più.
Le aziende – ovviamente – devono rispettare tutte le leggi sulla privacy, e il GDPR in Europa ha giocato un ruolo enorme in questo. Tuttavia, possono fare molto con i dati che forniamo loro perché accettiamo i termini di utilizzo… solitamente senza leggerli.

È curioso, ma non è nemmeno la prima volta che la questione della privacy genera degli scandali molto diffusi. Due anni fa, sui social media di tutto il mondo impazzava l’hashtag #LeaveFacebook.
Lo scandalo di Cambridge Analytica ha messo in evidenza il modello di business di Facebook basato sui dati, le sue implicazioni per la nostra privacy, e persino l’impatto che i dati possono avere sulla nostra vita attraverso il micro-targeting e fenomeni simili (Cadwalladr, 2019). In quelle settimane, sembrava che il mondo si stesse rendendo conto di quello che stava succedendo da anni: i dati sono preziosi, le aziende li usano. Guardando Mark Zuckerberg in giacca e cravatta davanti al Congresso degli Stati Uniti, molti di noi pensarono che Facebook sarebbe diventato vuoto come le nostre città in queste settimane. Ma non è successo. Dopo il clamore iniziale, siamo tornati alle nostre abitudini… godiamo troppo dei nostri servizi digitali gratuiti per preoccuparci di come li paghiamo.

Ed eccoci di nuovo qui. In questo momento storico unico, ci ritroviamo a pensare molto a come sarà il “new normal”. Se abbiamo davvero a cuore la nostra privacy, dovremmo chiederci: il nostro prossimo futuro sarà diverso solo in termini di relazioni sociali e di come ci muoviamo o metterà in discussione anche la nostra consolidata vita digitale?
Possiamo ancora riavere la nostra privacy… se vogliamo. Ma, siamo pronti a rinunciare a quei meravigliosi servizi forniti da Netflix, Waze, Amazon, Spotify, Instagram, Facebook, TikTok, Twitter, Snapchat e tutti gli altri?

Questo è il nostro punto: l’improvvisa paura legata all’utilizzo dei dati personali per proteggere la salute pubblica è davvero giustificato? Forse dovremmo invece accettare il fatto che la “nuova normalità” pone domande ancora più difficili da affrontare:

Diamo più valore ai servizi gratuiti che alla salute pubblica?
Ci fidiamo più delle aziende private che dei nostri governi?

Covid-19: l’impatto sull’eCommerce B2c

Il lockdown ha cambiato profondamente le abitudini dei consumatori: gli acquisti online di prodotti alimentari e beni di prima necessità sono cresciuti in modo esponenziale. La reazione dei retailer è stata diversa e condizionata dal comparto merceologico e dalla presenza di un’iniziativa eCommerce. Nella fase di ripresa, una profonda ristrutturazione attende il mondo Retail.

 

Riccardo Mangiaracina, Professore di gestione dei sistemi logistici e produttivi, Responsabile Scientifico Osservatorio eCommerce B2c
Valentina Pontiggia, Direttore Osservatorio eCommerce B2c e Innovazione Digitale nel Retail
School of Management Politecnico di Milano

 

Prima della crisi… l’eCommerce, canale in crescita in Italia e all’estero
Nei mercati più maturi l’eCommerce è diventato un canale di primaria importanza nella generazione dei consumi. Nel 2019 in Cina o in UK, ad esempio, ogni 100 euro spesi dai consumatori, circa 20 sono transitati online. Nei mercati dove l’offerta si è sviluppata con più ritardo, l’online si è comunque appropriato di importanti spazi di crescita del commercio. In Italia, ad esempio, l’eCommerce nel 2019, nonostante abbia rappresentato ancora una piccola parte degli acquisti complessivi (7,3% del totale), ha generato infatti il 65% della crescita Retail complessiva (online + offline) [1] .

Negli ultimi anni, il canale online ha aumentato non solo la dimensione del mercato, ma anche il suo perimetro di azione e di influenza. In prima battuta, l’eCommerce è diventato decisivo nello sviluppo e nella promozione di nuovi modelli di relazione con i consumatori fortemente innovativi che, pur partendo dall’online, si sono propagati a tutto il Retail. Questa trasformazione ha coinvolto l’intera catena del valore: il marketing, dove intelligenza artificiale e realtà aumentata hanno permesso al consumatore di “vivere” il prodotto (sia online sia in store) prima di possederlo; i pagamenti, dove l’utilizzo di biometria, già abbastanza diffuso online, ha acquisito sempre più importanza anche offline; la logistica, dove sono emerse diverse innovazioni sia per migliorare il servizio sia per dare al cliente finale un elevato controllo del processo.
In seconda battuta, il successo dell’eCommerce e la nascita di nuove modalità di acquisto e di interazione hanno cambiato il significato originario del negozio fisico, che non è più l’unica possibilità di accesso fisico al prodotto. In questo processo di trasformazione, i retailer tradizionali hanno attribuito al negozio nuove funzionalità, prevalentemente in ottica relazionale, demandando la fase transazionale all’eCommerce. Tante le sperimentazioni di nuovi format anche sul suolo italiano, in primis su Milano [2].

