Imprenditorialità in un mondo interconnesso: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #2 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

Il titolo di questo numero è “Being entrepreneurial in a high tech world”. Mettiamo sotto la lente d’ingrandimento il cambio di approccio all’imprenditorialità in un mondo sempre più connesso, sempre più interconnesso, ma anche alle prese con la più grave crisi sanitaria dell’ultimo secolo.

Ne parliamo in apertura con una intervista ad Andrea Sianesi, presidente esecutivo PoliHub, che ci racconta come sta evolvendo alla luce della pandemia e come cambia il ruolo degli incubatori. Ne trattiamo poi elementi specifici come la strategia, la leadership e i modelli di business, con editoriali di Federico Frattini, Antonio Ghezzi, Roberto Verganti.

E, infine, raccontiamo storie di Alumni che con le loro idee hanno realizzato iniziative imprenditoriali di successo.

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I numeri precedenti di SOMe:
• # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”
• Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses”

Intervista a Fulvio Catalano, founder MOKAPEN, dal MBA alle regole d’oro per lanciare una start-up

1. Raccontaci MOKAPEN: com’è nato, cos’è, a chi si rivolge.

Mokapen è una piattaforma CRM che nasce da una constatazione: le piattaforme di collaborazione esistenti nel mercato sono complesse, non modulari e non sempre in lingua italiana. Questo crea una barriera di accesso non permettendo alle piccole imprese italiane di avere un “fast CRM”. Ho deciso quindi di sviluppare un tool che potesse essere semplice, logico, ma che fosse anche pronto per essere scalabile. Mokapen può quindi essere utilizzata da piccole imprese per organizzare le attività, liberi professionisti per collaborare con i clienti nei vari progetti o studenti per coordinare attività di studio, ma anche da aziende più strutturate dove l’organizzazione per funzioni aziendali è indispensabile. Perché “Mokapen”? Perché credo fermamente che la vera digital transformation tenga un piede nel cloud e uno per terra. La caffettiera moka e la penna sono due oggetti tradizionali ai quali ancora non rinunciamo quando siamo digital.

2. “Gratuito. Semplice. Italiano.” Quali sono gli obiettivi di lungo termine dietro il claim di MOKAPEN?

Quando si parte è sempre importante sapere dove si vuole arrivare, pur non escludendo cambi di programma. Sicuramente tutti i CRM trattano più o meno gli stessi argomenti: task, progetti, collaborazione, contatti e altro. La competitività si sposta quindi sull’accessibilità economica, su come queste entità vengono organizzate e su quanto l’utente è in grado di capire in autonomia come funziona la piattaforma. Poiché Mokapen deve sempre permettere l’accessibilità, in futuro manterrà sempre una base gratuita senza limiti temporali pur offrendo funzionalità premium a pagamento oltre quelle attualmente disponibili. Pur crescendo il focus dietro ogni sviluppo o logica è sempre la semplicità, per questo spendo molto tempo nell’analizzare come un processo deve funzionare per non rendere Mokapen complessa come le altre piattaforme. Italiano, si perché ho deciso questa volta di partire dall’Italia, anche se Mokapen è già disponibile anche in lingua inglese. Ovviamente il piano è di introdurre altre lingue, ma il punto di forza della localizzazione credo sia soprattutto il far conoscere Mokapen come qualcosa di, appunto, “locale”.

3. Quanto bisogno di uno strumento come MOKAPEN c’è in questo momento di ricorso massiccio a Smartworking e Homeworking?

Ben detto. Smartworking e homeworking sono due concetti diversi. Strumenti come Mokapen sono proprio da smartworking, innanzitutto per far risparmiare tempo tenendo traccia delle cose da fare. Anni fa, ogni mattina ero solito scrivere la tipica lista dei task da fare, alcuni dei quali dovevo rimandare al giorno successivo. Perché quindi scrivere sempre lo stesso task ogni giorno quando sarebbe più smart scriverlo solo una volta in un tool online? Se poi pensiamo allo stato forzato di homeworking di questo periodo, è immediato vedere in strumenti digitali la risposta smart per imparare a lavorare in un modo migliore, abbattendo le barriere delle distanze, comprimendo il tempo di esecuzione e raggiungendo il 100% della condivisione delle attività di un team. Lavorare da Palermo, Milano o Mumbai è quindi indifferente.

4. Dopo il tuo primo successo con Wardroba, nata al MIP e incubata al Polihub, quanto dell’esperienza “politecnica” hai messo nella tua nuova iniziativa?

