Una nuova era per le partnership accademiche: l’esperienza del Politecnico di Milano in Cina

Intervista a Giuliano Noci
Professore di Strategy and Marketing e Prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano

La Joint School of Design and Innovation Centre di Xi’An, inaugurata nel 2019 in collaborazione con Xi’an Jiaotong University (XJTU), è la prima sede fisica del Politecnico di Milano al di fuori dei confini nazionali. Una scelta non convenzionale per un ateneo italiano, come siete arrivati a concretizzare questo progetto?

La nostra relazione con XJTU nasce 12 anni fa grazie ad uno studente cinese che aveva avuto modo di apprezzare la qualità dei nostri programmi di dottorato, in particolare del dottorato in ingegneria elettrica del professor Sergio Pignari. E’ stato lui che, lavorando con tenacia per tanti anni e con tanti viaggi, ha cominciato a costruire questo ponte tra noi e la Cina, fino a sviluppare questa partnership strategica.
In una prima fase ci siamo occupati di attivare diversi scambi e corsi di doppia laurea. L’ipotesi di avere una presenza fisica nel nuovo campus XJTU è nata successivamente e si è concretizzata con la costruzione di un edificio progettato da architetti del Politecnico di Milano (Remo Dorigati e Pierluigi Salvadeo con studio wok, Chiara Dorigati, Francesco Fuoco), che ci accingiamo a popolare prestissimo, grazie ai numerosi progetti che abbiamo in incubazione.

Che conseguenze ha provocato la pandemia su questo progetto e come vi state riorganizzando?

La pandemia non ha frenato i progetti, ha solo imposto una parziale revisione degli obiettivi che ci eravamo posti.
L’ipotesi era infatti di partire a settembre di quest’anno con un corso di laurea congiunto in architettura, con i nostri docenti presenti fisicamente in Cina. Non essendo possibile, per il momento, abbiamo trasferito le attività di formazione online, sfruttando le expertise che il Politecnico ha maturato in questi anni.
In secondo luogo abbiamo portato avanti un importante accordo che riguarda gli MBA tra il MIP, la nostra Graduate School of Business e la School of Manangement di XJTU, che è una delle più prestigiose del Paese.
Infine vorremmo creare nel nuovo campus una nuova Joint School accreditata dal Ministero dell’Educazione cinese.
Otterremmo così il risultato di andare oltre l’obiettivo della nostra presenza fisica, ma di costituire una vera e propria joint venture di natura universitaria all’estero. Proprio in queste settimane stiamo sviluppando il concept di un nuovo Bachelor of Engineering in Industrial Product Design che vede la partecipazione di diverse Scuole del Politecnico di Milano (Design, Management, Mechanical Engineering, Information and Communication Technology). Se il progetto vincerà la call del Ministero dell’Educazione della PRC, potrà essere di fatto il primo corso pilota della costituenda nuova scuola, con dei tratti distintivi unici, primo fra tutti l’interdisciplinarietà.
L’interdisciplinarietà è fondamentale nei processi di innovazione, in cui l’Italia ha certamente molto da dire al riguardo. E la Cina è fortemente impegnata su questo fronte, come dimostra il piano di sviluppo Made in China 2025 che è stato recentemente varato.

Quindi formazione, ma non solo: una partnership universitaria che mira ad essere rilevante per il Sistema Paese?

Certamente. Il nostro obiettivo è anche supportare le strategie di sviluppo internazionale e tecnologico delle nostre imprese. Xi’An in questo senso è un distretto industriale tra i più importanti della Cina, per l’automotive, elettrica in particolare, e un cluster molto rilevante per il settore ICT (Alibaba e Huawei hanno qui centri di ricerca molto importanti).
Per questo motivo abbiamo pianificato di avere dei laboratori, in cui intendiamo sviluppare ricerche insieme a imprese italiane e cinesi. Quello cinese è un mercato complesso ma estremamente attrattivo per le nostre imprese, e noi possiamo supportarle nel loro ingresso.

Veniamo agli studenti. Il valore aggiunto di uno scambio internazionale, durante un percorso di studio universitario, è dato per assodato, ma come rispondono gli studenti all’opportunità di una doppia laurea di questo tipo?

La Joint School ha l’ambizione di diventare globale: intendiamo attrarre studenti internazionali da tutto il mondo. Ma vogliamo anche supportare processi di crescita ed esperienziali dei nostri ricercatori e docenti, dato che anche per loro si tratta di un’opportunità di crescita sotto molteplici punti di vista.
La reazione degli studenti finora è stata entusiasta. A fronte di un legittimo scetticismo iniziale a studiare in un continente così diverso dal nostro, gli studenti italiani hanno sempre apprezzato in modo straordinario questo scambio culturale. Sono conquistati dall’energia e dalla dinamicità che caratterizza qualsiasi università cinese.
Si rendono conto dell’importanza di interagire in una delle aree che ha il massimo tasso di crescita economica del mondo, caratterizzata da un grande fermento e forti investimenti in tecnologie digitali e intelligenza artificiale.

Una partnership sviluppata, come diceva, sulla base di un lavoro continuativo fatto di visite nel paese ospitante. Ora questo specifico contesto storico ci impone di nuove forme di interconnessione nel mondo.
Che scenari prevede a fronte di questo? In che modo le distanze ci avvicinano o modificano alcune modalità di interazione tra noi e la Cina?