La rilevanza acquisita dall’eCommerce ha portato con sé anche una maggior attenzione (non sempre in chiave positiva) dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Nuovi obblighi normativi (PSD2 con la cosiddetta Autenticazione Forte del Cliente per autorizzare le transazioni finanziarie online e Web Tax), attenzione ai temi della sostenibilità (non solo economica ma anche ambientale) e la posizione dominante di alcuni grandi colossi, in primis Amazon e Alibaba, sono solo alcuni dei temi più dibattuti.

Durante la crisi… l’eCommerce, strumento per rispondere all’emergenza
Il commercio è uno degli ambiti più impattati dall’emergenza Coronavirus. La reazione dei retailer è stata fortemente condizionata dalla presenza o meno di una propria iniziativa sul canale online.
Molti negozi fisici, soprattutto quelli focalizzati sui beni alimentari e di prima necessità, si sono avvicinati per la prima volta all’eCommerce. La soluzione più immediata è stata l’utilizzo di soggetti terzi già presenti online. Sono diversi i ristoranti che hanno digitalizzato la propria offerta di piatti pronti attraverso piattaforme di food delivery e tanti i supermercati che hanno attivato l’eCommerce mediante alleanze con piattaforme che già da tempo abilitano (dal punto di vista tecnologico e operativo) la spesa online di alcune insegne della grande di distribuzione. Ancora più numerosi i negozi di quartiere che hanno iniziato a lavorare con strumenti digitali meno evoluti dell’eCommerce, ma ugualmente interessanti, come ad esempio i tanti punti vendita di vicinato (negozi di alimentari, farmacie, …) che hanno attivato la presa dell’ordine via whatsapp o per telefono.
Gli attori già presenti online, dall’inizio dell’epidemia, hanno riscontrato un incremento degli ordini riconducibili ai nuovi consumatori, che per la prima volta hanno deciso di utilizzare i loro servizi. In questa emergenza è venuto però alla luce un fatto tanto semplice quanto importante. Nelle iniziative online, soprattutto di prodotti alimentari, le operations hanno dettato con violenza i ritmi e soprattutto hanno imposto i limiti. Fare eCommerce richiede impegno e una macchina operativa perfettamente funzionante ed efficiente: processi ottimizzati di picking e di trasporto, soprattutto quando parliamo di spesa da “supermercato” (che per onor di cronaca è costituita mediamente da 50 pezzi, di basso valore unitario e che richiedono trattamenti speciali come il trasporto a temperatura controllata). Le dipendenze tra mondo fisico e digitale sono emerse anche con altre sfumature: tutti quei retailer multicanale di abbigliamento, beauty, informatica ed elettronica, costretti alla chiusura dei propri negozi, hanno trovato nell’online una preziosa possibilità per mantenere la relazione, in alcuni casi intensificandola, e per creare valore (e non vendite) con i propri consumatori. A questo proposito si citano l’invio di questionari agli utenti per raccogliere opinioni e spunti di miglioramento e l’erogazione di corsi online (di fitness, di cucina,…) correlati ai prodotti commercializzati.
Durante la crisi abbiamo visto, quindi, cadere una dopo l’altra le barriere all’integrazione omnicanale che avevano bloccato per anni lo sviluppo della strategia digitale dei retailer italiani. La gestione dell’emergenza ha convinto anche i più restii al cambiamento, a superare gli scontri interni tra funzioni, a definire chiare responsabilità e a dedicare il giusto commitment per realizzare una nuova idea di commercio, integrato e indipendente dai canali. Via libera dunque agli investimenti per potenziare il canale eCommerce o per favorire modalità di vendita fondate sull’integrazione tra esperienze online e offline, come il click&collect, il drive&collect o l’allestimento degli ordini online in store.

