Design e tecnologie innovative per una società inclusiva: nuovo Joint Research Center


Creare un mondo più inclusivo e più smart: questo lo scopo del nuovo Joint Research Center “Design e tecnologie innovative per una società inclusiva” creato con un accordo quinquennale tra Politecnico di Milano, NTT DATA e POLI. Design, a cui partecipa come partner anche il Dipartimento di Ingegneria Gestionale della School of Management.

Nel nuovo Research Center lavoreranno NTT DATA, multinazionale giapponese leader nella consulenza e nel settore IT, POLI.Design, realtà di riferimento per la formazione post laurea e che svolge un ruolo di cerniera tra università, istituzioni, imprese e lavoro, e per il Politecnico il Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, il Dipartimento di Design e il Dipartimento di Ingegneria Gestionale.

La volontà di lavorare insieme nasce non solo dal desiderio di compiere studi congiunti su tematiche tecnologiche innovative, ma anche e soprattutto dalla condivisione di valori importanti da promuovere insieme, quali il supporto all’uguaglianza, alla diversità e all’inclusione.

Obiettivo primario della collaborazione è avviare una trasformazione culturale, abilitata da un uso sinergico degli strumenti tecnologici e di design più avanzati, per “mettere l’uomo al centro”, supportando uno sviluppo inclusivo della società portando la tecnologia al servizio dell’individuo.

La collaborazione prevede il finanziamento di attività e progetti di ricerca che interesseranno diversi ambiti e tematiche di primaria rilevanza per ideare e realizzare soluzioni tecnologiche “trasparenti” che impattino sulla vita quotidiana individuale: Smart Mobility, Cybersecurity, Blockchain, Internet of Humans, Diversity Management, Universal Design, Design for Social Benefit, Product and Service Design.

In particolare, il contributo del Dipartimento di Ingegneria Gestionale si focalizzerà sui temi Data Analytics e Technology Tools for Diversity and Inclusion, in stretta collaborazione con il Dipartimento di Elettronica, Informatica e Bioingegneria del Politecnico di Milano.

Per saperne di più, leggi il comunicato stampa.

Expo Dubai 2020: un World Expo per ripartire

Lucia Tajoli
Professoressa Ordinaria di International Economics, School of Management, Politecnico di Milano

Lucio Lamberti
Professore ordinario di Multichannel Customer Strategy, School of Management, Politecnico di Milano
Coordinatore del Laboratorio PHEEL – Physiology, Emotion and Experience Lab

 

Expo Dubai 2020, che si terrà tra l’ottobre 2021 e marzo 2022 dopo il posticipo di un anno a causa della pandemia, sarà – presumibilmente e auspicabilmente – uno snodo fondamentale del post-Covid. I World Expo sono considerati dei mega eventi, paragonabili per impatto solo ai campionati del mondo di calcio e alle Olimpiadi per esposizione mediatica, numero di partecipanti e impatti sull’economia ospitante, ma, a differenza dei mega-eventi sportivi, hanno una durata maggiore (6 mesi) e, potenzialmente, hanno una maggiore influenza sull’economia anche dei paesi partecipanti.

Le ultime due edizioni del World Expo hanno avuto delle connotazioni particolari. Quella del 2010 a Shanghai è stata la più grande della storia per partecipanti, con circa 84 milioni di visitatori. Il tema trattato era la qualità della vita nelle città (“Better City, Better Life”), ma, non casualmente insieme alle Olimpiadi di Pechino del 2008, rappresentava anche la dimostrazione della Cina al Mondo della sua raggiunta prominenza socio-economica. L’Expo del 2015, tenutosi a Milano e incentrato sul tema della capacità di fornire cibo di qualità all’umanità (“Feeding the planet, Energy for life”), ha attirato circa 20 milioni di visitatori e ha rappresentato, in un contesto economico nazionale stagnante e pur in mezzo a notevoli complessità organizzative, un motore per quello che molti analisti internazionali hanno considerato il “Rinascimento” milanese dell’ultimo lustro.
Il tema di Expo Dubai 2020 è “Connecting Minds, Creating the future”; si tratta di un evento che si focalizza sul ruolo dell’interconnessione come chiave per lo sviluppo sostenibile.

192 Paesi hanno aderito, e tra questi l’Italia, che parteciperà con un padiglione dal tema “La Bellezza Unisce le Persone”.
Il Politecnico di Milano e la sua School of Management sono partner del commissariato del Ministero degli Esteri nazionale che sta organizzando la partecipazione italiana ai Expo Dubai 2020, e ha sviluppato, a partire dal 2018, diversi studi volti a quali-quantificare i potenziali impatti di tale presenza. Infatti, al di là dell’ovvio bisogno di giustificare l’investimento di risorse pubbliche nella realizzazione del Padiglione, la misurazione dei ritorni (economici e non economici) è resa particolarmente rilevante dalle specificità geopolitiche di questo evento: la posizione geografica di Dubai, fulcro dell’area ME.Na.Sa. (Middle East, North Africa e South Asia) e snodo logistico e dei corridoi della Nuova Via della Seta rende questo Expo un punto di contatto fondamentale tra l’Europa e quelle che sono le aree del mondo con i maggiori tassi di crescita economica e di crescita della classe media.

Non a caso, l’evento, nelle previsioni iniziali avrebbe dovuto attrarre una vastissima maggioranza di visitatori non locali, e prevede una partecipazione convinta e rilevante in termini di progettualità tanto di Paesi del Medio Oriente quanto di economie emergenti come quelle dell’India e dell’asia centro-meridionale. Si tratta di un’occasione di grande rilevanza per affrontare il tema dello sviluppo sostenibile in queste aree del mondo, ad esempio con riferimento alle Infrastrutture e ai trasporti, alla valorizzazione dei beni culturali, alle scienze della vita e all’aerospazio.

