Smart Working: il punto di vista del Direttore HR

Con circa 480 000 smart worker in Italia, il lavoro agile è un tema che interessa moltissime aziende. Il MIP non fa eccezione e, infatti, da qualche mese ha dato il via a un progetto di Lavoro Agile aperto a tutti i dipendenti. Ne abbiamo parlato con il responsabile delle Risorse Umane Gianvincenzo Scarpa.  

 

Che cos’è per te lo smartworking?

Per me non si tratta “solo” di lavorare da casa, ma piuttosto del primo passo di una rivoluzione che sta interessando ormai da anni la concezione tradizionale del posto di lavoro.
Per tanto tempo, ci si è recati in fabbrica cinque giorni alla settimana: la presenza sul luogo di lavoro era una necessità, la gerarchia regnava sovrana e tutti i dipendenti erano costretti a timbrare il cartellino.

Oggi, questo modello “tradizionale”, in gran parte dei contesti aziendali, può essere superato grazie alla tecnologia digitale, che è diventata regina di una nuova idea di ufficio e permette di gestire in modo ottimale sia le attività che rapporti con i colleghi.
Smart working per me è anche una sfida: è compito della Direzione HR, insieme ai responsabili d’area, aiutare i dipendenti a superare alcune criticità che comunque esistono, come per esempio la sensazione di isolamento rispetto ai colleghi, alle attività e alla vita d’ufficio, incentivando le persone a sfruttare appieno tutte le opportunità che la tecnologia offre e che una società mette a disposizione.

 

Puoi spiegarci come mai il MIP ha intrapreso la strada del Lavoro Agile?

I motivi che ci hanno spinti verso lo smart working sono tre: un migliore work-life balance, un impatto positivo in termini di sostenibilità ambientale e anche una maggiore responsabilizzazione delle persone verso i risultati.

Al MIP c’era già un’attenzione verso il work-life balance, declinata in termini di una flessibilità di orario molto estesa. A questa abbiamo deciso di unire anche una flessibilità di luogo.
Prima di imboccare questa strada abbiamo fatto un’analisi dalla quale è emerso che il 70% dei dipendenti raggiunge il luogo di lavoro con i mezzi pubblici e che il 40% impiega in media 45 minuti per arrivare al MIP.
Abbiamo ritenuto che guadagnare complessivamente tra i 60 e i 90 minuti del proprio tempo potesse avere degli effetti molto positivi anche sulla produttività. Peraltro, secondo le ultime ricerche una gran parte dei lavoratori – soprattutto tra i più giovani – è disposta ad accettare una retribuzione minore in cambio di politiche di lavoro agile. Sostanzialmente, torniamo al tema che la felicità non è tanto una questione di denaro, quanto di tempo a disposizione.

 

Hai già menzionato l’influsso positivo su retention e soddisfazione dei dipendenti. Quali sono gli altri vantaggi per l’azienda?

Lo smart working incrementa la fiducia delle persone, incidendo positivamente sia sull’engagement che sulla motivazione. Queste sono anche le basi per una buona performance da parte dei dipendenti e, quindi, di riflesso, anche dell’azienda.
Migliore motivazione significa anche maggiore retention, diminuzione dell’assenteismo ed aumento della produttività. Questo perché le risorse, grazie alla fiducia avvertita e che viene riposta, si sentono maggiormente responsabili del raggiungimento dei risultati.

 

Qual è invece la tua esperienza di smart worker?

Sicuramente ne apprezzo i reali vantaggi: abitando a 30 km da Milano ne sperimento la sostenibilità a livello ambientale e il risparmio di tempo. Guadagno infatti quasi due ore, che vanno a vantaggio della mia vita familiare.
Per molte persone – al MIP ci sono tante mamme – poter avere il tempo di accompagnare i figli a scuola anche solo una volta alla settimana fa la differenza.