Sorrido. Wardroba è stata la prima fiamma, ma la scintilla è stato il MIP. In questa esperienza si è letteralmente aperta la mente e grazie al progetto Wardroba ho avuto con i miei compagni qualcosa dove letteralmente sporcarci le mani, tra idee a volte non chiare, piani strategici visti e rivisti, soddisfazioni e aspettative deluse. Poi è arrivata l’incubazione al Polihub dove ho capito che la realtà su come si lancia una startup è ben diversa da quello che raccontiamo negli elevator pitch. Dalle esperienze MIP/Polihub ho imparato tre regole per me d’oro che hanno determinato la nascita Mokapen:

– Per avere successo devi sapere “fare” in prima persona. A differenza di Wardroba, ho imparato la programmazione web e ho creato Mokapen.

Parti dal basso, rendi solido e poi cresci. Il mio socio di Wardroba Federico Della Bella mi ha fatto capire che è meglio far poche cose bene che molte male (grazie Fede).

Devi realmente risolvere un problema, altrimenti lascia perdere. Spesso qualcosa che per me è una soluzione per gli altri non è niente di utile.

Essere imprenditori in un mondo interconnesso

Ne parliamo con Andrea Sianesi, Professore di gestione dei sistemi logistici e produttivi della School of Management
Presidente Esecutivo PoliHub, Innovation District e Startup Accelerator del Politecnico di Milano

 

Andrea, sei a capo di un incubatore, e quindi abbracci nuove idee imprenditoriali quando sono ancora nella culla. Che caratteristiche ha un buon imprenditore in questo momento storico?

Prima di tutto coraggio. E questa è la stessa risposta che avrei dato anche prima della crisi provocata da Covid-19. L’iniziativa imprenditoriale è un salto nel vuoto, e impegnare risorse e tempo per sviluppare idee richiede sangue freddo.
Oltre al coraggio, credo sia fondamentale la capacità di correggere i propri errori e far tesoro degli “inciampi” che capitano durante il percorso.

Do per scontato ovviamente la necessità di possedere conoscenze tecniche e tecnologiche che riguardano la propria impresa. L’imprenditore che passa per PoliHub, in genere, ha una solida competenza tecnologica, mentre si trova ad essere un po’ più debole sulle conoscenze legate al mondo del business. Per questo, l’imprenditore deve essere aperto a fare partnership con altre persone che possano portare all’impresa competenze complementari, come ad esempio la capacità di sviluppo del mercato, o la conoscenza del framework normativo di riferimento.
Bisogna sempre essere disponibili a farsi aiutare.

PoliHub è un incubatore universitario: perché serve l’università, e a cosa esattamente?

L’ecosistema universitario è un asset fondamentale per chi vuol fare impresa. In particolare, al Politecnico di Milano, garantiamo contemporaneamente accesso alla business school, agli hub di innovazione POLI.design e Cefriel, a migliaia di docenti e ricercatori, a laboratori che coprono tutte le discipline ingegneristiche e che sono fondamentali, ad esempio, nel processo di trasformazione di un’idea a prodotto.

E noi per questo motivo non siamo soltanto un luogo che ospita le start up: offriamo un contesto unico rispetto ad altri incubatori. Spesso, nelle start up deep tech, è necessario svolgere attività sperimentale in laboratori che di fatto si trovano solo in università, e ci sono imprese che, seguendo sviluppi tecnologici in diversi settori, hanno distaccato alcuni loro dipartimenti per venire a localizzarsi da noi. Questo consente loro di collaborare e interagire con le start up e allo stesso modo avere la stessa facilità di accesso all’hub nella sua interezza.

Questo fa la differenza e i numeri ce lo confermano. Faccio un esempio: PoliHub, assieme al TTO (Techology transfer office) del Politecnico di Milano, gestisce ogni anno Switch To Product, il programma che valorizza sul mercato soluzioni innovative, nuove tecnologie e idee di impresa proposte da studenti e laureati da un massimo di tre anni, ricercatori, alumni e docenti del Politecnico di Milano, offrendo risorse economiche e servizi consulenziali per supportare lo sviluppo dei progetti d’innovazione attraverso percorsi di validazione tecnologica e accelerazione imprenditoriale. Quest’anno la call ha avuto un incremento delle domande del 20%. Si tratta di una crescita molto significativa, che ci fa anche ben sperare nell’aumento di nuove imprese di successo.