Tre principali ordini di considerazioni giustificano la grande attenzione che nel mondo gli operatori economici stanno rivolgendo all’evento.
In primo luogo, essendo il primo World Expo tenuto in Medio Oriente, Expo Dubai 2020 rappresenta un’occasione di consolidamento di rapporti commerciali e di rappresentanza a vari livelli tra quest’area del mondo, il mondo arabo, il Nord Africa e l’Europa.
In secondo luogo, si tratta di un Expo a forte connotazione di ricerca (ancor di più considerando che la pandemia potrebbe ridurre il numero di visitatori “reali” e accrescere il connotato di interconnessione virtuale): archiviata ormai da un paio di edizioni la stagione degli Expo interpretati come mera “vetrina” degli Stati partecipanti, la logica di partecipazione di molti dei Paesi coinvolti, tra cui l’Italia, è quella di creare in seno a Expo 2020 un vero e proprio hub di competenze per sviluppare piattaforme di collaborazione stabili, da perpetuare anche dopo l’evento.
In terzo luogo questo Expo rappresenta uno dei primi mega eventi, insieme alle Olimpiadi di Tokio, del post-pandemia, e quindi avrà il duplice ruolo di mostrare il possibile profilo della nuova normalità in termini di eventi, flussi di persone e interconnessioni, e dall’altro di contribuire alla ripresa economica dopo le interruzioni legate alla pandemia.

La misurazione delle ricadute della partecipazione a un mega evento con World Expo sull’Organizzatore, e ancora di più sui Paesi che partecipano senza ospitarlo, è un tema su cui la letteratura scientifica non ha ancora dato risposte definitive: con riferimento ai giochi olimpici, mentre ci sono indicazioni qualitative circa il risultato espansivo sul paese ospitante, ci sono anche molte voci critiche che evidenziano come queste iniziative tendono, a livello finanziario diretto (differenza tra investimenti e biglietti, diritti televisivi, sponsor, ecc.), a non ripagarsi.
E’ però evidente, da un lato, che gli effetti finanziari diretti sono solo un aspetto delle ricadute indotte (vi sono impatti turistici, di advertising equivalente del territorio, ecc.) e, dall’altro, che i World Expo hanno un profilo di indotto differente dai Giochi Olimpici, in ragione del fatto che dura 6 mesi e quindi movimenta un flusso di visitatori molto più elevato, e poiché la partecipazione dei Paesi ospitanti e organizzatori è orientata a obiettivi precipuamente di sviluppo economico e diplomatico.

Con riferimento ai Paesi partecipanti, in particolare, è possibile ricondurre gli ambiti di ricaduta a un impatto potenziale sull’export, in quanto la partecipazione è un momento di promozione delle proprie eccellenze e di organizzazione di missioni diplomatiche e commerciali. Vi è poi, e nella visione ad hub di Expo Dubai 2020 gioca un ruolo rilevante, la possibilità di favorire l’incontro tra domanda e offerta di capitali, ovvero tra iniziative imprenditoriali innovative e finanziatori, generando flussi in entrata e in uscita di investimenti diretti esteri. In terzo luogo, la partecipazione con un padiglione a un Expo è connessa anche alla promozione delle specificità culturali di un territorio (e la connotazione incentrata sulla bellezza e sulle tecnologie per i beni culturali della partecipazione italiana rende questo tema particolarmente centrale) e quindi tende a essere un momento di promozione turistica, con i potenziali effetti economici espansivi che ciò comporta. Infine, meno facilmente qualificabile ma certamente non per questo meno importante, la vicinanza diplomatica e l’esposizione a piattaforme di collaborazione scientifica rappresentano sempre più un fondamentale obiettivo della partecipazione a un Expo. L’analisi svolta nel 2018 aveva evidenziato come una stima cautelativa delle ricadute espansive legate a questi fenomeni per l’Italia potesse raggiungere il valore di 1,7 miliardi di Euro all’anno almeno per i 3-4 anni successivi all’evento.

E’ evidente che queste stime devono essere, se non riviste, riconsiderate alla luce della pandemia. Però, paradossalmente, al netto degli eventuali ulteriori freni all’evento legati a fenomeni in questo momento imprevedibili di continuazione dello stato di emergenza, il bisogno delle economie mondiali di recuperare le posizioni perdute negli ultimi mesi, e la possibilità di sperimentare nuove forme – più digitali e meno fisiche – di presidio di iniziative di promozione internazionale, potrebbero avere addirittura un effetto ancora più espansivo. Quello che è certo, è che Expo Dubai 2020 può avere un valore simbolico di desiderio di riscatto, e, al contempo, di tappa di ulteriore consolidamento del rapporto tra Europa e Asia. Analizzarne gli impatti nel breve, nel medio e nel lungo periodo è una sfida affascinante e che va raccolta per rendere queste occasioni sempre più centrali nel processo di sviluppo delle relazioni economiche (e non solo) internazionali.

Costruire una roadmap per il futuro del manifatturiero

Intervista a Marco Taisch
Professore di Advanced and Sustainable Manufacturing Systems, and Operations Management, School of Management, Politecnico di Milano
Presidente scientifico del World Manufacturing Foundation
Presidente del MADE Competence Center per l’Industria 4.0

 

Ci racconti il percorso del World Manufacturing Forum: perché è nato e quali sono i suoi obiettivi?

A partire dal 2011, quando si tenne la prima edizione, il World Manufacturing Forum viene ogni anno organizzato dal Politecnico di Milano con il supporto economico della Commissione Europea. Nel 2018, grazie a Confindustria Lombardia e Regione Lombardia, al fine di dare maggiore stabilità e garantire un ampliamento delle attività abbiamo creato la World Manufacturing Foundation, che oltre a organizzare annualmente l’evento annuale, ospita una serie di altre iniziative.
La World Manufacturing Foundation, creata come organizzazione internazionale aperta a cui partecipano governi regionali, aziende, associazioni di categoria, industriali e non, ha quindi come obiettivo strategico quello di riportare la centralità del settore manifatturiero nelle agende politiche dei vari paesi.
Gli strumenti principali messi in campo sono il World Manufacturing Forum, evento che lo scorso anno ha attirato circa 1500 persone in tre giorni, e il World Manufacturing Report, un white paper annuale che, attraverso un processo di consultazione con esperti del mondo delle imprese, dell’accademia e policy makers, raccoglie pareri e restituisce visioni per il futuro su un tema specifico, rilevante per il manifatturiero, suggerendo delle key reccomendations. Nella prima edizione, nel 2018, abbiamo affrontato il tema del futuro del manifatturiero come leva di creazione del benessere economico e sociale; nel secondo, l’anno scorso, ci siamo focalizzati sulle skills fondamentali necessarie al settore. E quest’anno, nell’evento che si svolgerà l’11 e il 12 novembre, parleremo di intelligenza artificiale.