L’impatto positivo non è solo nella sfera privata, ma anche in quella professionale. Organizzo il lavoro in modo da dedicare la giornata di smart working a quelle attività che richiedono molta concentrazione e/o sono particolarmente time-consuming. Si sa, in ufficio il tempo si dilata, a causa di quelle normalissime interruzioni da parte dei colleghi che fanno parte del lavoro quotidiano… A casa, invece, è più facile che il tempo stimato per completare un’attività diventi quello effettivo.
Tutto questo è possibile perché c’è una pianificazione a monte. Altrimenti, c’è il rischio di vivere la giornata di smart working come un impedimento, concentrando negli altri giorni tutte le attività che richiedono la presenza in sede.
L’esperienza è positiva, in linea con le nostre prime survey, che mostrano grande soddisfazione sia da parte degli smart worker che da parte dei responsabili.

 

Fino ad ora abbiamo parlato delle opportunità, ma tornando anche a quello che hai detto in apertura, ci sono delle sfide da affrontare. In particolare cosa cambia nella gestione delle risorse umane e nel rapporto con i responsabili d’area?

Effettivamente, cambia tanto. La direzione HR ed i cosiddetti manager gestori di risorse devono essere allineati e condividere una visione strategica. Sono i responsabili d’area infatti ad essere coinvolti in prima persona nella buona riuscita del progetto e sta alle Risorse Umane supportarli nella modifica dei propri stili di leadership.
L’obiettivo è quello di passare da un modello costruito sul controllo e la supervisione ad uno basato sul raggiungimento – anche in autonomia – dei risultati. Nei posti di lavoro di nuova generazione i risultati sono più importanti delle apparenze.
Un altro degli aspetti fondamentali è l’empowerment delle risorse. È importante coinvolgere i collaboratori nelle decisioni, responsabilizzandoli e stimolandoli a proporre miglioramenti delle modalità di organizzazione del lavoro.
Perché questo accada, HR e responsabili d’area devono lavorare insieme, in modo che ci siano allineamento e coerenza a livello di visione e strategia.

Un’altra sfida è invece a livello di cultura aziendale. Questo progetto, infatti, coinvolge persone con seniority diverse, appartenenti a generazioni diverse con idee differenti sul modo di lavorare e con una percezione diversa della tecnologia e delle sue potenzialità. Se per un Millennial è naturale sfruttare appieno la tecnologia anche sul luogo di lavoro, esattamente come fa al di fuori dell’ufficio, per una persona abituata a muoversi in un mondo analogico, può essere meno immediato abbracciare un nuovo modo di lavorare basato sulla condivisione e sugli obiettivi.

Ecco perché i modelli di funzionamento basati su comando e controllo devono lasciare il campo a forme di collaborazione più condivise e digitali.

 

Come hai sottolineato, gli attori coinvolti in questo progetto sono sia i responsabili che lo staff. Che consigli ti sentiresti di dare agli uni e agli altri per cogliere tutte le opportunità dello smartworking?

Secondo me l’unica strada per vivere tutte le dimensioni dello smart working – non solo quella del lavoro da casa – è rimettersi in gioco.
Spero che le persone sentano la necessità di mettere in discussione i canovacci del lavoro tradizionale, anche se sono abituati a lavorare in un certo modo da dieci o quindici anni.
Per apprezzare a pieno le potenzialità del lavoro agile non basta un pc: bisogna sfruttare tutte le piattaforme messe a disposizione dell’azienda, in modo da essere il più possibile integrati nelle attività dell’ufficio.

Ai responsabili più scettici che faticano a pensare che una propria risorsa stia lavorando proficuamente in una location diversa dall’ufficio, ricordo che a valle di una corretta pianificazione e condivisione degli obiettivi, i dipendenti sanno cosa stanno facendo e dovranno rispondere in caso di scadenze non rispettate o peggio ancora obiettivi non raggiunti. È evidente che in questi casi il problema non è la flessibilità che permette di lavorare da remoto, bensì il dipendente stesso che non soddisfa le aspettative dell’azienda.

 

Per concludere, guardando al futuro cosa vedi?