Dopo la crisi… l’eCommerce, elemento imprescindibile per la ripresa del commercio
In questi giorni di emergenza sono tante le domande che ci poniamo sugli effetti e sulle mutazioni che ci attendono nel mondo del commercio. Tra le poche certezze, ci sono a nostro avviso la vicinanza che i canali online e fisico stanno dimostrando con forza in questo momento difficile e il ruolo indispensabile che l’eCommerce svolgerà per la ripresa del commercio e dei consumi.
Mai come durante l’emergenza sanitaria i consumatori italiani hanno compreso il valore di questo canale: l’eCommerce ha consentito a una larga fetta della popolazione di fruire di servizi a valore aggiunto, importanti ed essenziali come la consegna di cibo. Crescita dei web shopper (che a fine 2019 erano pari a poco più di un terzo della popolazione italiana), maggior dimestichezza e fiducia nell’online e nei pagamenti digitali (anche da parte di chi online acquistava già) potranno generare un effetto positivo nello sviluppo dell’eCommerce.
Dall’altra parte, lo sforzo encomiabile messo in campo da diversi attori non verrà vanificato: a crisi finita rimarranno gli investimenti in tecnologia (per gestire picchi di traffico), la presenza di nuovo personale formato e l’ottimizzazione di processi di prelievo e di trasporto per gestire al meglio non solo questa domanda “straordinaria”, ma anche un futuro in cui il digitale sarà sempre più fondamentale.
L’eCommerce sarà sempre più motore di crescita e di innovazione del Retail: quando avremo lasciato alle spalle questa crisi, cercheremo come consumatori una nuova normalità, sicuramente più digitale. Una sfida importante per il nostro Retail!

 

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[1] Fonte: Osservatorio eCommerce B2c – School of Management Politecnico di Milano.
[2] Per i risultati completi della Ricerca, “eCommerce: motore di crescita e innovazione del Retail” disponibile su www.osservatori.net

Convegno Osservatorio Multicanalità 2020

L’Osservatorio Multicanalità, nato nel 2007, è il punto di riferimento della Business Community italiana sul tema della multicanalità.

La ricerca 2020 – promossa dalla School of Management e Nielsen – coniugando dati, analisi e insight sullo scenario italiano di consumatori e imprese, offre un quadro esaustivo del processo di acquisto del consumatore multicanale, introducendo anche gli aspetti connessi alla fruizione mediale.

In particolare, tra i trend evolutivi già evidenziati nelle edizioni precedenti, la Ricerca 2020 si concentrerà su:

  • l’analisi dell’evoluzione degli scenari di consumo multicanale;
  • l’analisi del ruolo dei touchpoint all’interno del customer journey nell’ottica dell’Everywhere Commerce;
  • l’analisi della fruizione mediale dei consumatori italiani;
  • identificazione di trend predittivi dell’evoluzione del comportamento dei consumatori italiani.

I risultati della ricerca saranno presentati nel corso dei seguenti eventi:

13 maggio 2020 – Multicanalità anteprima 2020: il nuovo umanesimo digitale

L’emergenza che stiamo attraversando rappresenta un game changer che ridefinirà logiche, regole e confini di tutte le industries. Quali le prime tendenze che emergono tra consumatori e aziende? Cosa è contingente e cosa diventerà strutturale nei nostri comportamenti? Quali prospettive e linee guida per il marketing nel mondo post covid-19?

Il Webinar si concentrerà sulle seguenti tematiche:

  • Impatto dell’emergenza Covid sulle tendenze del largo consumo
  • eCommerce e servizi digitali: se non ora quando?
  • Scenario media, advertising, servizi digitali. Segnali dal futuro
  • Ibridazione digitale e fisico come necessità
  • Il nuovo umanesimo digitale: opportunità e sfide

Per maggiori informazioni e per iscriverti, clicca qui.

27 ottobre – Convegno di presentazione della ricerca 2020

Per maggiori informazioni, clicca qui.

Informazioni utili

La partecipazione al Convegno è gratuita. Per maggiori informazioni contattare valentina.palummeri@polimi.it

 

Emergenza Covid in Italia: l’effetto startup da non vanificare

Le startup hanno nel proprio DNA la capacità di adattarsi al cambiamento e in questa emergenza hanno messo a disposizione idee, capacità di lavoro e velocità di reazione, spesso pensando prima all’interesse della comunità piuttosto che al ritorno economico. Un asset del nostro tessuto imprenditoriale che va sostenuto e incentivato.

 

Alessandra Luksch, Direttore Osservatorio Startup Intelligence
Osservatori Digital Innovation, School of Management Politecnico di Milano

 

L’emergenza Coronavirus ha stravolto il mondo consolidato delle imprese. Per fare qualche esempio, le industrie manifatturiere sono costrette a condizioni di lavoro inusuali, gli operatori logistici oscillano tra impennate nelle consegne e fermi totali, gli esercizi commerciali, banche comprese, devono attrezzarsi per una nuova gestione della clientela.
In questo contesto di repentino inatteso cambiamento, in cui le imprese tradizionali e le istituzioni sono disorientate, l’ecosistema startup sembra trovare vie per supportare la nuova quotidianità imposta.