Il tema del Hybrid Learning sarà un acceleratore ulteriore delle relazioni tra Politecnico di Milano e la Cina. In questi mesi, in cui abbiamo ridotto a zero i viaggi, in realtà abbiamo interagito più frequentemente di prima e aumentato il livello degli obiettivi e i risultati raggiunti. In questa direzione, sia sul fronte della ricerca, sia sul fronte della didattica universitaria e post-graduate, si aprono prospettive precedentemente poco esplorate.
In Cina nel periodo di quarantena causa Covid, ben 180 milioni di studenti studiavano totalmente online. Per noi ora è naturale allargare la nostra offerta formativa prescindendo dalla presenza fisica degli studenti cinesi, laddove lo studente non si voglia muovere. Applicare logiche di Hybrid Learning (con lezioni in presenza e non) consente anche a studenti italiani che non si vogliano trasferire in Cina di partecipare, ad esempio, ai nuovi corsi di studio in programma.
Paradossalmente, in un momento in cui la connessione fisica non è stata possibile, l’interconnessione cognitiva e relazionale è stata più frequente, perché da entrambe le parti abbiamo scoperto la possibilità di lavorare con una frequenza di interazioni prima inimmaginabile e preclusa solo dal nostro sistema delle percezioni.
Per esempio, anche con la Tsinghua University di Pechino – la più importante università della Cina che ha un Joint campus a Milano con il nostro Politecnico -, stiamo lanciando ora tre grossi progetti formativi che coinvolgono MIP Graduate School of Business (oltre ad altri Dipartimenti dell’Ateneo) e che sono stati sviluppati in soli sei mesi. In passato, per ottenere un risultato simile, sarebbero stati necessari quattro/cinque anni di continui viaggi.
Questo naturalmente non significa sminuire l’importanza del contatto fisico e della vita di campus.
Si tratta solo di nuove strade che vale la pena percorrere.

Un’ultima domanda sull’approccio formativo nelle scuole di management in Cina. Quello che viene insegnato sta evolvendo in una modalità più propensa alla collaborazione con l’Occidente, oppure i due modelli si stanno radicalizzando su posizioni diverse?

La percezione che ho sempre avuto io della Cina è che ci fosse curiosità rispetto ai modelli manageriali occidentali. Quello che interessava erano però soprattutto le tematiche legate alla gestione dell’innovazione.
Gli approcci vanno in direzioni opposte. La Cina è consapevole della potenza del proprio sistema economico ed è quindi autoreferenziale anche nelle proprie modalità di management.
Questo, tuttavia, non esclude affatto diverse opportunità per noi – come Politecnico e come italiani -, in particolare per due motivi.
Il primo è il numero molto alto di studenti cinesi che desidera studiare all’estero e che si sposterà significativamente in Europa (e auspichiamo anche verso l’Italia).
Il secondo è che l’Italia è molto attrattiva per la nostra capacità, da un lato, di sviluppare un sistema di piccole e medie imprese, e dall’altro, di creare brand di lusso. Una reputazione ottima, dunque, non solo a livello di design ma anche di marketing.
Il nostro Paese, e le nostre scuole di Management sono, di conseguenza, decisamente interessanti.

Se dovesse dirci in breve le 3 “parole d’ordine” per il futuro a breve termine del progetto Xi’An, cosa sceglierebbe?

Consolidamento della Joint School per favorire percorsi di crescita dei giovani talenti del Politecnico.
Apertura di un paio di laboratori con le imprese: uno in ambito automotive e l’altro potrebbe essere l’esportazione del formato Polifactory a Xi’an.
Creazione di un incubatore di start up con relativa costituzione di un fondo di venture capital.

Premio per tesi di laurea con impatti sui Sustainable Development Goals

E’ aperto il bando per il premio “SOM per gli SDG: Tesi con impatti connessi ai Sustainable Development Goals.

La School of Management del Politecnico di Milano in tutti i suoi programmi sostiene le attività di apprendimento e ricerca coerenti con i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile/ Sustainable Development Goals (SDG) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite promuovendo i principi di una gestione responsabile e sostenibile.

Possono essere presentate candidature per tesi o tesine che rappresentino un contributo per risolvere le sfide sociali del nostro tempo e individuare modelli di sviluppo sostenibile sul piano ambientale, economico e sociale (es. sviluppo di ricerche in ambito di progetti, prodotti o servizi alla persona per la promozione della salute e del benessere, parità di genere, sicurezza, protezione dell’ambiente, conservazione del patrimonio culturale, miglioramento delle condizioni di vita delle fasce deboli).

I premi sono destinati a laureati/e nel corso di Laurea Magistrale o Laurea Specialistica o V.O in Ingegneria Gestionale presso il Politecnico di Milano che abbiano conseguito il relativo titolo nel periodo Novembre 2019 – Ottobre 2020.

La scadenza del bando è il 9 ottobre 2020.

Per maggiori informazioni, si prega di consultare il bando disponibile alla pagina https://www.som.polimi.it/albo-e-bandi/

 

Imprenditorialità in un mondo interconnesso: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #2 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

Il titolo di questo numero è “Being entrepreneurial in a high tech world”. Mettiamo sotto la lente d’ingrandimento il cambio di approccio all’imprenditorialità in un mondo sempre più connesso, sempre più interconnesso, ma anche alle prese con la più grave crisi sanitaria dell’ultimo secolo.

Ne parliamo in apertura con una intervista ad Andrea Sianesi, presidente esecutivo PoliHub, che ci racconta come sta evolvendo alla luce della pandemia e come cambia il ruolo degli incubatori. Ne trattiamo poi elementi specifici come la strategia, la leadership e i modelli di business, con editoriali di Federico Frattini, Antonio Ghezzi, Roberto Verganti.