Lo smart working non deve essere un punto di arrivo, ma il primo passo di una rivoluzione, il punto di partenza per altre trasformazioni del workplace.
Tante aziende, per esempio, hanno rivoluzionato gli spazi, rendendoli più aperti e condivisibili. Oggi infatti il lavoro per “compartimenti stagni” è superato e molte persone di differenti team lavorano insieme su progetti in modo trasversale.
In questo momento al MIP non siamo ancora a buon punto di quel cambiamento culturale: per esempio, la zona ricreativa che abbiamo creato per i dipendenti, non è molto sfruttata. Non c’è ancora l’idea che una breve partita a ping pong possa risolvere un momento di empasse lavorativa. Non è vista come l’occasione per recuperare magari concentrazione, e quindi produttività, ma come una distrazione dalle proprie mansioni. Così come, dalle ultime analisi, ancora non stiamo sfruttando a pieno regime tutte la tecnologia digitale che abbiamo a disposizione.
Oggi sarebbe azzardato portare avanti dei nuovi cambiamenti ai quali non siamo ancora pronti. Lo smartworking è il primo passo: in caso di riscontri positivi potremo continuare a cavalcare l’onda di cambiamento che sta investendo il cosiddetto workplace.

IL POLITECNICO TRA LE PRIME 20 UNIVERSITÀ AL MONDO PER IL QS BY SUBJECT 2019

NELL’AUTOREVOLE CLASSIFICA, POLITECNICO CONFERMA ECCELLENZA IN INGEGNERIA, ARCHITETTURA E DESIGN

Per il QS World University Rankings 2019, il Politecnico di Milano è il 16° ateneo al mondo nella categoria Engineering & Technology – guadagnando una posizione rispetto allo storico risultato dell’anno scorso – l’11° in Architettura e il 6° in Design.

L’eccezionale risultato dell’Ateneo, in particolare nell’area dell’Ingegneria, se analizzato in dettaglio rivela un altro primato: in Civil & Structural Engineering è 7° al mondo (guadagnando due posizioni rispetto al 2018), così come in Mechanical, Aeronautical & Manufacturing Engineering (17° lo scorso anno).

L’ottimo piazzamento internazionale premia l’impegno dell’ateneo nel confermarsi polo d’attrazione per studenti, ricercatori e docenti qualificati da tutto il mondo. In una categoria estremamente competitiva come quella di “Engineering & Technology”, il Politecnico di Milano sta avvicinandosi a piccoli passi alla top 10 mondiale dove regnano realtà del calibro di MIT, Stanford e Cambridge e gli agguerriti poli tecnologici dell’estremo oriente.

Nel panorama italiano, il Politecnico di Milano si conferma primo assoluto sia in Ingegneria che in Architettura e Design.

QS World University Rankings è una delle più citate e autorevoli classifiche di università internazionali, progettata principalmente per i futuri studenti stranieri e pubblicata annualmente.

Per produrre la classifica 2019, QS ha preso in considerazione 1.222 università analizzando 48 materie divise in 5 macro aree.

Manifattura 4.0: al centro c’è l’uomo

Il futuro del manifatturiero è digitale e passa dalla Quarta Rivoluzione Industriale. Le piccole e medie imprese, al pari delle grandi, devono attrezzarsi per non restare irrimediabilmente indietro. Eppure, in modo solo all’apparenza paradossale, l’Industria 4.0 rilancia la centralità dell’uomo e di temi quali la formazione e l’inclusione sociale.

Non è esagerato dire che proprio dal settore manifatturiero passano i futuri equilibri del mondo. Ne è convinto Marco Taisch, docente di Advanced and Sustainable Manufacturing presso la School of Management del Politecnico di Milano: «Il manifatturiero avrà in futuro un vero e proprio ruolo di peacekeeper. Grazie alla sua evoluzione e alla sua diffusione, assisteremo a una diminuzione dei fenomeni migratori e all’aumento dei livelli di benessere. In altri termini, godremo di una maggiore stabilità sociale, che deriva anche dalla ricaduta indotta che il manifatturiero ha su altri settori dell’economia; ad esempio, per ogni euro generato dal manifatturiero se ne generano circa almeno due nel settore dei servizi a esso correlato. A patto, ovviamente, di introdurre gradualmente le competenze necessarie, senza le quali è impensabile una sostenibilità a tutti i livelli».