La bresciana Isinnova ha risposto immediatamente all’emergenza e progettato valvole per i respiratori per i pazienti Covid-19, da installare su maschere da snorkeling. Ha poi rilasciato pubblicamente il brevetto per stampa 3D, a patto che non venisse usato a scopo di lucro. Oggi sono milioni i pezzi stampati in tutto il mondo e decine gli ospedali che provano la dotazione. Ufirst sta fornendo gratuitamente l’app di gestione delle code agli esercizi commerciali, così come si sta diffondendo in modo free la neonata Filaindiana per conoscere la lunghezza delle file nei negozi. Soldo, startup per la gestione delle spese aziendali, sta lavorando con decine di comuni, tra cui Milano, per gestire la distribuzione dei sussidi alimentari. Weschool ha donato a centinaia di scuole italiane la propria piattaforma di didattica a distanza, formando i docenti e sostenendo i costi per il servizio in cloud. E tante si stanno adattando al cambiamento come FrescoFrigo, che ora installa i suoi punti di consegna anche nei condomini. Non mancano anche i casi di fallimento, ma la lista può continuare, come sta monitorando l’Osservatorio Startup Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano.

Non siamo stupiti. Le startup hanno nel proprio DNA la capacità di adattarsi al cambiamento e in molti casi fanno del cambiamento la propria spinta propulsiva. Il modello lean startup, teorizzato da Eric Ries, è agile, resiliente, frugale, orientato alla sperimentazione veloce, alla centralità del cliente. Le startup sono abituate ad ascoltare costantemente il mercato, a testare in pochi giorni nuovi prodotti o nuovi mercati, a cambiare strategia, cliente, modello di business, a sfruttare le tecnologie. In questo frangente esse stanno mettendo a disposizione velocemente le loro principali risorse: idee e capacità di lavoro; spesso pensando prima all’interesse della comunità piuttosto che al ritorno economico.

Questo sforzo prodigioso, questo “effetto startup”, manifestatosi così forte in un momento così grave, non deve essere vanificato nel nostro Paese ma si spera possa essere valorizzato come patrimonio di sistema. Due, almeno, sono le riflessioni da cui parte questo augurio.

La prima riflessione è relativa all’effetto culturale. L’approccio mostrato dalle startup potrà essere la chiave di volta per affrontare le prossime fasi e portarci verso la nuova normalità. Le imprese tradizionali devono imparare a ragionare come le startup, per adattarsi e sopravvivere ai cambiamenti (come recita Darwin). In Italia già oggi il 35% delle grandi imprese collabora con le startup, come emerge dalle ricerche dell’Osservatorio Startup Intelligence, mentre è molto più limitato il fenomeno nelle PMI (4%). Le imprese tradizionali dovranno imparare a uscire dai propri modelli rigidi, dalle procedure impaludate, superare al proprio interno silos funzionali, o ancor peggio culturali. Dovranno saper prendere rapidamente decisioni, anche sulla base di errori perché, parafrasando una famosa citazione del pilota Mario Andretti, in questo momento dobbiamo andare veloci anche a rischio di non avere tutto sotto controllo. Superato questo drammatico momento, le imprese che avranno saputo adottare nuovi modelli culturali e di gestione d’impresa possiederanno un importante vantaggio competitivo rispetto a quelle che avranno solo cercato di limitare i danni.
Pochi giorni fa, lo stesso Henry Chesbrough, padre del concetto di Open Innovation, ha dedicato un articolo all’emergenza Coronavirus, in cui sottolinea che in tempo di crisi, come quello che stiamo vivendo a livello mondiale, la velocità è elemento cruciale. Prima conosciamo, prima possiamo agire. Altrettanto cruciale è sapere collaborare perché questo può potenziare il progresso collettivo, e Chesbrough chiama alle armi alcune note aziende affinché mettano a disposizione i propri bevetti (magari inutilizzati) e i propri asset per fronteggiare l’emergenza.