E, infine, raccontiamo storie di Alumni che con le loro idee hanno realizzato iniziative imprenditoriali di successo.

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I numeri precedenti di SOMe:
• # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”
• Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses”

Premio di laurea sul tema “Logistica” in memoria del prof. Gino Marchet – Anno 2020

E’ aperto il bando per 2 premi di laurea del valore di € 2.000,00 lordi ciascuno sul tema “logistica”, sono destinati a laureati/e in Ingegneria (Laurea Magistrale) presso le Facoltà di Ingegneria italiane che abbiano conseguito il titolo dal 1 ottobre 2019 al 31 luglio 2020.

I lavori dovranno trattare tematiche di logistica quali: Automazione di magazzino, Picking, Logistica 4.0, Ottimizzazione dei processi logistici e della supply chain, Outsourcing Logistico, Gestione delle scorte.

Il bando è stato istituito in ricordo del Professor Gino Marchet, Professore Ordinario di Logistica presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, scomparso prematuramente nel 2017.

Per maggiori informazioni, si prega di consultare il bando disponibile alla pagina https://www.som.polimi.it/albo-e-bandi/

Essere imprenditori in un mondo interconnesso

Ne parliamo con Andrea Sianesi, Professore di gestione dei sistemi logistici e produttivi della School of Management
Presidente Esecutivo PoliHub, Innovation District e Startup Accelerator del Politecnico di Milano

 

Andrea, sei a capo di un incubatore, e quindi abbracci nuove idee imprenditoriali quando sono ancora nella culla. Che caratteristiche ha un buon imprenditore in questo momento storico?

Prima di tutto coraggio. E questa è la stessa risposta che avrei dato anche prima della crisi provocata da Covid-19. L’iniziativa imprenditoriale è un salto nel vuoto, e impegnare risorse e tempo per sviluppare idee richiede sangue freddo.
Oltre al coraggio, credo sia fondamentale la capacità di correggere i propri errori e far tesoro degli “inciampi” che capitano durante il percorso.

Do per scontato ovviamente la necessità di possedere conoscenze tecniche e tecnologiche che riguardano la propria impresa. L’imprenditore che passa per PoliHub, in genere, ha una solida competenza tecnologica, mentre si trova ad essere un po’ più debole sulle conoscenze legate al mondo del business. Per questo, l’imprenditore deve essere aperto a fare partnership con altre persone che possano portare all’impresa competenze complementari, come ad esempio la capacità di sviluppo del mercato, o la conoscenza del framework normativo di riferimento.
Bisogna sempre essere disponibili a farsi aiutare.

PoliHub è un incubatore universitario: perché serve l’università, e a cosa esattamente?

L’ecosistema universitario è un asset fondamentale per chi vuol fare impresa. In particolare, al Politecnico di Milano, garantiamo contemporaneamente accesso alla business school, agli hub di innovazione POLI.design e Cefriel, a migliaia di docenti e ricercatori, a laboratori che coprono tutte le discipline ingegneristiche e che sono fondamentali, ad esempio, nel processo di trasformazione di un’idea a prodotto.

E noi per questo motivo non siamo soltanto un luogo che ospita le start up: offriamo un contesto unico rispetto ad altri incubatori. Spesso, nelle start up deep tech, è necessario svolgere attività sperimentale in laboratori che di fatto si trovano solo in università, e ci sono imprese che, seguendo sviluppi tecnologici in diversi settori, hanno distaccato alcuni loro dipartimenti per venire a localizzarsi da noi. Questo consente loro di collaborare e interagire con le start up e allo stesso modo avere la stessa facilità di accesso all’hub nella sua interezza.

Questo fa la differenza e i numeri ce lo confermano. Faccio un esempio: PoliHub, assieme al TTO (Techology transfer office) del Politecnico di Milano, gestisce ogni anno Switch To Product, il programma che valorizza sul mercato soluzioni innovative, nuove tecnologie e idee di impresa proposte da studenti e laureati da un massimo di tre anni, ricercatori, alumni e docenti del Politecnico di Milano, offrendo risorse economiche e servizi consulenziali per supportare lo sviluppo dei progetti d’innovazione attraverso percorsi di validazione tecnologica e accelerazione imprenditoriale. Quest’anno la call ha avuto un incremento delle domande del 20%. Si tratta di una crescita molto significativa, che ci fa anche ben sperare nell’aumento di nuove imprese di successo.

Covid-19 ha ribaltato il tavolo, modificando i confini e gli ecosistemi di business; gli effetti potrebbero essere di breve o di lungo periodo, che cosa hai osservato in particolare a riguardo?

Negli ultimi mesi si è temuto che la pandemia potesse spazzare via il mondo delle start up, che sono impossibilitate ad accedere a forme di sussidio messe in campo per altre categorie imprenditoriali e professionali. Il problema è reale e contingente: le start up oggi si trovano in maggiore difficoltà rispetto a imprese già navigate, ma per il momento il sistema sta reggendo e sta dando anche segnali incoraggianti.

L’effetto inatteso è stato infatti un aumento della domanda di accesso ai servizi di incubazione. C’è una forte richiesta di entrare nel mondo imprenditoriale, forse dovuto anche alla presa di coscienza che ora più che mai è necessario sapersi rimettere in gioco, anche per coloro che hanno una carriera consolidata, creando nuove opportunità di reddito laddove venisse meno una stabilità lavorativa.