Nel corso del World Manufacturing Forum 2018, Marco Taisch, chairman scientifico, ha presentato un report contenente dieci raccomandazioni per il futuro del manifatturiero. Il tema delle competenze e della formazione è uno di quelli ritenuti più importanti: «Bisogna investire nelle persone, oltre che nelle tecnologie. La formazione ha un impatto più che lineare: senza di essa le tecnologie non possono dispiegare il loro pieno potenziale». Attenzione, però. A differenza di altri settori il manifatturiero ha bisogno soprattutto di skill specifiche: «La trasversalità delle competenze è sempre utile, ma in questo caso le skill digital e hard pesano di più rispetto a quanto accade in altri settori».

Proprio per questo c’è bisogno di un cambio di passo nel mondo della formazione. Se da una parte gli analisti sono concordi nel prevedere che la Quarta Rivoluzione Industriale determinerà un saldo occupazionale negativo nel breve periodo, dall’altra il professor Taisch afferma che la situazione si ribalterà in positivo a medio-lungo termine: «A patto, però, che cambi anche il modo di comunicare il manifatturiero, un settore ancora associato a un’immagine ‘sporca’, che spaventa le famiglie e spinge i giovani a intraprendere percorsi di studio che poi non trovano sbocco nel mercato».

Gli atenei si stanno attrezzando. La School of Management del Politecnico di Milano, ad esempio, offre un percorso executive in Manufacturing Management che ha l’obiettivo di far comprendere meglio le potenzialità di un manufacturing del futuro nuovo, avanzato, intelligente e sostenibile e introdurre gli elementi costituenti della moderna rivoluzione industriale.

Un’opportunità da cogliere, dunque. Anche adottando l’ottica dell’inclusività e della diversity: «Per lungo tempo il manifatturiero è stato appannaggio del genere maschile, per banali questioni di forza fisica – prosegue Taisch –. Le tecnologie 4.0 spostano il baricentro dal muscolo al cervello, e quindi maggiormente verso la donna. Sono poi personalmente convinto, e con me tanti altri esperti, che l’impresa possa trarre un grande vantaggio dall’assunzione di individualità diverse per genere, religione, etnia. È una questione di competitività, oltre che di etica».

I timori, d’altra parte, non mancano, e spesso sono espressi proprio dalle aziende e da chi è già inserito nel circuito lavorativo, spaventato dall’idea che una macchina possa estrometterlo dal processo produttivo: «In realtà non è così. Le tecnologie 4.0 sono abilitanti. Non sono alternative all’uomo, ma ne aumentano le capacità e la produttività, valorizzandolo ulteriormente», spiega il professor Taisch.

Un altro elemento che determina diffidenza, soprattutto nelle PMI, è la cybersecurity: «Il cloud spaventa. Molte aziende si chiedono: ‘Dove sono i miei dati?’. Il timore nasce prima di tutto da una mancanza di comprensione, e in seconda battuta dalla sovrastima di alcuni rischi che le tecnologie in effetti comportano. Le aziende perdono dati molto più spesso per un backup errato, che per colpa del cloud. La verità è che un’azienda che si pone al di fuori della Rete è destinata a sparire nel giro di pochi anni, e che oggi i dati vanno considerati a tutti gli effetti come una materia prima».

Quali lavori sopravviveranno all’Intelligenza Artificiale

Vogliamo portare l’intelligenza in ogni cosa, dappertutto, e per chiunque”. L’ha detto Satya Nadella, Ceo di Microsoft, azienda che ha recentemente lanciato la chatbot “Zo” in grado di costruire sofisticati colloqui uomo-macchina. Ed è proprio attraverso strumenti di intelligenza artificiale (IA) di Microsoft che la School of Management del Politecnico di Milano ha sviluppato FLEXA, innovativa e rivoluzionaria piattaforma digitale di personalised e continuous learning, un digital mentor in grado di individuare e selezionare specifici contenuti, utili per il percorso di studi di ciascun utente.