La seconda riflessione riguarda l’effetto sul sistema economico. Molte imprese stanno soffrendo l’assenza di liquidità. L’emergenza ha portato uno shock nell’offerta ma anche un profondo shock nella domanda. Si stima una caduta del Pil interno di quasi dieci punti percentuali (Confindustria); non va meglio nel resto del mondo (primo trimestre 2020 in Cina -6,8%) e per quasi tutte le imprese permane l’incertezza per il futuro. In questa condizione quasi tutti gli investimenti sono stati bloccati, per qualsiasi cifra superiore a zero. Gli investimenti in startup non fanno eccezione. In questo periodo i round di investimenti in Cina si sono dimezzati (Fortune Italia), e alcuni studi stimano che nel 2020 verranno perse decine di miliardi di dollari di investimenti in startup, con ulteriori ricadute drammatiche sull’ecosistema globale (Fortune Italia). Il nostro ecosistema di finanziamenti alle startup non ha le spalle larghe, esso non raggiunge il miliardo di euro, secondo i dati dell’Osservatorio Startup Hi-tech, ed è di gran lunga sottodimensionato rispetto a tutti i Paesi europei con noi confrontabili. Il lavoro degli investitori formali, i Venture Capital, non si è completamente fermato ed essi chiamano a gran voce, insieme alle associazioni, l’aiuto dello Stato per sostenere questo comparto della nostra economia, così come ha fatto la Francia con 4 miliardi di euro di sostegno alle startup. Le startup spesso non fatturano, non rientrando così nei requisiti dei piani liquidità attuali di sostegno alle imprese. Ma esse investono in Ricerca e Sviluppo, la linfa vitale per lo sviluppo, il progresso e la crescita del nostro Paese. Inoltre, esse sono fonte cruciale di nuova occupazione qualificata: negli Stati Uniti il 95% dei nuovi posti di lavoro è creato da imprese con meno di 5 anni (US Census Bureau). Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro la crisi attuale potrebbe causare 25 milioni di disoccupati in tutto il mondo, assai peggio della crisi del 2008. Fermare l’ecosistema startup potrebbe significare bloccare un meccanismo potente di riavvio e di crescita nel nostro Paese.

Per almeno questi motivi l’effetto startup a cui stiamo assistendo non deve essere vanificato, ma deve essere incentivato, per non compromettere una parte promettente del nostro tessuto imprenditoriale. Le startup non devono essere dimenticate, ma sostenute. Determinanti saranno gli interventi che il nostro Governo saprà mettere in campo, dall’iniezione di credito nei circuiti dei finanziamenti all’alleggerimento degli oneri a carico delle startup.
Nessuno sa ancora come sarà domani, ma la mentalità e l’ecosistema startup nel loro complesso potranno contribuire, come già ora fanno, alla ripartenza di tutto il nostro sistema economico.

La crisi globale da Covid-19 e le ripercussioni sul commercio internazionale e sulle catene globali del valore

Lo shock all’economia mondiale provocato dall’emergenza sanitaria Covid-19 è tanto globale quanto le catene del valore su cui si basa. Ma chiudere le frontiere e applicare restrizioni agli scambi non è una soluzione auspicabile: agire in modo coordinato può garantire una ripartenza efficace per tutti i sistemi economici, bilanciando le necessità e le capacità produttive dei singoli paesi.

 

Lucia Tajoli, professoressa di International Markets and European Institution
School of Management Politecnico di Milano

 

E’ ancora presto per avere dati ufficiali e stabilizzati, ma è oramai molto chiaro che la diffusione del cosiddetto COVID-19 e la associata pandemia stanno avendo effetti molto pesanti sull’economia mondiale, con chiare implicazioni anche per il commercio internazionale.
Il commercio internazionale risultava già in decelerazione nell’ultima parte del 2019, a causa del generale rallentamento del ciclo economico in molti paesi. I primi mesi del 2020 stanno confermando questo forte rallentamento degli scambi. La World Trade Organization (WTO) sta aggiornando in modo continuo le previsioni per l’anno in corso, che risultano al ribasso sia per gli scambi di beni sia per gli scambi di servizi a seguito dello shock sulla produzione e sulla domanda che si sta allargando a vari paesi. Dato l’elevato livello di incertezza però, le maggiori istituzioni internazionali non si azzardano ancora a fornire cifre precise. Anche le stime prodotte dal WTO nel mese di aprile sulla possibile caduta degli scambi mostrano un intervallo amplissimo, tra – 13% e – 32%.

La caduta del commercio internazionale è una conseguenza inevitabile della situazione attuale, dal momento che le aree al momento più coinvolte nella crisi sanitaria con gravi ripercussioni economiche sono quelle dei maggiori protagonisti del commercio mondiale: Cina, Unione Europea, ed USA generano oltre la metà dell’intero commercio mondiale. Dunque, l’impatto del rallentamento in questi paesi si fa sentire sui flussi di scambio a livello globale, anche in aree relativamente poco esposte al contagio.