Covid-19 ha ribaltato il tavolo, modificando i confini e gli ecosistemi di business; gli effetti potrebbero essere di breve o di lungo periodo, che cosa hai osservato in particolare a riguardo?

Negli ultimi mesi si è temuto che la pandemia potesse spazzare via il mondo delle start up, che sono impossibilitate ad accedere a forme di sussidio messe in campo per altre categorie imprenditoriali e professionali. Il problema è reale e contingente: le start up oggi si trovano in maggiore difficoltà rispetto a imprese già navigate, ma per il momento il sistema sta reggendo e sta dando anche segnali incoraggianti.

L’effetto inatteso è stato infatti un aumento della domanda di accesso ai servizi di incubazione. C’è una forte richiesta di entrare nel mondo imprenditoriale, forse dovuto anche alla presa di coscienza che ora più che mai è necessario sapersi rimettere in gioco, anche per coloro che hanno una carriera consolidata, creando nuove opportunità di reddito laddove venisse meno una stabilità lavorativa.

E l’incremento della domanda di servizi avviene non solo da parte di potenziali start up, ma anche di aziende già formate, che decidono di delocalizzarsi in uffici più piccoli e snelli situati accanto a centri di eccellenza. Una nuova tendenza forse facilitata anche dal diffondersi dello smart working, che rende di più facile gestione uffici piccoli rispetto a sedi più grandi.

Dipingi un quadro con diverse opportunità all’orizzonte. Quali sono quindi i programmi futuri di Polihub?

La sfida per noi rimane quella di trovare le risorse che possano accompagnare le start up dall’idea, e quindi dall’università, con il suo fermento e la disponibilità di risorse legate a progetti europei e grant, a fondi e investitori disponibili a sostenerle in tutta la fase della loro crescita.

Mi piace visualizzare il processo come l’attraversamento di una valle: le start up hanno bisogno di un “ponte” tra le due fasi, di un accompagnamento che permetta loro di avere le risorse necessarie per rendere la loro idea interessante per gli investitori.
E affinchè l’idea sia interessante necessita di due elementi: dimostrarsi solida e verificata dal punto di vista tecnico, e avere un mercato target a cui rivolgersi.

Spesso le prove tecniche richiedono già investimenti considerevoli e tempi lunghi: noi ci impegniamo per far sì che questo “ponte” sia efficace, e possibilmente breve, rispetto agli obiettivi.

Il nostro progetto per il futuro è quindi quello di lavorare certamente per reperire investitori istituzionali e venture capital, ma con un approccio di ampio respiro che contempli il contesto internazionale e non solo una esposizione domestica delle nostre start up.

Abbiamo intenzione di pensare in logica internazionale, non solo per quanto concerne la parte finanziaria, ma anche per quanto riguarda l’uso di tutti i possibili asset messi a disposizione dal network degli incubatori di eccellenza su scala mondiale.

Siamo certi che mettere a fattor comune queste capacità ci permetterà di fare davvero la differenza.

Il futuro delle Business School tra innovazione e imprenditorialità

Il contesto in cui competono le business school di tutto il mondo è oggetto di una profonda e rapida trasformazione. La necessità di formazione manageriale sempre più specialistica, la competizione da parte di nuovi attori e, non ultima, la necessità di ridefinire il proprio contributo per la costruzione di un futuro più inclusivo e sostenibile, obbligano un ripensamento dei propri modelli operativi e di business.
Quali sono le trasformazioni da mettere in atto nell’ottica di una maggiore imprenditorialità e capacità innovativa delle business school?

 

Federico Frattini, Dean MIP-Graduate School of Business, Politecnico di Milano

Il contesto in cui competono le business school di tutto il mondo è oggetto di una profonda e rapida trasformazione, che determina la necessità di ripensare profondamente la sostenibilità del modello di business e del modello operativo “classici” delle business school.

Alcuni dei trend che si sono manifestati con più forza nel corso degli ultimi anni sono lo spostamento della domanda di formazione manageriale da programmi di “general management” a programmi “specialistici”, e una competizione sul mercato della formazione manageriale che si sta enormemente accentuando come conseguenza dell’ingresso di nuovi player. Da un lato infatti, le società di consulenza e di executive search stanno espandendo la loro offerta includendo servizi di formazione a sviluppo del capitale umano. Dall’altro, nuovi player “edtech” si stanno prepotentemente affacciando sul mercato della formazione, e i colossi globali della tecnologia (si pensi ad esempio a Microsoft, Google, Amazon) stanno sempre più seriamente considerando il mondo della formazione come una possibile nuova frontiera per sostenere i loro tassi di crescita.
La domanda di servizi di life-long learning sta crescendo rapidamente, anche per effetto della sempre più rapida obsolescenza delle competenze che vengono apprese nei percorsi di formazione manageriale “classici”; le attività extra-curriculari e quella che possiamo chiamare “campus life” stanno assumendo una crescente rilevanza nelle scelte degli studenti; infine, si rileva una “crisi” del valore sociale attribuito alle istituzioni accademiche, che stanno rapidamente perdendo reputazione, specialmente agli occhi delle generazioni più giovani.