«Questo progetto, ma il discorso vale in generale per l’Intelligenza Artificiale, è partito da una consapevolezza: avevamo individuato determinate necessità e la tecnologia poteva aiutarci a soddisfarle – racconta Federico Frattini, Associate Dean of Digital Transformation di MIP Politecnico di Milano nonché ideatore di FLEXA –. Nello specifico, gli studenti dei nostri master volevano conoscersi meglio, anche in un’ottica comparativa, per poi intraprendere percorsi di formazione ad hoc, mentre i nostri Alumni, gli ex studenti, ci chiedevano soluzioni efficaci di continuous learning. Abbiamo ragionato sulla base di questi input e il risultato è stato FLEXA: su questa piattaforma è possibile effettuare un assessment delle proprie soft, hard e digital skill e dichiarare le proprie ambizioni di carriera; una volta elaborate queste informazioni, FLEXA fornisce tutte le indicazioni per colmare questi skill gap attraverso eventi, corsi e percorsi di formazione individuati sulla base delle necessità indicate. E non si tratta solo di contenuti del Politecnico di Milano: abbiamo accordi con Gartner, New York Times, Financial Times, MIT e tante altre realtà prestigiose. Con FLEXA, inoltre, sarà possibile farsi raccomandare un mentor, creare un sistema di matching con il mondo delle startup e con quello delle imprese, creare nuovi contenuti».

È comprensibilmente acceso il dibattito sull’impatto che l’intelligenza artificiale avrà sull’occupazione. Oltre che nei lavori più meccanici e ripetitivi, come quelli svolti dagli operai alla catena di montaggio e alla guida delle auto, e ad alcune attività nella ristorazione e nei supermercati, l’automazione sta entrando anche nel campo dei servizi. Secondo alcuni studi, per esempio, entro il 2030 non ci saranno più call center “umani”, mentre in Giappone molti robot sono già operativi nell’assistenza agli anziani.

Per contro, l’intelligenza artificiale ha dei limiti che in molti casi le impediscono di sostituirsi al lavoro umano, e al contempo è ancora forse sottovalutato il ruolo che la tecnologia può avere per affiancare e rafforzare l’uomo nell’esercizio di alcune delle sue attività più qualificate. Il cinese Kai-Fu Lee, noto esperto di intelligenza artificiale, imprenditore proprio in questo settore e autore del recente volume AI Superpowers: China, Silicon Valley, and the New World Order, individua quattro debolezze dell’IA nella performance lavorativa:

  1. l’IA non può creare, concettualizzare o gestire una pianificazione strategica complessa;
  2. l’IA non può svolgere lavori complessi che richiedono una precisa coordinazione di mani e occhi;
  3.  l’IA non può far fronte a spazi sconosciuti e non strutturati, specialmente quelli che non ha precedentemente osservato;
  4.  l’IA, diversamente dagli umani, non può interagire con empatia e compassione (intesa come sensibilità), e quindi è improbabile che gli umani optino di interagire con un robot apatico per i tradizionali servizi di comunicazione.

Data questa premessa, Kai-Fu Lee stila una lista di dieci professioni che saranno immuni dall’invasione robotica, almeno nei prossimi 15 anni: psichiatria, terapia fisica, medicina, ricerca e ingegneristica nel campo dell’intelligenza artificiale, scrittura di fiction, insegnamento, avvocatura, scienza e ingegneristica nel campo dei computer, scienza, management. In tutte queste professioni l’IA potrà essere di aiuto, ma solo in senso collaborativo per la gestione di certi dettagli tecnici.