E l’incremento della domanda di servizi avviene non solo da parte di potenziali start up, ma anche di aziende già formate, che decidono di delocalizzarsi in uffici più piccoli e snelli situati accanto a centri di eccellenza. Una nuova tendenza forse facilitata anche dal diffondersi dello smart working, che rende di più facile gestione uffici piccoli rispetto a sedi più grandi.

Dipingi un quadro con diverse opportunità all’orizzonte. Quali sono quindi i programmi futuri di Polihub?

La sfida per noi rimane quella di trovare le risorse che possano accompagnare le start up dall’idea, e quindi dall’università, con il suo fermento e la disponibilità di risorse legate a progetti europei e grant, a fondi e investitori disponibili a sostenerle in tutta la fase della loro crescita.

Mi piace visualizzare il processo come l’attraversamento di una valle: le start up hanno bisogno di un “ponte” tra le due fasi, di un accompagnamento che permetta loro di avere le risorse necessarie per rendere la loro idea interessante per gli investitori.
E affinchè l’idea sia interessante necessita di due elementi: dimostrarsi solida e verificata dal punto di vista tecnico, e avere un mercato target a cui rivolgersi.

Spesso le prove tecniche richiedono già investimenti considerevoli e tempi lunghi: noi ci impegniamo per far sì che questo “ponte” sia efficace, e possibilmente breve, rispetto agli obiettivi.

Il nostro progetto per il futuro è quindi quello di lavorare certamente per reperire investitori istituzionali e venture capital, ma con un approccio di ampio respiro che contempli il contesto internazionale e non solo una esposizione domestica delle nostre start up.

Abbiamo intenzione di pensare in logica internazionale, non solo per quanto concerne la parte finanziaria, ma anche per quanto riguarda l’uso di tutti i possibili asset messi a disposizione dal network degli incubatori di eccellenza su scala mondiale.

Siamo certi che mettere a fattor comune queste capacità ci permetterà di fare davvero la differenza.

Disruption? No grazie. Innovazione e Leadership nel New Normal

Qualunque sia il futuro post-Covid, la nuova normalità richiederà un cambiamento fondamentale nella guida delle aziende. Che tipo di mentalità dovranno avere i leader per fare business e innovazione in un mondo che sarà completamente diverso? In un periodo in cui la tentazione sarà di essere sempre più competitivi a causa delle scarse risorse a disposizione, imparare a condividere può essere l’unica strategia in grado di garantire la sopravvivenza.

 

Roberto Verganti, Professore di Leadership and Innovation
School of Management Politecnico di Milano, Stockholm School of Economics e Harvard Business School

 

Molti manager si interrogano su un quesito fondamentale: come prepararsi alla “nuova normalità”? Come saranno i mercati quando l’ondata o le ondate principali della pandemia di Covid-19 si esauriranno? Come riprogettare prodotti, servizi e operatività per affrontare i. cambiamenti dello scenario?
La scadenza per ripensare il nostro modo di operare è sempre più vicina. Chi si prepara ora inizierà con il piede giusto. Chi aspetta sembrerà un dinosauro di un’altra era (anche se quell’era risale ad appena qualche mese fa).

Riviste, futuristi, consulenti, organizzazioni. Tutti cercano di immaginare come sarà il New Normal. E tutti sono d’accordo su due cose: in primo luogo, il mondo avrà un aspetto diverso rispetto a prima. In secondo luogo, questa trasformazione non sarà temporanea. Anche quando il Covid-19 sarà completamente sconfitto (e si spera lo sarà), il nostro atteggiamento verso la socializzazione, la nostra apertura verso il mondo, il nostro bisogno di salute (e l’ansia per le nuove infezioni), saranno radicalmente diversi, nel bene e nel male.

Eppure, mentre ci avviciniamo sempre più e esploriamo una nuova vita, i nuovi mercati, la nuova operatività, emerge la vera sfida: il fenomeno che stiamo affrontando è senza precedenti, così sproporzionato e rapido che è inverosimile poter cogliere l’essenza di ciò che accadrà. Un semplice numero per spiegare la rapidità e l’entità della discontinuità: nel marzo 2020 oltre 7 milioni di americani a settimana hanno presentato richiesta di sussidi di disoccupazione. Questo numero è quasi decuplicato rispetto a quanto accaduto durante la crisi finanziaria del 2008. Pertanto, a prescindere dalla perspicacia e dallo sforzo profuso per prevedere cosa accadrà, dobbiamo ammettere che la risposta alla domanda “come sarà il mondo?” è: nessuno lo sa veramente. Questo ci sgomenta, perché per come solitamente immaginiamo i leader (e gli esperti), supponiamo che sappiano sempre tutto. Eppure, in questo contesto, “fingere di sapere” è l’errore più tragico che si possa commettere.

Amy Edmondson illustra nel suo libro The Fearless Organization che quando una persona ammette di non sapere, essa apre le porte all’apprendimento. Per capire come fare business nella nuova normalità, l’atteggiamento mentale di cui abbiamo bisogno non è quindi indovinare come sarà, ma prepararsi ad imparare.

Come? Essendo il contesto completamente nuovo, non possiamo fare affidamento sulle esperienze passate. Dovremo imparare “in corsa” attraverso continui esperimenti e adattamenti. Ci sono due modi per sperimentare e imparare: competere (imparare da soli) o collaborare (imparare condividendo).