 

L’edizione 2020 del Forum ha un sapore particolare, sapore di distanza, ma anche di ripresa post Covid. Che edizione sarà?

Per la necessità di distanziamento cambierà il formato dell’evento: si svolgerà presso la sede tradizionale di Villa Erba di Cernobbio, con trasmissione in streaming worldwide.
Ci siamo chiesti, come tutti, quale sarà l’impatto del Covid sul settore manifatturiero a livello regionale e mondiale, e per darci una risposta abbiamo creato il progetto “Back to the Future” (la citazione è voluta), novità di quest’anno.
Abbiamo “scomposto” la complessità della questione in 14 sottotemi e creato altrettanti gruppi di lavoro, ciascuno coordinato da un esperto (i.e. manager, rappresentanti del mondo associativo, policy makers, accademici), a cui abbiamo chiesto di discutere e analizzare l’impatto del Covid sul proprio tema di competenza e dare delle raccomandazioni.
Abbiamo già condiviso online, con il pubblico, diversi draft di documenti e video, prodotti da questi workshop, i cui risultati saranno presentati il primo giorno del Forum, l’11 novembre, mentre il 12 novembre presenteremo il World Manufacturing Report.
Se posso poi dare un’anticipazione, l’anno prossimo parleremo di digital transformation come abilitatore della sostenibilità del manifatturiero, mettendo insieme quindi i due trend più importanti del settore.

 

Veniamo dall’epopea di Industria 4.0. In che modo la digitalizzazione nel mondo delle fabbriche può essere un vantaggio competitivo per rilanciare la produzione e ripartire più velocemente?

Prima della pandemia era “normale” affermare che la digitalizzazione fosse un vantaggio competitivo, ed è il modo in cui abbiamo connotato l’Industria 4.0. Ora abbiamo cambiato statement: non è più un vantaggio, bensì un prerequisito di business.
Durante il lockdown abbiamo visto come la digitalizzazione abbia garantito la business continuity per molte imprese che avevano già investito in questa direzione. Per le altre, purtroppo, non c’è stato nulla da fare.
E’ stato un modo tragico di rendersene conto, questo è certo, che ha colpito quelle imprese che, per ignoranza o per inerzia, non avevano prestato attenzione a questo trend tecnologico.
Nel nostro paese in particolare, che era più lento nell’adozione di nuove tecnologie, la pandemia ha accelerato la presa di coscienza sull’importanza della digitalizzazione.

 

Imprese grandi e imprese piccole: chi è favorito in questa quarta rivoluzione industriale?

Le grandi imprese hanno cominciato a digitalizzarsi già da tempo, anche prima del “Piano nazionale Industria 4.0” del 2017. Le piccole e medie imprese erano invece in ritardo. E’ stato grazie al piano, e agli incentivi fiscali previsti che sono venute a conoscenza di questa opportunità di modernizzazione. Paradossalmente, è stato parlando di incentivi fiscali che si è potuto fare formazione anche tecnologica, e questo ha avuto un grande impatto nell’accrescimento culturale del nostro paese su questi temi.
E’ molto importante che il piano nazionale abbia una continuità temporale per permettere alle imprese, specie alle piccole, una programmazione e la costruzione di un percorso di formazione e di accrescimento di know-how. E oggi, per farlo, hanno diversi strumenti a loro disposizione, come i Digital Innovation Hub, e come soprattutto i Competence Center. Su quest’ultimo strumento il Politecnico di Milano si è messo in prima fila creando MADE, un centro di competenza che raccogliendo le competenze di più dipartimenti coordina i lavori insieme a 44 altri partner provenienti dal mondo accademico e industriale.

 

Quali sono, a suo avviso, le 3 parole chiave sull’evoluzione della trasformazione digitale nelle fabbriche nei prossimi 6 mesi?

Prima di tutto “servitizzazione”, ossia lo sviluppo di nuovi modelli di business che si stanno creando grazie alle nuove attività digitali svolte nelle industrie da remoto.
E quindi la seconda, “remoto” o, se vogliamo “industrial smart working”.
Infine “resilienza”, intesa come capacità di adattamento, riconfigurabilità e flessibilità della fabbrica e della supply chain.

Progettare l’innovazione: l’esperienza di IDeaLs – Innovation and Design as Leadership

Il mondo della gestione dell’innovazione è in continuo cambiamento, e molteplici imprese in tutto il mondo sono alla ricerca di nuovi modelli e metodologie a supporto dello sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Con l’avvento di tecnologie digitali quali anche l’Intelligenza Artificiale, il ruolo delle persone nei processi di innovazione è sempre più in discussione.

IDeaLs nasce per esplorare come le aziende possano realizzare prodotti e servizi innovativi attraverso attività di co-Design e forme di Leadership diffusa.

Fondata dal Politecnico di Milano e dal Center for Creative Leadership, IDeaLs è una piattaforma di ricerca che unisce l’ambito accademico e professionale per scoprire nuovi metodi per coinvolgere le persone in attività di progettazione collaborativa per fare sì che l’innovazione accada.

Negli ultimi due anni, IDeaLs ha collaborato con nove organizzazioni internazionali attive in diversi settori, dai servizi di pubblica utilità ai fornitori di servizi logistici, organizzazioni sanitarie e abbigliamento sportivo.

Per ogni organizzazione che aderisce alla piattaforma, un team centrale di 2-3 manager pone una sfida di innovazione al team di ricerca. Tramite un progetto della durata approssimativa di 6 mesi, ogni sfida viene analizzata e più workshop eseguiti con l’organizzazione partner. Alla fine del periodo, i risultati della ricerca e l’impatto nell’organizzazione vengono condivisi tra tutti i partner in un evento finale collettivo.