Oltre a queste trasformazioni, ve ne sono altre che sono state profondamente accelerate dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus. Da un lato, le business school dovranno ridefinire il loro “purpose” e chiarire il contributo che intendono e sono in grado di dare nella costruzione di un futuro più inclusivo e sostenibile. Dall’altro, non potranno più ritardare l’avvio di un profondo processo di digitalizzazione dei loro processi e delle loro modalità ed approcci didattici.

Rispondere a queste sfide richiede un profondo ripensamento del modello di business delle business school. Alcuni dei cambiamenti più rilevanti che dovrebbero essere attentamente considerati dalla leadership delle business school in tutto il mondo sono i seguenti: da un focus sul trasferimento di competenze “disciplinari” a competenze “trasversali”, tra cui l’imprenditorialità, le digital skills, la sostenibilità, il critical thinking; da modelli di formazione “separata dalla pratica” a formazione “hands-on” e basata su una crescente contaminazione con la pratica manageriale ed imprenditoriale; da approcci alla formazione “uniformi per popolazioni omogenee di studenti”, a formazione “personalizzata”, in ottica “one-to-one”; da formazione “intermittente” e concentrata nel tempo, a formazione “on demand”, e continuamente mescolata all’attività professionale ed alla vita privata degli studenti; da formazione face-to-face vs. digitale, a modelli di formazione “omnicanale”; dal focus sulla produzione di conoscenza attraverso la ricerca ed il suo trasferimento attraverso il proprio portafoglio di prodotti formativi, alla ricerca ed integrazione della conoscenza disponibile al di fuori dei confini della business school (si pensi ad esempio alla disponibilità di contenuti di formazione di alta qualità sulle piattaforme MOOCs – Massive Online Open Courses).

Queste trasformazioni hanno una portata ed un potenziale impatto che spesso si scontrano con la cultura “burocratica” delle business school, con i processi di creazione di consenso che le contraddistinguono, e con i meccanismi di governance che spesso richiedono tempi di approvazione delle decisioni che male si sposano con le condizioni di contesto identificate in precedenza. Diventa quindi fondamentale per la leadership delle business school di tutto il mondo promuovere una trasformazione della cultura organizzativa, dei processi, delle competenze dello staff, e delle strutture organizzative nell’ottica di una maggiore imprenditorialità e capacità innovativa. Questo significa mutuare le soluzioni e gli approcci manageriali che le business school insegnano ai propri allievi ed applicarli nei propri modelli di gestione. Ad esempio, per gestire progetti di innovazione “radicali”, che richiedono profondi cambiamenti alle routine ed ai modelli operativi consolidati (si pensi, ad esempio, al lancio di piattaforme per la formazione a distanza, oppure di servizi di life-long learning abilitati dalle tecnologie digitali), molte business school stanno dando vita a degli spin-off per collocare questi progetti in un contesto organizzativo più agile e imprenditoriale. Molte business school stanno creando delle posizioni all’interno del loro staff di Chief Innovation Officer (CIO), che ha il compito di promuovere un processo di innovazione e trasformazione digitale continuo delle operations e dell’offerta. Si stanno sempre più diffondendo modelli di coopetition tra business school, con l’obiettivo di raggiungere una superiore massa critica e condividere i rischi ed i costi che progetti di innovazione radicale comportano (come ad esempio la messa a punto di innovativi Learning Management Systems).

Molte di queste trasformazioni richiederanno tempo per manifestarsi nel mondo delle business school, ma saranno fondamentali per sostenere la loro competitività nel tempo e garantirne la sopravvivenza.

«Con l’MBA la crescita è personale, non solo professionale»

Achille Balestrini, nuovo Ceo e Global brand manager di Nava Design Milano e MH Way, racconta il suo percorso professionale e formativo, segnato dal Politecnico. E spiega quanto è importante, anche per chi ha già un’esperienza sul campo, strutturare maggiormente con un master le nozioni apprese.