Imparare da soli. Questo è il classico modo di imparare. L’obiettivo è di imparare meglio degli avversari per poter superare la concorrenza. Con questo approccio, le aziende competono tra loro conducendo diversi esperimenti. L’apprendimento, in altre parole, è una leva di differenziazione. Ogni azienda prova le proprie idee, fallisce, impara, corregge il tiro e ripete. Dal momento che le aziende mirano a battere la concorrenza, non vorranno certo condividere i propri risultati e approfondimenti con altre aziende, né i dati che alimentano l’apprendimento. Ciò implica che ogni volta che un’azienda ha un’idea, essa deve studiarla e analizzarla affidandosi solo alle proprie risorse.

Imparare condividendo. Anche con questo approccio, le aziende conducono diversi esperimenti. Generano le proprie idee e ripetono. Tuttavia, condividono i dati e i risultati dei propri esperimenti. Perché? Perché in questo modo possono apprendere dalle prove degli altri player. Se un’idea è già stata testata e fallisce, altri possono evitare questo percorso poco promettente e concentrarsi su altre opzioni. E se l’idea ha successo, altri possono costruire su di essa, invece di partire tutti da zero. Naturalmente questo percorso riduce le distanze tra i concorrenti. Tuttavia, il vantaggio è che questo approccio richiede meno risorse (individuali e collettive) e meno tempo per trovare buone soluzioni. Questo aumento della produttività complessiva e della velocità facilita la crescita della domanda di soluzioni, il che alimenta i rendimenti per ogni player. In altre parole, questo meccanismo di apprendimento replica i meccanismi del dilemma del prigioniero: la cooperazione tra i player porta a rendimenti superiori di quelli che i player otterrebbero se massimizzassero i propri rendimenti individuali.

Imparare da soli è il tipo di apprendimento che è stato promosso nell’ultimo decennio da molti studiosi dell’innovazione ed esemplificato dal motto “fail often to succeed sooner”. Ha funzionato fintanto che l’ambiente è cambiato rapidamente ma in modo lineare, così che l’apprendimento proveniente da un esperimento potesse essere applicato a quello successivo senza che nel frattempo il contesto cambiasse drasticamente. Il cambiamento che stiamo affrontando ora con il Covid-19 è invece discontinuo e senza precedenti. Se in questo contesto ognuno conduce esperimenti da solo, non c’è tempo sufficiente per ciascun player di analizzare questo spazio inesplorato delle soluzioni e poi ripetere prima che il contesto si evolva di nuovo.

Per innovare nella nuova normalità dobbiamo imparare condividendo. Questa strategia è l’unica in grado di garantire sufficiente margine, velocità e produttività degli esperimenti. Infatti, la condivisione dei dati permette ad una più ampia comunità di player di partecipare agli esperimenti, includendo una gamma più eterogenea di contesti. E la condivisione dei risultati permette di evitare test improduttivi.

L’apprendimento attraverso la condivisione è già praticato nella ricerca scientifica legata al Covid-19. Per esempio, PostEra, una start-up con sede a Santa Clara, California e Londra, sta coordinando un grande progetto di collaborazione, Covid Moonshot, per sviluppare rapidamente farmaci anti-Covid efficaci e facili da produrre. L’obiettivo del progetto è quello di progettare gli inibitori della proteasi principale della SARS-CoV-2 (l’enzima che permette al virus di replicarsi). Il progetto fa leva sui dati condivisi da esperimenti condotti presso un laboratorio delle radiazioni da sincrotrone, Diamond Light Source, il quale ha identificato 80 frammenti di molecole che potrebbero legarsi alla proteasi. Una comunità di scienziati e produttori utilizza questi dati per progettare gli inibitori dei composti, i quali vengono sottoposti attraverso il sito web di PostEra. La start-up esegue poi gli algoritmi di machine learning in background per verificare la presenza di duplicazioni e dare priorità ai candidati per i test. Sono stati presentati più di 3.600 tipi di molecole con solo 32 duplicazioni nei progetti.

L’apprendimento condiviso si sta facendo strada anche nei profit business non collegati al Covid-19. Microsoft ha recentemente lanciato una campagna Open Data. Il movimento Open Data promuove la condivisione dei dati, analogamente a quanto fa Open Source con la condivisione del codice software. Microsoft svilupperà 20 nuove collaborazioni basate su dati condivisi entro il 2022, tra cui, ad esempio, la pubblicazione di un set di dati Microsoft sull’utilizzo della banda larga negli Stati Uniti.
Da notare che l’apprendimento condiviso non implica che player diversi collaborino sulla stessa idea o soluzione, come nei consorzi. Al contrario, le aziende analizzano idee ed esperimenti diversi. Questo permette di esplorare l’intero spazio delle soluzioni. Ciò che viene condiviso, invece, sono i dati che alimentano gli esperimenti, e/o gli approfondimenti e i risultati che essi generano.

L’apprendimento attraverso la condivisione si basa sulla volontà di cooperare. Il che non è facile da realizzare. Soprattutto in un periodo in cui le risorse a disposizione sono scarse. La tentazione è quella di guardarsi dentro e comportarsi in modo ancora più competitivo, per assicurarsi le poche cose rimaste, invece di concentrarsi, in modo collaborativo, sul costruire di più. Di che tipo di cultura e mentalità avranno bisogno i leader dell’innovazione per promuovere l’apprendimento attraverso la condivisione nelle proprie aziende?