In linea con le richieste mosse dai manager, IDeaLs mira a sviluppare nuovi strumenti e metodologie a supporto delle organizzazioni durante i processi di trasformazione organizzativa. Negli ultimi anni, IDeaLs ha sviluppato un’esperienza di “creazione di storie“: è stata organizzata una serie di workshop in cui i partecipanti hanno progettato la propria storia di trasformazione su briefing da parte dei manager, una roadmap per il cambiamento sia individuale che collettivo. Questa esperienza ha avuto un effetto positivo su tutte le organizzazioni partner: in primo luogo, ogni partecipante si è impegnato in tre azioni concrete da compiere, risultando in media in 120 passi autonomi verso la destinazione delineata dai manager. In secondo luogo, i workshop hanno aumentato l’engagement verso l’innovazione, che è stato costantemente monitorato dal team di ricerca.

In definitiva, IDeaLs rappresenta una comunità di “leader dell’innovazione“, che discutono argomenti rilevanti su tematiche di leadership e innovazione, oltre a conoscere i casi di studio delle altre aziende. Vengono organizzati tre eventi annuali in cui i membri discutono le loro intuizioni, condividono storie di successo e discutono gli approcci di ciascuna organizzazione all’innovazione.

In qualità di fondatore della piattaforma, la School of Management contribuisce sia allo sviluppo dei progetti presso i partner che alle attività di ricerca.

In primo luogo, le attività sono legate alla progettazione di nuovi metodi e strumenti per favorire la collaborazione tra individui in un contesto innovativo. Inoltre, la piattaforma mira a dare un contributo metodologico, in termini di sviluppo di strumenti di misurazione che consentano di valutare la disponibilità strategica di un’organizzazione a perseguire una direzione innovativa.

Dal punto di vista accademico, il team é coinvolto nella progettazione delle direzioni di ricerca e sta attualmente sviluppando tre programmi di dottorato relativi alla piattaforma. La School of Management è inoltre responsabile della diffusione delle conoscenze acquisite attraverso un booklet annuale che descrive i progetti svolti in collaborazione con i partner, presentando inoltre i risultati teorici a conferenze internazionali e pubblicando gli stessi su riviste accademiche.

Quando si tratta di noi come individui, siamo spesso sopraffatti dalle innovazioni e sappiamo molto bene che il problema va ben oltre il processo che applichiamo per realizzarle. Il mondo dell’innovazione era così concentrato sulla ricerca del processo di innovazione perfetto, ma ha dimenticato le persone che lo gestiscono“.[1] IDeaLs mira a riportare la persona al centro, come motore di innovazione organizzativa.

Il team di ricerca
http://www.ideals.polimi.it/
Direttori Scientifici: prof. Roberto Verganti; Prof. Tommaso Buganza; Joseph Press, Ph.D.
Team di ricerca: Paola Bellis; Silvia Magnanini; Daniel Trabucchi, Ph.D.; Federico P. Zasa

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[1] Fonte: IDeaLs Booklet 2019

Una nuova era per le partnership accademiche: l’esperienza del Politecnico di Milano in Cina

Intervista a Giuliano Noci
Professore di Strategy and Marketing e Prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano

La Joint School of Design and Innovation Centre di Xi’An, inaugurata nel 2019 in collaborazione con Xi’an Jiaotong University (XJTU), è la prima sede fisica del Politecnico di Milano al di fuori dei confini nazionali. Una scelta non convenzionale per un ateneo italiano, come siete arrivati a concretizzare questo progetto?

La nostra relazione con XJTU nasce 12 anni fa grazie ad uno studente cinese che aveva avuto modo di apprezzare la qualità dei nostri programmi di dottorato, in particolare del dottorato in ingegneria elettrica del professor Sergio Pignari. E’ stato lui che, lavorando con tenacia per tanti anni e con tanti viaggi, ha cominciato a costruire questo ponte tra noi e la Cina, fino a sviluppare questa partnership strategica.
In una prima fase ci siamo occupati di attivare diversi scambi e corsi di doppia laurea. L’ipotesi di avere una presenza fisica nel nuovo campus XJTU è nata successivamente e si è concretizzata con la costruzione di un edificio progettato da architetti del Politecnico di Milano (Remo Dorigati e Pierluigi Salvadeo con studio wok, Chiara Dorigati, Francesco Fuoco), che ci accingiamo a popolare prestissimo, grazie ai numerosi progetti che abbiamo in incubazione.

Che conseguenze ha provocato la pandemia su questo progetto e come vi state riorganizzando?

La pandemia non ha frenato i progetti, ha solo imposto una parziale revisione degli obiettivi che ci eravamo posti.
L’ipotesi era infatti di partire a settembre di quest’anno con un corso di laurea congiunto in architettura, con i nostri docenti presenti fisicamente in Cina. Non essendo possibile, per il momento, abbiamo trasferito le attività di formazione online, sfruttando le expertise che il Politecnico ha maturato in questi anni.
In secondo luogo abbiamo portato avanti un importante accordo che riguarda gli MBA tra il MIP, la nostra Graduate School of Business e la School of Manangement di XJTU, che è una delle più prestigiose del Paese.
Infine vorremmo creare nel nuovo campus una nuova Joint School accreditata dal Ministero dell’Educazione cinese.
Otterremmo così il risultato di andare oltre l’obiettivo della nostra presenza fisica, ma di costituire una vera e propria joint venture di natura universitaria all’estero. Proprio in queste settimane stiamo sviluppando il concept di un nuovo Bachelor of Engineering in Industrial Product Design che vede la partecipazione di diverse Scuole del Politecnico di Milano (Design, Management, Mechanical Engineering, Information and Communication Technology). Se il progetto vincerà la call del Ministero dell’Educazione della PRC, potrà essere di fatto il primo corso pilota della costituenda nuova scuola, con dei tratti distintivi unici, primo fra tutti l’interdisciplinarietà.
L’interdisciplinarietà è fondamentale nei processi di innovazione, in cui l’Italia ha certamente molto da dire al riguardo. E la Cina è fortemente impegnata su questo fronte, come dimostra il piano di sviluppo Made in China 2025 che è stato recentemente varato.

Quindi formazione, ma non solo: una partnership universitaria che mira ad essere rilevante per il Sistema Paese?