Un aspetto particolare degli scambi commerciali rende più grave l’effetto della crisi e preoccupa gli osservatori. Da almeno venti anni è cresciuto il peso e il ruolo delle catene globali del valore nei mercati mondiali. Secondo un recente rapporto della Banca Mondiale, oggigiorno la maggior parte dei flussi di scambio tra paesi avviene all’interno delle catene globali del valore (o Global Value Chains, GVCs), ovvero è generato da processi produttivi che attraversano i confini dei paesi e coinvolgono nella catena di produzione di beni, soprattutto complessi, imprese specializzate localizzate in aree anche lontane. Il ruolo di queste catene globali del valore in questa crisi appare cruciale. Secondo alcuni osservatori, questa organizzazione internazionale della produzione ha creato un sistema economico fragile e maggiormente esposto agli shock internazionali. Il rischio di una interruzione della fornitura degli input necessari per la produzione è maggiore in una catena produttiva molto dispersa geograficamente. Inoltre, la presenza di queste catene produttive può amplificare la trasmissione degli shock secondo il cosiddetto “effetto frusta”. In presenza di uno shock negativo che colpisce quasi simultaneamente molti paesi economicamente connessi, il rallentamento della produzione di un sistema economico fornitore di input produttivi essenziali si trasmette ai sistemi connessi a valle, riducendone la capacità di produzione, aggiungendo un ulteriore stretta negativa al rallentamento locale della produzione (che può essere dovuto a fattori locali sia di domanda che di offerta), ed amplificando quindi lo shock. Le aree in cui la diffusione dell’epidemia è risultata maggiore sono tra loro strettamente collegate dalle GVCs in molti settori cruciali, dal tessile-abbigliamento all’elettronica di consumo. Per questo effetto di amplificazione dello shock, le previsioni sull’andamento dell’economia globale e sul commercio internazionale sono più negative che in qualsiasi altra crisi del passato.

E’ importante però ricordare che queste catene globali di produzione, anche se hanno reso più interdipendenti le diverse economie tra loro, hanno generato enormi guadagni di efficienza in moltissimi settori e hanno reso disponibili molti beni a prezzi che hanno consentito una diffusione di massa tra tutti i consumatori. Senza la specializzazione in specifiche fasi e componenti della produzione di alcuni paesi e di imprese collegate tra loro, molti dei beni oggigiorno di uso comune non sarebbero disponibili, o lo sarebbero a costi proibitivi. Inoltre, questa organizzazione della produzione ha consentito la partecipazione ai mercati internazionali anche a paesi emergenti che hanno trovato nelle GVCs una modalità di accesso a produzioni che non avrebbero potuto sviluppare in modo autonomo, generando così crescita, occupazione e diffusione della tecnologia.

Già prima dell’attuale crisi si parlava di una tendenza all’accorciamento delle GVCs e del cosiddetto “reshoring”, ovvero di riportare all’interno di alcuni paesi i cicli produttivi in precedenza delocalizzati all’estero. Questo perché questa organizzazione internazionale della produzione, anche se permette guadagni di efficienza e vantaggi di costo, per alcune imprese e alcuni settori risulta troppo complessa, con la perdita del controllo diretto su alcune fasi produttive ed un aumento dei rischi e dei costi organizzativi. In realtà, il fenomeno del reshoring è stato limitato ad alcuni paesi e ad alcune nicchie produttive particolari. La mancanza di controllo sul ciclo produttivo appare potenzialmente rischiosa per alcuni paesi, prima di tutti per la Cina, spingendola negli ultimi anni ad accorciare le proprie catene internazionali di produzione per ragioni soprattutto geopolitiche. Questa scelta ha avuto effetti a livello globale data la rilevanza economica di questo paese. Tuttavia, la crisi in corso potrebbe spingere ulteriormente sul ridimensionamento delle catene produttive internazionali, anche nel tentativo di ridurre l’interdipendenza dei paesi.

Va però ricordato che anche in questa fase di crisi, gli scambi tra paesi svolgono un ruolo fondamentale, ed è essenziale cercare di non ostacolarli eccessivamente. Il commercio internazionale spesso garantisce la disponibilità e l’accessibilità economica di medicinali vitali, prodotti medici e servizi sanitari, in particolare per i paesi più vulnerabili: nessun paese è completamente autosufficiente per i prodotti e le attrezzature di cui ha bisogno per i suoi sistemi di sanità pubblica. Anche molte attrezzature mediche sono prodotte all’interno di GVCs che rendono disponibili componenti avanzate non sempre facilmente prodotte in tutti i paesi. Inoltre, attraverso il commercio internazionale è possibile sopperire a carenze della produzione, oltre che di apparecchiature sanitarie e di farmaci, anche di varie tipologie di beni di prima necessità, distribuendo in modo più efficiente questi beni dove sono più necessari. In questa situazione di emergenza, nonostante la tentazione di alcuni paesi di chiudere le frontiere e di applicare restrizioni agli scambi per accumulare scorte, i governi si accorgono anche di avere bisogno gli uni degli altri e dell’importanza di agire per quanto possibile in modo coordinato a fronte di un problema che è assolutamente globale.