Dall’architettura al management, passando attraverso l’iniziativa imprenditoriale. È la traiettoria professionale di Achille Balestrini, alumnus MBA Pt It 6 presso il MIP Politecnico di Milano e recentemente nominato nuovo Ceo di Nava Design Milano e MH Way, due realtà parte di Smemoranda Group. Un cammino, il suo, segnato da tre elementi importantissimi per chi ha deciso di farsi strada nel mondo del business: passione, competenza e intraprendenza. Ma anche dalle esperienze vissute nell’ateneo milanese: «Se ho scelto l’MBA del MIP, è anche perché proprio al Politecnico avevo conseguito la laurea in architettura», racconta Balestrini. Ma tra la laurea e il master c’è stato un percorso fatto di intuizioni e scommesse personali.

Architetto, imprenditore, manager

Dopo la laurea e l’inizio della propria carriera nel mondo dell’architettura, Balestrini decide infatti di assecondare la propria passione per l’abbigliamento sportivo casual. «Non riuscivo a smettere di pensare a un’idea che all’epoca sembrava decisamente innovativa, quella di un brand che fosse personalizzabile». È un’intuizione vincente, perché a quel progetto Balestrini dedica le sue energie per sette anni circa. «Un periodo di tempo durante il quale aprimmo un negozio monomarca a Milano, diversi temporary store e uno shop online. Tutto grazie all’entusiasmo e allo spirito di sacrificio». Eppure, questi traguardi non sono quelli a cui Balestrini aspira, non sono abbastanza. «Decisi di interrompere quell’esperienza da imprenditore. Nel frattempo, ricevetti un’offerta da Marco Boglione, fondatore e presidente di BasicNet, gruppo proprietario di diversi marchi come Kappa, Superga, K-Way». È quello il momento in cui Balestrini abbandona la strada imprenditoriale per trasformarsi in un vero e proprio manager. «Mi innamorai profondamente del progetto che dovevo seguire. Questa fase è durata dal 2011 al 2019. Poi, nel 2020, sono stato nominato Ceo e Global brand manager di Nava Design Milano e MH Way».

Un MBA per rafforzare le competenze

Nel mezzo, però, c’è un altro passaggio importante, quella dell’MBA. «A iscrivermi mi spinse il bisogno, personale prima ancora che professionale, di imparare. Dalla mia avevo un bagaglio di conoscenze empiriche, sperimentate e apprese sul campo, ma nessuno studio alle spalle», spiega Balestrini. «Il master mi ha aiutato, innanzitutto, a mettere ordine tra le mie competenze, strutturandole in maniera più coerente, organica e strategica. Da un certo punto di vista, era rincuorante e motivante vedere che molte idee nate durante la mia esperienza venivano confermate a lezione». A proposito di lezioni, l’MBA ha permesso a Balestrini di mettere alla prova le nozioni apprese sui banchi tramite project work e lavori di gruppo. «Si tratta di una modalità che ho trovato molto efficace. Sotto un certo aspetto, è perfetta per chi già si trova a suo agio a lavorare in gruppo, come nel mio caso. D’altro canto, spinge alla discussione anche chi ha un’attitudine meno spiccata a confrontarsi con gli altri. Sono momenti davvero formativi e stimolanti».

Nava Design e MH Way: obiettivo rilancio

Forte di questa esperienza, e con delle competenze rafforzate e strutturate dal master, Balestrini è ora alle prese con il rilancio di Nava Design Milano e MH Way, in veste di Ceo e Global brand manager. «La cosa curiosa è che sono entrambi due brand legati al mondo del design e dell’architettura, da cui tutto per me è cominciato. Per Nava hanno lavorato dei designer importanti come Max Huber e Bob Noorda, mentre MH Way è nato dal designer giapponese Makio Hasuike. Entrambe queste realtà, acquisite dal gruppo Smemoranda, sono ora in cerca di rilancio e di riposizionamento», spiega Balestrini. «Per dare nuova linfa a entrambi i brand, dovrò mettere in pratica quanto ho imparato finora. Le sfide più importanti e stimolanti riguarderanno la gestione aziendale e l’espansione commerciale dei marchi sul territorio nazionale e, soprattutto, sui mercati internazionali».