Certamente. Il nostro obiettivo è anche supportare le strategie di sviluppo internazionale e tecnologico delle nostre imprese. Xi’An in questo senso è un distretto industriale tra i più importanti della Cina, per l’automotive, elettrica in particolare, e un cluster molto rilevante per il settore ICT (Alibaba e Huawei hanno qui centri di ricerca molto importanti).
Per questo motivo abbiamo pianificato di avere dei laboratori, in cui intendiamo sviluppare ricerche insieme a imprese italiane e cinesi. Quello cinese è un mercato complesso ma estremamente attrattivo per le nostre imprese, e noi possiamo supportarle nel loro ingresso.

Veniamo agli studenti. Il valore aggiunto di uno scambio internazionale, durante un percorso di studio universitario, è dato per assodato, ma come rispondono gli studenti all’opportunità di una doppia laurea di questo tipo?

La Joint School ha l’ambizione di diventare globale: intendiamo attrarre studenti internazionali da tutto il mondo. Ma vogliamo anche supportare processi di crescita ed esperienziali dei nostri ricercatori e docenti, dato che anche per loro si tratta di un’opportunità di crescita sotto molteplici punti di vista.
La reazione degli studenti finora è stata entusiasta. A fronte di un legittimo scetticismo iniziale a studiare in un continente così diverso dal nostro, gli studenti italiani hanno sempre apprezzato in modo straordinario questo scambio culturale. Sono conquistati dall’energia e dalla dinamicità che caratterizza qualsiasi università cinese.
Si rendono conto dell’importanza di interagire in una delle aree che ha il massimo tasso di crescita economica del mondo, caratterizzata da un grande fermento e forti investimenti in tecnologie digitali e intelligenza artificiale.

Una partnership sviluppata, come diceva, sulla base di un lavoro continuativo fatto di visite nel paese ospitante. Ora questo specifico contesto storico ci impone di nuove forme di interconnessione nel mondo.
Che scenari prevede a fronte di questo? In che modo le distanze ci avvicinano o modificano alcune modalità di interazione tra noi e la Cina?

Il tema del Hybrid Learning sarà un acceleratore ulteriore delle relazioni tra Politecnico di Milano e la Cina. In questi mesi, in cui abbiamo ridotto a zero i viaggi, in realtà abbiamo interagito più frequentemente di prima e aumentato il livello degli obiettivi e i risultati raggiunti. In questa direzione, sia sul fronte della ricerca, sia sul fronte della didattica universitaria e post-graduate, si aprono prospettive precedentemente poco esplorate.
In Cina nel periodo di quarantena causa Covid, ben 180 milioni di studenti studiavano totalmente online. Per noi ora è naturale allargare la nostra offerta formativa prescindendo dalla presenza fisica degli studenti cinesi, laddove lo studente non si voglia muovere. Applicare logiche di Hybrid Learning (con lezioni in presenza e non) consente anche a studenti italiani che non si vogliano trasferire in Cina di partecipare, ad esempio, ai nuovi corsi di studio in programma.
Paradossalmente, in un momento in cui la connessione fisica non è stata possibile, l’interconnessione cognitiva e relazionale è stata più frequente, perché da entrambe le parti abbiamo scoperto la possibilità di lavorare con una frequenza di interazioni prima inimmaginabile e preclusa solo dal nostro sistema delle percezioni.
Per esempio, anche con la Tsinghua University di Pechino – la più importante università della Cina che ha un Joint campus a Milano con il nostro Politecnico -, stiamo lanciando ora tre grossi progetti formativi che coinvolgono MIP Graduate School of Business (oltre ad altri Dipartimenti dell’Ateneo) e che sono stati sviluppati in soli sei mesi. In passato, per ottenere un risultato simile, sarebbero stati necessari quattro/cinque anni di continui viaggi.
Questo naturalmente non significa sminuire l’importanza del contatto fisico e della vita di campus.
Si tratta solo di nuove strade che vale la pena percorrere.

Un’ultima domanda sull’approccio formativo nelle scuole di management in Cina. Quello che viene insegnato sta evolvendo in una modalità più propensa alla collaborazione con l’Occidente, oppure i due modelli si stanno radicalizzando su posizioni diverse?

La percezione che ho sempre avuto io della Cina è che ci fosse curiosità rispetto ai modelli manageriali occidentali. Quello che interessava erano però soprattutto le tematiche legate alla gestione dell’innovazione.
Gli approcci vanno in direzioni opposte. La Cina è consapevole della potenza del proprio sistema economico ed è quindi autoreferenziale anche nelle proprie modalità di management.
Questo, tuttavia, non esclude affatto diverse opportunità per noi – come Politecnico e come italiani -, in particolare per due motivi.
Il primo è il numero molto alto di studenti cinesi che desidera studiare all’estero e che si sposterà significativamente in Europa (e auspichiamo anche verso l’Italia).
Il secondo è che l’Italia è molto attrattiva per la nostra capacità, da un lato, di sviluppare un sistema di piccole e medie imprese, e dall’altro, di creare brand di lusso. Una reputazione ottima, dunque, non solo a livello di design ma anche di marketing.
Il nostro Paese, e le nostre scuole di Management sono, di conseguenza, decisamente interessanti.

Se dovesse dirci in breve le 3 “parole d’ordine” per il futuro a breve termine del progetto Xi’An, cosa sceglierebbe?

Consolidamento della Joint School per favorire percorsi di crescita dei giovani talenti del Politecnico.
Apertura di un paio di laboratori con le imprese: uno in ambito automotive e l’altro potrebbe essere l’esportazione del formato Polifactory a Xi’an.
Creazione di un incubatore di start up con relativa costituzione di un fondo di venture capital.

Premio per tesi di laurea con impatti sui Sustainable Development Goals

E’ aperto il bando per il premio “SOM per gli SDG: Tesi con impatti connessi ai Sustainable Development Goals.

La School of Management del Politecnico di Milano in tutti i suoi programmi sostiene le attività di apprendimento e ricerca coerenti con i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile/ Sustainable Development Goals (SDG) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite promuovendo i principi di una gestione responsabile e sostenibile.

Possono essere presentate candidature per tesi o tesine che rappresentino un contributo per risolvere le sfide sociali del nostro tempo e individuare modelli di sviluppo sostenibile sul piano ambientale, economico e sociale (es. sviluppo di ricerche in ambito di progetti, prodotti o servizi alla persona per la promozione della salute e del benessere, parità di genere, sicurezza, protezione dell’ambiente, conservazione del patrimonio culturale, miglioramento delle condizioni di vita delle fasce deboli).