Qualunque sarà il futuro, la nuova normalità richiederà un cambiamento fondamentale nel modo in cui creeremo innovazione e guideremo le nostre aziende. Mentre il mantra dell’innovazione dell’era pre-Covid era quello della “disruption” dei concorrenti, questo non è proprio il momento di fare disruption. Questo è piuttosto il momento di ricostruire collettivamente una nuova economia e un nuovo mondo. I veri eroi, nel business e nella società, non saranno i disruptors, ma quei catalizzatori che favoriranno una mentalità cooperativa. Il che, nell’innovazione, significa condividere i dati e gli insegnamenti degli esperimenti condotti da tutti. Le aziende dovranno provare diverse idee in competizione tra loro, ma potranno anche trarre vantaggio dalla condivisione dell’apprendimento, al fine di evitare strade poco promettenti, migliorare la produttività collettiva e costruire rapidamente una nuova società. Il Covid-19 è il momento della verità per i leader: ora possono dimostrare il proprio orientamento autentico a guidare le aziende con determinazione e significato.

Il futuro delle Business School tra innovazione e imprenditorialità

Il contesto in cui competono le business school di tutto il mondo è oggetto di una profonda e rapida trasformazione. La necessità di formazione manageriale sempre più specialistica, la competizione da parte di nuovi attori e, non ultima, la necessità di ridefinire il proprio contributo per la costruzione di un futuro più inclusivo e sostenibile, obbligano un ripensamento dei propri modelli operativi e di business.
Quali sono le trasformazioni da mettere in atto nell’ottica di una maggiore imprenditorialità e capacità innovativa delle business school?

 

Federico Frattini, Dean MIP-Graduate School of Business, Politecnico di Milano

Il contesto in cui competono le business school di tutto il mondo è oggetto di una profonda e rapida trasformazione, che determina la necessità di ripensare profondamente la sostenibilità del modello di business e del modello operativo “classici” delle business school.

Alcuni dei trend che si sono manifestati con più forza nel corso degli ultimi anni sono lo spostamento della domanda di formazione manageriale da programmi di “general management” a programmi “specialistici”, e una competizione sul mercato della formazione manageriale che si sta enormemente accentuando come conseguenza dell’ingresso di nuovi player. Da un lato infatti, le società di consulenza e di executive search stanno espandendo la loro offerta includendo servizi di formazione a sviluppo del capitale umano. Dall’altro, nuovi player “edtech” si stanno prepotentemente affacciando sul mercato della formazione, e i colossi globali della tecnologia (si pensi ad esempio a Microsoft, Google, Amazon) stanno sempre più seriamente considerando il mondo della formazione come una possibile nuova frontiera per sostenere i loro tassi di crescita.
La domanda di servizi di life-long learning sta crescendo rapidamente, anche per effetto della sempre più rapida obsolescenza delle competenze che vengono apprese nei percorsi di formazione manageriale “classici”; le attività extra-curriculari e quella che possiamo chiamare “campus life” stanno assumendo una crescente rilevanza nelle scelte degli studenti; infine, si rileva una “crisi” del valore sociale attribuito alle istituzioni accademiche, che stanno rapidamente perdendo reputazione, specialmente agli occhi delle generazioni più giovani.

Oltre a queste trasformazioni, ve ne sono altre che sono state profondamente accelerate dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus. Da un lato, le business school dovranno ridefinire il loro “purpose” e chiarire il contributo che intendono e sono in grado di dare nella costruzione di un futuro più inclusivo e sostenibile. Dall’altro, non potranno più ritardare l’avvio di un profondo processo di digitalizzazione dei loro processi e delle loro modalità ed approcci didattici.

Rispondere a queste sfide richiede un profondo ripensamento del modello di business delle business school. Alcuni dei cambiamenti più rilevanti che dovrebbero essere attentamente considerati dalla leadership delle business school in tutto il mondo sono i seguenti: da un focus sul trasferimento di competenze “disciplinari” a competenze “trasversali”, tra cui l’imprenditorialità, le digital skills, la sostenibilità, il critical thinking; da modelli di formazione “separata dalla pratica” a formazione “hands-on” e basata su una crescente contaminazione con la pratica manageriale ed imprenditoriale; da approcci alla formazione “uniformi per popolazioni omogenee di studenti”, a formazione “personalizzata”, in ottica “one-to-one”; da formazione “intermittente” e concentrata nel tempo, a formazione “on demand”, e continuamente mescolata all’attività professionale ed alla vita privata degli studenti; da formazione face-to-face vs. digitale, a modelli di formazione “omnicanale”; dal focus sulla produzione di conoscenza attraverso la ricerca ed il suo trasferimento attraverso il proprio portafoglio di prodotti formativi, alla ricerca ed integrazione della conoscenza disponibile al di fuori dei confini della business school (si pensi ad esempio alla disponibilità di contenuti di formazione di alta qualità sulle piattaforme MOOCs – Massive Online Open Courses).

Queste trasformazioni hanno una portata ed un potenziale impatto che spesso si scontrano con la cultura “burocratica” delle business school, con i processi di creazione di consenso che le contraddistinguono, e con i meccanismi di governance che spesso richiedono tempi di approvazione delle decisioni che male si sposano con le condizioni di contesto identificate in precedenza. Diventa quindi fondamentale per la leadership delle business school di tutto il mondo promuovere una trasformazione della cultura organizzativa, dei processi, delle competenze dello staff, e delle strutture organizzative nell’ottica di una maggiore imprenditorialità e capacità innovativa. Questo significa mutuare le soluzioni e gli approcci manageriali che le business school insegnano ai propri allievi ed applicarli nei propri modelli di gestione. Ad esempio, per gestire progetti di innovazione “radicali”, che richiedono profondi cambiamenti alle routine ed ai modelli operativi consolidati (si pensi, ad esempio, al lancio di piattaforme per la formazione a distanza, oppure di servizi di life-long learning abilitati dalle tecnologie digitali), molte business school stanno dando vita a degli spin-off per collocare questi progetti in un contesto organizzativo più agile e imprenditoriale. Molte business school stanno creando delle posizioni all’interno del loro staff di Chief Innovation Officer (CIO), che ha il compito di promuovere un processo di innovazione e trasformazione digitale continuo delle operations e dell’offerta. Si stanno sempre più diffondendo modelli di coopetition tra business school, con l’obiettivo di raggiungere una superiore massa critica e condividere i rischi ed i costi che progetti di innovazione radicale comportano (come ad esempio la messa a punto di innovativi Learning Management Systems).