«Le buone idee non bastano: al MIP ho imparato a svilupparle»

Il confronto con i colleghi di master, i due anni di esperimenti e miglioramenti e, soprattutto, una mentalità votata al miglioramento continuo. Martin Leban, alumnus AMIE (ora IMIE), racconta come è nata l’idea di uno shampoo contenuto in biglie biodegradabili.

La formazione nell’azienda di famiglia, il confronto con i colleghi di master provenienti da tutto il mondo e, infine, la nascita di una startup che, ispirandosi a principi di sostenibilità sociale e ambientale, dà vita a un prodotto piccolo, ma dal grande potenziale. È la storia di Martin Leban, giovane imprenditore sloveno e co-fondatore della startup OneTwoThreeZero, nonché alumnus AMIE (ora evolutosi in IMIE, International Master in Innovation and Entrepreneurship) presso il MIP Politecnico di Milano: «Il master mi ha insegnato che di idee, buone e meno buone, ce ne sono tante. A fare la differenza è l’impegno che ci si mette per svilupparle. Ed è proprio così che io e i miei colleghi abbiamo concepito lo shampoo in biglie biodegradabili».

Dall’idea alla sua realizzazione

Leban proviene da una famiglia che possiede una piccola azienda di prodotti per la cura dei capelli. «Un ambiente in cui ho imparato molto, osservando di giorno in giorno», racconta Leban. «Creare cosmetici senza produrre rifiuti è stato uno dei miei obiettivi fin da quando lavoravo nell’azienda di famiglia e vedevo quanta plastica utilizzavamo. Quando ho visto il progetto di shampoo biodegradabili che Renata Alessio, Indira Pambudy e Sarra Elamin avevano iniziato nell’ambito del master AMIE, mi è subito piaciuto e ho chiesto loro di entrare a far parte del team».
Il potenziale ecologico di questa idea è evidente: «L’industria cosmetica utilizza molta plastica per i propri packaging, anche per piccole quantità di prodotto, come capita, ad esempio, con i flaconcini distribuiti negli hotel. Noi siamo partiti da un prodotto concettualmente simile alle capsule di detersivo utilizzate nelle lavastoviglie. In quel caso, però, l’involucro è un materiale plastico. La sfida, per noi, consisteva nel trovare un materiale biodegradabile che al contempo fosse abbastanza resistente da contenere lo shampoo al suo interno». Una sfida raccolta dai suoi due partner e chimici, Anja Pajntar e Uros Novak. «È un processo di ricerca che dura ormai da due anni. La difficoltà è data dalla piccola percentuale di acqua che compone lo shampoo, il 10%, di per sé un grande risparmio rispetto all’80% degli shampoo medi. Potevamo ripiegare su un prodotto senz’acqua, ma l’effetto sui capelli non sarebbe stato lo stesso». La tabella di marcia di OneTwoThreeZero prevedeva una serie di importanti test ad aprile 2020, ma l’attuale situazione sanitaria ha costretto Leban e il suo team a rimandare. «Ormai ci siamo, però. Tant’è che il laboratorio che ci ha ospitati finora non basta più; a breve cominceremo a produrre maggiori quantità del nostro prodotto».

L’importanza di non accontentarsi

Leban non nasconde che l’esperienza al MIP è stata cruciale, per la vita di questa startup. «A cominciare dai miei compagni di corso, di 17 nazionalità differenti. Questa diversità si è rivelata un autentico valore aggiunto, perché mi ha permesso di confrontarmi con punti di vista e culture differenti, che hanno generato un vero flusso creativo. Oggi sfrutto i principi del design thinking appresi grazie al master, che mi ha insegnato anche come dare vita a un team equilibrato, valutando quali possono essere le individualità più strategiche per l’azienda».
Importante anche l’esperienza del project work: «È uno dei motivi per cui ho scelto proprio il MIP. Ho imparato in che cosa consiste il processo di sviluppo, che non è solo una questione di nozioni, ma anche di mentalità. Concentrarsi a fondo su un’idea, per trovarne il vero potenziale e dare vita a una serie di possibilità virtualmente infinite».
Infine, un consiglio a chi sta per iscriversi a un master: «Il modo migliore per viverlo è cercare di arrivare lì con le idee chiare su che cosa si vuole ottenere. E non accontentarsi mai, ma lavorare su sé stessi. Il livello delle lezioni è altissimo, e spinge a puntare ancora più in alto, ad approfondire sempre di più. È questa mentalità che permette di avvicinarsi ai propri obiettivi, sia che si voglia lavorare come imprenditori, sia come consulenti. Le prospettive lavorative legate a questo master sono molteplici».