Un ridimensionamento drastico delle catene globali del valore avrebbe conseguenze molto serie, sia nel corso della crisi per gli effetti che questo avrebbe su molti approvvigionamenti, sia in seguito alla crisi impattando su molti settori fondamentali che si sono sviluppati grazie a questa interdipendenza. L’attuale crisi può però essere l’occasione per ripensare ad alcuni aspetti organizzativi di queste catene produttive, accettando un ribilanciamento tra vantaggi e rischi, nella direzione eventualmente di una parziale riduzione di efficienza per ottenere una riduzione dei rischi, per esempio accumulando maggiori scorte o diversificando di più i fornitori, i distributori o i canali logistici. Eppure, proprio una crisi così acuta e la necessità di assicurare una ripartenza efficace dei sistemi economici sottolinea l’importanza di non rinunciare ad una modalità di organizzazione internazionale della produzione che ha prodotto miglioramenti economici fondamentali, e di mantenere aperti gli scambi internazionali proprio come mezzo per bilanciare le necessità e le capacità produttive dei singoli paesi.

Figura 1 – Partecipazione dei paesi alle catene globali del valore (dati 2015)

Fonte: World Bank, World Development Report 2020

 

Figura 2 – Aumento tendenziale del coinvolgimento nelle GVCs nei settori produttivi

Fonte: World Bank, World Development Report 2020

I cambiamenti nella logistica a fronte del Covid-19

La pandemia Covid-19 ha imposto al settore della logistica, più che in altri, di adattarsi rapidamente alle nuove necessità dei territori, delle filiere e dei consumatori, sperimentando nuovi modelli collaborativi e organizzativi basati su flessibilità e digitalizzazione. Il punto di partenza per affrontare le prossime sfide.

 

Prof Marco Melacini, professore di Logistics Management, Direttore Osservatorio Contract Logistics “Gino Marchet”
School of Management Politecnico di Milano

 

La risposta all’emergenza che la popolazione sta vivendo vede in prima linea il sistema sanitario, a fianco del quale stanno lavorando altri comparti che forniscono i servizi essenziali. A garantire il loro funzionamento attraverso l’approvvigionamento di tutti i prodotti necessari, c’è la logistica, le cui origini in ambito militare hanno fornito i cromosomi per affrontare la sfida odierna. Sebbene siamo ancora in piena emergenza è utile cominciare a pensare alla “fase 2” e a come cambierà la logistica, soprattutto perché difficilmente il Paese riprenderà a funzionare come prima nel medio periodo e ci potranno essere diversi momenti di stop and go, magari con applicazione delle “zone rosse” a aree del Paese più limitate.

Il modo migliore per rispondere alla domanda su come cambierà la logistica è osservare la reazione mostrata nell’ultimo mese, che ha sconvolto la vita di ognuno e delle aziende, con particolare attenzione alla logistica della filiera farmaceutica e di quella alimentare, che hanno mantenuto una piena operatività.

In primo luogo, emerge l’importanza di adottare una strategia “agile” rispetto a una strategia maggiormente orientata alla minimizzazione dei costi in un contesto di domanda prevedibile. Concretamente questo significa lavorare con una maggiore ridondanza di risorse (in primis magazzini) per poter riallocare velocemente le scorte e superare le criticità, come lo stop delle attività, a livello locale. L’implementazione di tale strategia richiede anche un incremento della velocità decisionale, in cui le scelte devono essere sempre più data driven e dinamiche. Per la parte di pianificazione, un metodo adottato è stato lo smart working, la cui efficacia è stata maggiore per le aziende che avevano già sperimentato questa modalità di lavoro da remoto e che adottano tecnologie e software in cloud. Quest’ultime infatti facilitano l’accesso ai sistemi informatici da remoto e favoriscono l’incremento della visibility lungo la filiera.