Molte di queste trasformazioni richiederanno tempo per manifestarsi nel mondo delle business school, ma saranno fondamentali per sostenere la loro competitività nel tempo e garantirne la sopravvivenza.

Tiresia tra i vincitori del premio EIC “Blockchains for social good”

 

Tiresia, il centro di ricerca sull’innovazione, l’imprenditorialità e la finanza sociale della School of Management del Politecnico di Milano, è tra i 6 vincitori del premio della Commissione Europea EIC Horizon “Blockchains for Social Good”, che riceveranno complessivamente 5 milioni di euro per l’applicazione di tecnologie Distributed Ledger per affrontare le maggiori sfide della nostra società.

Mentre il potenziale della tecnologia blockchain è stata testata nell’ambito finanziario, le sue applicazioni in ambito sociale e in relazione alla sostenibilità sono ancora poco sviluppate. L’obiettivo del premio “Blockchains for Social Good” è appunto quello di sostenere gli innovatori e la società civile nell’esplorazione delle possibili applicazioni della tecnologia blockchain per l’innovazione sociale digitale.

Tiresia è partner del consorzio guidato dalla Aalto University (Finlandia) che ha vinto nella categoria “Inclusione finanziaria”, con il progetto GMERITS (Generalised Merits for Respect and Social Equality) che verrà finanziato con un milione di euro.
GMERITS è un esperimento su vasta scala per valutare strutture economiche alternative, analizzando gli schemi di governance più efficaci e i diversi modelli di compensazione.
Il ruolo di Tiresia è quello di indagare l’importanza che i dati e le tecnologie possono giocare in quanto fattori abilitanti della generazione e della gestione dell’impatto. Inoltre sarà ente valutatore dell’impatto sociale generato dalle applicazioni sperimentali all’interno progetto.

Il consorzio comprende anche tre iniziative imprenditoriali social-tech in ambito europeo (REC di Barcelona, Me Sensei di Helsinki e Merits di Milano).

Il premio, lanciato con i fondi dell’Enhanced European Innovation Council (EIC) è parte integrante dell’iniziativa europea Next Generation Internet (NGI) che supporta innovatori, imprenditori, PMI
e ricercatori affinché possano sviluppare le loro idee, grazie a fondi, attività di networking e coaching, ed esplorare le potenzialità del Blockchain in nuove aree di applicazione, in
particolare per individuare soluzioni alle sfide locali e globali di sostenibilità.

COVID-19: I benefici derivanti dai progetti collaborativi

I progetti collaborativi, intesi come lo scambio di dati e informazioni di natura strategica tra partner di business, possono essere un veicolo per garantire continuità operativa in situazioni di emergenza e validi alleati per la ripartenza.

 

Riccardo Mangiaracina, Professore di gestione dei sistemi logistici e produttivi, Responsabile Scientifico Osservatorio Digital B2b
Paola Olivares, Direttore Osservatorio Digital B2b School of Management Politecnico di Milano

Queste settimane di emergenza sanitaria ed economica hanno imposto alle aziende una forte revisione delle più tradizionali modalità di lavoro e alle aziende fornitrici di servizi di mettere in campo strumenti per garantire la continuità operativa dei propri clienti. Tra le iniziative avviate troviamo anche la messa a disposizione di soluzioni in grado di migliorare visibilità e collaborazione con terze parti. Un esempio sono gli strumenti per il monitoraggio della catena di fornitura.
L’Osservatorio Digital B2b della School of Management da 18 anni monitora la diffusione e calcola i benefici dell’eSupply Chain Collaboration che indica lo scambio di informazioni di natura strategica – tipicamente a livello di pianificazione congiunta, monitoraggio della supply chain, sviluppo nuovi prodotti, marketing e comunicazione, gestione della qualità – con l’obiettivo di migliorare l’efficacia dei processi grazie alla condivisione di informazioni e know-how e alla collaborazione nelle fasi decisionali. Solo il 32% delle imprese italiane ha attivato almeno un progetto collaborativo, con una predominanza per le grandi aziende che spesso impongono l’utilizzo del sistema anche al proprio indotto di piccoli attori [1]. La pandemia globale che abbiamo vissuto potrebbe rappresentare un impulso all’adozione di questo tipo di soluzioni.

Nel seguito sono descritti i vantaggi che si potrebbero avere in situazioni di emergenza, i benefici ottenibili in periodi di normalità e un esempio concreto.

I vantaggi in situazioni di emergenza
La trasparenza e la condivisione di dati e informazioni, anche strategiche, può rappresentare in situazioni di emergenza, un veicolo tramite per garantire continuità operativa. Tra i processi potenzialmente gestibili in modo collaborativo, i due con la maggiore utilità in situazioni di emergenza sono il monitoraggio della supply chain e la pianificazione congiunta. Questi infatti permettono:

  • lo scambio di dati relativi a vendite e capacità produttiva;
  • la visibilità sulle giacenze a magazzino e sulla domanda del cliente finale;
  • un rifornimento automatico più frequente.