I premi sono destinati a laureati/e nel corso di Laurea Magistrale o Laurea Specialistica o V.O in Ingegneria Gestionale presso il Politecnico di Milano che abbiano conseguito il relativo titolo nel periodo Novembre 2019 – Ottobre 2020.

La scadenza del bando è il 9 ottobre 2020.

Per maggiori informazioni, si prega di consultare il bando disponibile alla pagina https://www.som.polimi.it/albo-e-bandi/

 

Imprenditorialità in un mondo interconnesso: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #2 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

Il titolo di questo numero è “Being entrepreneurial in a high tech world”. Mettiamo sotto la lente d’ingrandimento il cambio di approccio all’imprenditorialità in un mondo sempre più connesso, sempre più interconnesso, ma anche alle prese con la più grave crisi sanitaria dell’ultimo secolo.

Ne parliamo in apertura con una intervista ad Andrea Sianesi, presidente esecutivo PoliHub, che ci racconta come sta evolvendo alla luce della pandemia e come cambia il ruolo degli incubatori. Ne trattiamo poi elementi specifici come la strategia, la leadership e i modelli di business, con editoriali di Federico Frattini, Antonio Ghezzi, Roberto Verganti.

E, infine, raccontiamo storie di Alumni che con le loro idee hanno realizzato iniziative imprenditoriali di successo.

Per leggere il #2 di SOMe clicca qui.

Per riceverla direttamente nella tua casella di posta iscriviti qui.

I numeri precedenti di SOMe:
• # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”
• Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses”

Premio di laurea sul tema “Logistica” in memoria del prof. Gino Marchet – Anno 2020

E’ aperto il bando per 2 premi di laurea del valore di € 2.000,00 lordi ciascuno sul tema “logistica”, sono destinati a laureati/e in Ingegneria (Laurea Magistrale) presso le Facoltà di Ingegneria italiane che abbiano conseguito il titolo dal 1 ottobre 2019 al 31 luglio 2020.

I lavori dovranno trattare tematiche di logistica quali: Automazione di magazzino, Picking, Logistica 4.0, Ottimizzazione dei processi logistici e della supply chain, Outsourcing Logistico, Gestione delle scorte.

Il bando è stato istituito in ricordo del Professor Gino Marchet, Professore Ordinario di Logistica presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, scomparso prematuramente nel 2017.

Per maggiori informazioni, si prega di consultare il bando disponibile alla pagina https://www.som.polimi.it/albo-e-bandi/

Essere imprenditori in un mondo interconnesso

Ne parliamo con Andrea Sianesi, Professore di gestione dei sistemi logistici e produttivi della School of Management
Presidente Esecutivo PoliHub, Innovation District e Startup Accelerator del Politecnico di Milano

 

Andrea, sei a capo di un incubatore, e quindi abbracci nuove idee imprenditoriali quando sono ancora nella culla. Che caratteristiche ha un buon imprenditore in questo momento storico?

Prima di tutto coraggio. E questa è la stessa risposta che avrei dato anche prima della crisi provocata da Covid-19. L’iniziativa imprenditoriale è un salto nel vuoto, e impegnare risorse e tempo per sviluppare idee richiede sangue freddo.
Oltre al coraggio, credo sia fondamentale la capacità di correggere i propri errori e far tesoro degli “inciampi” che capitano durante il percorso.

Do per scontato ovviamente la necessità di possedere conoscenze tecniche e tecnologiche che riguardano la propria impresa. L’imprenditore che passa per PoliHub, in genere, ha una solida competenza tecnologica, mentre si trova ad essere un po’ più debole sulle conoscenze legate al mondo del business. Per questo, l’imprenditore deve essere aperto a fare partnership con altre persone che possano portare all’impresa competenze complementari, come ad esempio la capacità di sviluppo del mercato, o la conoscenza del framework normativo di riferimento.
Bisogna sempre essere disponibili a farsi aiutare.

PoliHub è un incubatore universitario: perché serve l’università, e a cosa esattamente?

L’ecosistema universitario è un asset fondamentale per chi vuol fare impresa. In particolare, al Politecnico di Milano, garantiamo contemporaneamente accesso alla business school, agli hub di innovazione POLI.design e Cefriel, a migliaia di docenti e ricercatori, a laboratori che coprono tutte le discipline ingegneristiche e che sono fondamentali, ad esempio, nel processo di trasformazione di un’idea a prodotto.

E noi per questo motivo non siamo soltanto un luogo che ospita le start up: offriamo un contesto unico rispetto ad altri incubatori. Spesso, nelle start up deep tech, è necessario svolgere attività sperimentale in laboratori che di fatto si trovano solo in università, e ci sono imprese che, seguendo sviluppi tecnologici in diversi settori, hanno distaccato alcuni loro dipartimenti per venire a localizzarsi da noi. Questo consente loro di collaborare e interagire con le start up e allo stesso modo avere la stessa facilità di accesso all’hub nella sua interezza.

Questo fa la differenza e i numeri ce lo confermano. Faccio un esempio: PoliHub, assieme al TTO (Techology transfer office) del Politecnico di Milano, gestisce ogni anno Switch To Product, il programma che valorizza sul mercato soluzioni innovative, nuove tecnologie e idee di impresa proposte da studenti e laureati da un massimo di tre anni, ricercatori, alumni e docenti del Politecnico di Milano, offrendo risorse economiche e servizi consulenziali per supportare lo sviluppo dei progetti d’innovazione attraverso percorsi di validazione tecnologica e accelerazione imprenditoriale. Quest’anno la call ha avuto un incremento delle domande del 20%. Si tratta di una crescita molto significativa, che ci fa anche ben sperare nell’aumento di nuove imprese di successo.

Covid-19 ha ribaltato il tavolo, modificando i confini e gli ecosistemi di business; gli effetti potrebbero essere di breve o di lungo periodo, che cosa hai osservato in particolare a riguardo?