Esiste poi una parte di attività che rimane forzatamente sul campo, come l’allestimento degli ordini e il trasporto. Su queste è fondamentale declinare il concetto di responsabilità sociale in termini di sicurezza del luogo di lavoro. Concretamente questo si è tradotto nella distribuzione dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) per tutti i lavoratori, nella frequente sanificazione dei luoghi di lavoro (magazzini, cabine dei mezzi di trasporto, ma anche risorse utilizzate come terminali o supporti di movimentazione come le cassette per la consegna dei farmaci), nel monitoraggio delle temperature corporee di tutte le persone prima dell’accesso al sito, oltre che nella revisione delle procedure operative (ad esempio per ridurre la condivisione di risorse, come le cuffie per il voice picking, o aumentare le distanze fra gli operatori). La riduzione dei “contatti” fisici sarà sempre più favorita dalla digitalizzazione della filiera, che consentirà ad esempio di evitare la stampa e la gestione cartacea dei documenti di trasporto.

La strategia “agile” si basa anche sul concetto di flessibilità, che consente di implementare velocemente le soluzioni più idonee per rispondere ai cambiamenti del contesto. In questa situazione le aziende sono riuscite ad essere flessibili grazie alla terziarizzazione della logistica e al modello di terziarizzazione adottato nel Paese. Alcuni operatori logistici hanno riallocato in poco tempo merci per oltre 25.000 m2 di occupazione di magazzino. La collaborazione orizzontale fra gli operatori della logistica conto terzi (un settore che vale oltre 84 miliardi di fatturato) è risultata e sarà sempre più fondamentale anche in un’ottica di sharing economy. La collaborazione ha significato l’impiego di camion/autisti fermi di operatori di altre filiere per gestire le crescite elevate della domanda e soprattutto i picchi improvvisi, generati nei consumi a fronte dei timori della popolazione. Analogamente è stato possibile spostare personale di magazzino da siti le cui attività si erano fermate, supplendo alla riduzione di capacità operativa a fronte di una fisiologica crescita dell’assenteismo. Il rapporto stretto fra azienda e lavoratore, tipico del modello cooperativo, ha favorito la comunicazione all’interno dell’azienda e la risoluzione di potenziali aree di rischio, oltre che una maggiore flessibilità operativa, volta a compensare parzialmente l’inevitabile perdita di produttività. Soprattutto si è passati ad una pianificazione giornaliera delle attività, lavorando in stretto contatto con le aziende committenti per allineare il più possibile la capacità logistica alla domanda di mercato. Tale attività è fondamentale per garantire la sostenibilità economica in un contesto a margini contenuti come la logistica conto terzi.

Il contesto che stiamo vivendo ha portato ad un modello di coordinamento specifico per le emergenze: riunioni frequenti di allineamento, adozione di scelte che nel breve periodo non sempre ottimizzano i costi (si pensi alla maggiore difficoltà di trovare i viaggi di ritorno o le distanze da rispettare in magazzino, a discapito della produttività) ma garantiscono la continuità del servizio, relazione di collaborazione con le aziende committenti che va oltre al contratto di outsourcing, con un approccio open book, e condivisione dei segnali di mercato e delle scelte operative.

A livello di macro-scelte strategiche, accanto all’analisi critica del livello di servizio da fornire in futuro in base alle riflessioni contingenti (ad esempio alcune aziende hanno ridotto il numero di consegne per punto di destino per ridurre la frammentazione degli ordini), emerge la centralità della capacità di consegna in ambito urbano, non solo a livello di consegne a domicilio (l’e-commerce ha fatto il salto definitivo per il suo sviluppo in Italia con crescite superiori al 50%) ma anche a livello di singolo punto vendita con la riscoperta del valore dei negozi di prossimità (spesso utilizzati anche come punti di allestimento per le consegne in ambito urbano in una prospettiva di omnicanalità). La stessa logistica urbana, con origine e destinazione all’interno della città, sarà sempre più importante. Sempre in ambito trasporto, si osserva lo sviluppo dell’intermodalità strada-ferrovia, fondamentale per superare i blocchi nel trasporto fra paesi della Comunità Europea, oltre che per gestire in futuro l’attraversamento/l’approvvigionamento di nuove “zone rosse”. Da ultimo l’automazione di magazzino, ad oggi ancora poco sviluppata, sarà sempre più rilevante anche per favorire il lavoro in luoghi protetti e con minore concentrazione di persone.

Tempi di attraversamento alle “frontiere” fra gli Stati Europei (fonte: sixfold.com/covid-19)

In conclusione, anche per la logistica non si tratta semplicemente di tornare alla “normalità”, ma di trovare nuovi equilibri che ci permetteranno di affrontare non solo questa sfida ma quelle future, quali il rischio di una recessione economica e la necessità di una sempre maggiore attenzione al tema del cambiamento climatico.