I benefici in situazioni di normalità
I progetti collaborativi possono contribuire significativamente alla marginalità e alla competitività di un’impresa e dei propri partner di business in situazioni di normalità. I benefici possono essere di due tipi:

  • tangibili, riconducibili alla sfera dell’efficienza (es. riduzione dei costi operativi);
  • intangibili, riguardanti un aumento del livello di servizio con un conseguente miglioramento dell’immagine dell’azienda e un incremento della fedeltà dei clienti, un incremento della visibilità e quindi della capacità di reazione di fronte a eventi imprevisti e un miglioramento della qualità delle informazioni circolanti in azienda.

È importante tener presente che, per la corretta ed efficace realizzazione di tutti i progetti collaborativi, è necessario agire sulla leva del change management, attraverso formazione e meccanismi di incentivazione per i dipendenti dell’azienda, occorre un alto commitment, una chiara definizione della strategia da seguire, un corretto coinvolgimento degli attori interni ed esterni all’organizzazione e un uso sapiente degli strumenti tecnologici.

Un esempio concreto
Il rifornimento dei punti vendita della grande distribuzione e quindi il fenomeno dell’out of stock (indisponibilità dei prodotti a scaffale) è stato uno dei principali problemi vissuti durante l’emergenza Covid-19. Le cause tipiche dell’out of stock sono riconducibili in un’inefficienza nella pianificazione degli ordini o nel processo di rifornimento dello scaffale, in problemi del produttore o dei centri distributivi o in una inaccuratezza nella gestione del magazzino. In questa circostanza la causa scatenante è stata però la domanda imprevista e incontrollabile.

Un progetto concreto, particolarmente utile, è l’Optimal Shelf Availability (OSA). Applicato al settore del largo consumo, misura e analizza le cause dell’out of stock per garantire la disponibilità dei prodotti a scaffale e aumentare il livello di servizio. Il produttore e il retailer collaborano scambiandosi quotidianamente i dati di sell-out e il livello delle scorte per ogni codice articolo, producendo degli alert in caso di problemi e identificando in modo congiunto azioni correttive volte a ridurre l’out of stock del punto vendita. Il progetto – la cui implementazione produce una riduzione consistente dei costi di stock-out e di mantenimento a scorta quantificabili in risparmi del 19% per il produttore, del 2,5% per il retailer e del 12% per la coppia di attori – può essere estremamente utile nella gestione dell’emergenza. Permette infatti di coinvolgere il produttore in fasi tipicamente in capo al retailer, come la gestione delle scorte e il loro monitoraggio, aumentando la visibilità sulla filiera e migliorando la pianificazione e il rifornimento.

 

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[1] Per i risultati completi della Ricerca, “Digitalizzare per (r)esistere” disponibile su www.osservatori.net

Amazon Innovation Award 2020 – PrimePeerz, un progetto innovativo e sostenibile

Sono cinque studenti del secondo anno della magistrale in Management Engineering, ad aggiudicarsi il primo premio dell’Amazon Innovation Award 2020, con il progretto PrimePeerz.
Giorgio Damuzzo, Nicola De Giusti, Simona Esposito, Fulvio Gargiulo e Romain Lerouge, hanno affrontato il concorso come progetto integrativo nel corso di Logistics Management tenuto dai professori Alessandro Perego e Riccardo Mangiaracina, confrontandosi con altri 300 studenti provenienti da atenei italiani e francesi.

I giovani si sono cimentati sul tema della sostenibilità: è stato chiesto loro di ideare una soluzione innovativa per i processi di prelevamento dei prodotti, impacchettamento, spedizione e dei resi, che fosse il più efficiente possibile e al tempo stesso consentisse l’abbattimento delle emissioni di CO2, tema molto forte per Amazon in questo momento.

L’idea del team si focalizza sulla consegna “dell’ultimo miglio”: parte dal concetto di economia relazionale degli esseri umani, con l’intento di sfruttare i legami sociali esistenti tra la vasta base di clienti Amazon, al fine di ridurre l’impatto ambientale dell’azienda.
PrimePeerz mira a costituire ulteriori punti di consolidamento nella rete logistica downstream, attraverso la possibile aggregazione di ordini di clienti che presentano un legame tra loro, consentendo di ridurre il numero di spedizioni, i conseguenti costi di trasporto ed emissioni di gas serra.

Siamo molto contenti per la vittoria perché dimostra che siamo riusciti a catturare sia l’interesse accademico che il riconoscimento da parte di Amazon, e per noi questo significa aver ragionato nel modo giusto.”

Il premio, rimandato a causa dell’epidemia in corso, prevede un viaggio a Seattle, dove i nostri studenti presenteranno la loro idea ai manager nel quartier generale di Amazon.

Amazon ha selezionato il loro progetto per rappresentare il Politecnico di Milano alle finali nazionali, in competizione con gli atenei del Politecnico di Torino e Roma Tor Vergata. Nella finale, tenutasi lo scorso 17 aprile in via telematica, Amazon ha quindi decretato il loro progetto come vincitore del contest.

È stato un peccato per noi non poter celebrare la vittoria tutti insieme fisicamente e poterci confrontare con i referenti di Amazon in prima persona. La nostra speranza è quella di realizzare il nostro sogno e partire per gli headquarters di Amazon a Seattle, una volta terminate le misure di contenimento sanitarie.