Negli ultimi mesi si è temuto che la pandemia potesse spazzare via il mondo delle start up, che sono impossibilitate ad accedere a forme di sussidio messe in campo per altre categorie imprenditoriali e professionali. Il problema è reale e contingente: le start up oggi si trovano in maggiore difficoltà rispetto a imprese già navigate, ma per il momento il sistema sta reggendo e sta dando anche segnali incoraggianti.

L’effetto inatteso è stato infatti un aumento della domanda di accesso ai servizi di incubazione. C’è una forte richiesta di entrare nel mondo imprenditoriale, forse dovuto anche alla presa di coscienza che ora più che mai è necessario sapersi rimettere in gioco, anche per coloro che hanno una carriera consolidata, creando nuove opportunità di reddito laddove venisse meno una stabilità lavorativa.

E l’incremento della domanda di servizi avviene non solo da parte di potenziali start up, ma anche di aziende già formate, che decidono di delocalizzarsi in uffici più piccoli e snelli situati accanto a centri di eccellenza. Una nuova tendenza forse facilitata anche dal diffondersi dello smart working, che rende di più facile gestione uffici piccoli rispetto a sedi più grandi.

Dipingi un quadro con diverse opportunità all’orizzonte. Quali sono quindi i programmi futuri di Polihub?

La sfida per noi rimane quella di trovare le risorse che possano accompagnare le start up dall’idea, e quindi dall’università, con il suo fermento e la disponibilità di risorse legate a progetti europei e grant, a fondi e investitori disponibili a sostenerle in tutta la fase della loro crescita.

Mi piace visualizzare il processo come l’attraversamento di una valle: le start up hanno bisogno di un “ponte” tra le due fasi, di un accompagnamento che permetta loro di avere le risorse necessarie per rendere la loro idea interessante per gli investitori.
E affinchè l’idea sia interessante necessita di due elementi: dimostrarsi solida e verificata dal punto di vista tecnico, e avere un mercato target a cui rivolgersi.

Spesso le prove tecniche richiedono già investimenti considerevoli e tempi lunghi: noi ci impegniamo per far sì che questo “ponte” sia efficace, e possibilmente breve, rispetto agli obiettivi.

Il nostro progetto per il futuro è quindi quello di lavorare certamente per reperire investitori istituzionali e venture capital, ma con un approccio di ampio respiro che contempli il contesto internazionale e non solo una esposizione domestica delle nostre start up.

Abbiamo intenzione di pensare in logica internazionale, non solo per quanto concerne la parte finanziaria, ma anche per quanto riguarda l’uso di tutti i possibili asset messi a disposizione dal network degli incubatori di eccellenza su scala mondiale.

Siamo certi che mettere a fattor comune queste capacità ci permetterà di fare davvero la differenza.

Disruption? No grazie. Innovazione e Leadership nel New Normal

Qualunque sia il futuro post-Covid, la nuova normalità richiederà un cambiamento fondamentale nella guida delle aziende. Che tipo di mentalità dovranno avere i leader per fare business e innovazione in un mondo che sarà completamente diverso? In un periodo in cui la tentazione sarà di essere sempre più competitivi a causa delle scarse risorse a disposizione, imparare a condividere può essere l’unica strategia in grado di garantire la sopravvivenza.

 

Roberto Verganti, Professore di Leadership and Innovation
School of Management Politecnico di Milano, Stockholm School of Economics e Harvard Business School

 

Molti manager si interrogano su un quesito fondamentale: come prepararsi alla “nuova normalità”? Come saranno i mercati quando l’ondata o le ondate principali della pandemia di Covid-19 si esauriranno? Come riprogettare prodotti, servizi e operatività per affrontare i. cambiamenti dello scenario?
La scadenza per ripensare il nostro modo di operare è sempre più vicina. Chi si prepara ora inizierà con il piede giusto. Chi aspetta sembrerà un dinosauro di un’altra era (anche se quell’era risale ad appena qualche mese fa).

Riviste, futuristi, consulenti, organizzazioni. Tutti cercano di immaginare come sarà il New Normal. E tutti sono d’accordo su due cose: in primo luogo, il mondo avrà un aspetto diverso rispetto a prima. In secondo luogo, questa trasformazione non sarà temporanea. Anche quando il Covid-19 sarà completamente sconfitto (e si spera lo sarà), il nostro atteggiamento verso la socializzazione, la nostra apertura verso il mondo, il nostro bisogno di salute (e l’ansia per le nuove infezioni), saranno radicalmente diversi, nel bene e nel male.

Eppure, mentre ci avviciniamo sempre più e esploriamo una nuova vita, i nuovi mercati, la nuova operatività, emerge la vera sfida: il fenomeno che stiamo affrontando è senza precedenti, così sproporzionato e rapido che è inverosimile poter cogliere l’essenza di ciò che accadrà. Un semplice numero per spiegare la rapidità e l’entità della discontinuità: nel marzo 2020 oltre 7 milioni di americani a settimana hanno presentato richiesta di sussidi di disoccupazione. Questo numero è quasi decuplicato rispetto a quanto accaduto durante la crisi finanziaria del 2008. Pertanto, a prescindere dalla perspicacia e dallo sforzo profuso per prevedere cosa accadrà, dobbiamo ammettere che la risposta alla domanda “come sarà il mondo?” è: nessuno lo sa veramente. Questo ci sgomenta, perché per come solitamente immaginiamo i leader (e gli esperti), supponiamo che sappiano sempre tutto. Eppure, in questo contesto, “fingere di sapere” è l’errore più tragico che si possa commettere.

Amy Edmondson illustra nel suo libro The Fearless Organization che quando una persona ammette di non sapere, essa apre le porte all’apprendimento. Per capire come fare business nella nuova normalità, l’atteggiamento mentale di cui abbiamo bisogno non è quindi indovinare come sarà, ma prepararsi ad imparare.

Come? Essendo il contesto completamente nuovo, non possiamo fare affidamento sulle esperienze passate. Dovremo imparare “in corsa” attraverso continui esperimenti e adattamenti. Ci sono due modi per sperimentare e imparare: competere (imparare da soli) o collaborare (imparare condividendo).

Imparare da soli. Questo è il classico modo di imparare. L’obiettivo è di imparare meglio degli avversari per poter superare la concorrenza. Con questo approccio, le aziende competono tra loro conducendo diversi esperimenti. L’apprendimento, in altre parole, è una leva di differenziazione. Ogni azienda prova le proprie idee, fallisce, impara, corregge il tiro e ripete. Dal momento che le aziende mirano a battere la concorrenza, non vorranno certo condividere i propri risultati e approfondimenti con altre aziende, né i dati che alimentano l’apprendimento. Ciò implica che ogni volta che un’azienda ha un’idea, essa deve studiarla e analizzarla affidandosi solo alle proprie risorse.

Imparare condividendo. Anche con questo approccio, le aziende conducono diversi esperimenti. Generano le proprie idee e ripetono. Tuttavia, condividono i dati e i risultati dei propri esperimenti. Perché? Perché in questo modo possono apprendere dalle prove degli altri player. Se un’idea è già stata testata e fallisce, altri possono evitare questo percorso poco promettente e concentrarsi su altre opzioni. E se l’idea ha successo, altri possono costruire su di essa, invece di partire tutti da zero. Naturalmente questo percorso riduce le distanze tra i concorrenti. Tuttavia, il vantaggio è che questo approccio richiede meno risorse (individuali e collettive) e meno tempo per trovare buone soluzioni. Questo aumento della produttività complessiva e della velocità facilita la crescita della domanda di soluzioni, il che alimenta i rendimenti per ogni player. In altre parole, questo meccanismo di apprendimento replica i meccanismi del dilemma del prigioniero: la cooperazione tra i player porta a rendimenti superiori di quelli che i player otterrebbero se massimizzassero i propri rendimenti individuali.

Imparare da soli è il tipo di apprendimento che è stato promosso nell’ultimo decennio da molti studiosi dell’innovazione ed esemplificato dal motto “fail often to succeed sooner”. Ha funzionato fintanto che l’ambiente è cambiato rapidamente ma in modo lineare, così che l’apprendimento proveniente da un esperimento potesse essere applicato a quello successivo senza che nel frattempo il contesto cambiasse drasticamente. Il cambiamento che stiamo affrontando ora con il Covid-19 è invece discontinuo e senza precedenti. Se in questo contesto ognuno conduce esperimenti da solo, non c’è tempo sufficiente per ciascun player di analizzare questo spazio inesplorato delle soluzioni e poi ripetere prima che il contesto si evolva di nuovo.

Per innovare nella nuova normalità dobbiamo imparare condividendo. Questa strategia è l’unica in grado di garantire sufficiente margine, velocità e produttività degli esperimenti. Infatti, la condivisione dei dati permette ad una più ampia comunità di player di partecipare agli esperimenti, includendo una gamma più eterogenea di contesti. E la condivisione dei risultati permette di evitare test improduttivi.

L’apprendimento attraverso la condivisione è già praticato nella ricerca scientifica legata al Covid-19. Per esempio, PostEra, una start-up con sede a Santa Clara, California e Londra, sta coordinando un grande progetto di collaborazione, Covid Moonshot, per sviluppare rapidamente farmaci anti-Covid efficaci e facili da produrre. L’obiettivo del progetto è quello di progettare gli inibitori della proteasi principale della SARS-CoV-2 (l’enzima che permette al virus di replicarsi). Il progetto fa leva sui dati condivisi da esperimenti condotti presso un laboratorio delle radiazioni da sincrotrone, Diamond Light Source, il quale ha identificato 80 frammenti di molecole che potrebbero legarsi alla proteasi. Una comunità di scienziati e produttori utilizza questi dati per progettare gli inibitori dei composti, i quali vengono sottoposti attraverso il sito web di PostEra. La start-up esegue poi gli algoritmi di machine learning in background per verificare la presenza di duplicazioni e dare priorità ai candidati per i test. Sono stati presentati più di 3.600 tipi di molecole con solo 32 duplicazioni nei progetti.

L’apprendimento condiviso si sta facendo strada anche nei profit business non collegati al Covid-19. Microsoft ha recentemente lanciato una campagna Open Data. Il movimento Open Data promuove la condivisione dei dati, analogamente a quanto fa Open Source con la condivisione del codice software. Microsoft svilupperà 20 nuove collaborazioni basate su dati condivisi entro il 2022, tra cui, ad esempio, la pubblicazione di un set di dati Microsoft sull’utilizzo della banda larga negli Stati Uniti.
Da notare che l’apprendimento condiviso non implica che player diversi collaborino sulla stessa idea o soluzione, come nei consorzi. Al contrario, le aziende analizzano idee ed esperimenti diversi. Questo permette di esplorare l’intero spazio delle soluzioni. Ciò che viene condiviso, invece, sono i dati che alimentano gli esperimenti, e/o gli approfondimenti e i risultati che essi generano.

L’apprendimento attraverso la condivisione si basa sulla volontà di cooperare. Il che non è facile da realizzare. Soprattutto in un periodo in cui le risorse a disposizione sono scarse. La tentazione è quella di guardarsi dentro e comportarsi in modo ancora più competitivo, per assicurarsi le poche cose rimaste, invece di concentrarsi, in modo collaborativo, sul costruire di più. Di che tipo di cultura e mentalità avranno bisogno i leader dell’innovazione per promuovere l’apprendimento attraverso la condivisione nelle proprie aziende?

Qualunque sarà il futuro, la nuova normalità richiederà un cambiamento fondamentale nel modo in cui creeremo innovazione e guideremo le nostre aziende. Mentre il mantra dell’innovazione dell’era pre-Covid era quello della “disruption” dei concorrenti, questo non è proprio il momento di fare disruption. Questo è piuttosto il momento di ricostruire collettivamente una nuova economia e un nuovo mondo. I veri eroi, nel business e nella società, non saranno i disruptors, ma quei catalizzatori che favoriranno una mentalità cooperativa. Il che, nell’innovazione, significa condividere i dati e gli insegnamenti degli esperimenti condotti da tutti. Le aziende dovranno provare diverse idee in competizione tra loro, ma potranno anche trarre vantaggio dalla condivisione dell’apprendimento, al fine di evitare strade poco promettenti, migliorare la produttività collettiva e costruire rapidamente una nuova società. Il Covid-19 è il momento della verità per i leader: ora possono dimostrare il proprio orientamento autentico a guidare le aziende con determinazione e significato.