“Non vi è alcun dubbio che la rivoluzione dell’intelligenza artificiale richiederà aggiustamenti e una grande dose di sacrifici” afferma Kai-Fu Lee, “ma disperarsi invece che prepararsi per ciò che è in arrivo è improduttivo e, forse, pure incauto”. E poi aggiunge: “Dobbiamo ricordarci che la nostra capacità umana di avere compassione ed empatia sarà un bene prezioso per la forza lavoro del futuro, e che le attività che dipendono dalla cura, dalla creatività e dall’istruzione rimarranno vitali per la nostra società”.

«Io credo che il miglior modo per avvicinarsi all’intelligenza artificiale sia ricondurla alle teorie che spiegano l’innovazione e l’imprenditorialità – conclude Federico Frattini –. Possiamo definirla come un acceleratore dei processi di distruzione creatrice determinati dall’innovazione digitale, prendendo spunto da ciò che sosteneva l’economista austriaco Joseph Schumpeter quasi un secolo fa a proposito dei grandi cambiamenti che hanno avuto un impatto sull’economia e sulla società: si creano nuove opportunità, nascono nuove aziende e nuove professionalità, altre evolvono e altre ancora, inevitabilmente, spariscono. Non possiamo certo opporci alle forze creative che hanno cambiato la società nel corso dei secoli».

Il Politecnico si aggiudica la vittoria della CFA Research Challenge

Il Politecnico ha vinto la finale italiana della CFA Research Challenge 2019, la competizione mondiale di finanza targata CFA Institute e promossa da FactSet, Fidelity International e PwC.
Gli studenti di Ingegneria Gestionale Paolo Farfalletti Casati, Valentina Zanni, Giovanni Righi, Giacomo Ferrari e Andrea Monteduro, sotto la guida dei docenti Marco Giorgino e Laura Grassi e del mentor CFA Daniele Zujani, hanno presentato il loro studio a una giuria di sei esperti del settore finanziario: Domenico Ghilotti (Equita Sim), Marco Greco (Value Track), Nicola Madureri (PwC Italy), Angelo Meda, CFA (CIPM Banor Sim), Marco Mossetti, CFA (Eurizon Capital SGR), Pinuccia Parini (AIFO Advisory).

Alla fase italiana, coordinata da CFA Society Italy, oltre al Politecnico di Milano hanno partecipato i team rappresentanti di Università Cattolica, Ca’ Foscari di Venezia, Università di Modena e Reggio Emilia, Libera Università di Bolzano, Università di Pavia, Università Politecnica delle Marche e Università di Napoli Federico II.

“Attraverso lavoro, dedizione e tanto impegno abbiamo raggiunto questo incredibile risultato”. Queste le prime dichiarazioni a caldo del team dopo la proclamazione. “In questi mesi, il consiglio migliore che abbiamo ricevuto è stato “divertitevi” da parte della nostra professoressa Laura Grassi. In effetti, sempre con il sorriso abbiamo affrontato questa sfida e siamo arrivati alla vittoria che ci ha reso estremamente fieri e felici”.

Questo è un riconoscimento che ci rende molto orgogliosi. La competizione organizzata da CFA Institute è un ottimo modo per avvicinare gli studenti a un’esperienza lavorativa sfidante, in un contesto avvincente dove determinazione, passione e divertimento sono stati la chiave di un successo più che meritato per i nostri ragazzi”. Ha dichiarato Marco Giorgino, Professore Ordinario di finanza e di risk management della School of Management del Politecnico di Milano. “Ancora una volta il Politecnico di Milano si aggiudica, a livello nazionale, la CFA Research Challenge a conferma di come sia elevato il livello di preparazione che è possibile raggiungere, su temi di finanza aziendale e di finanza dei mercati, studiando Ingegneria Gestionale al Politecnico di Milano”.

Il team proseguirà direttamente per la finale regionale EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa), che si terrà il prossimo 10 e 11 aprile 2019 a Zurigo. La finale mondiale, invece, si disputerà il 25 aprile 2019 a New York, mettendo a confronto i vincitori di EMEA, America e Asia Pacifico.

 

 

Mini-bond, il mercato si consolida. Ancora in aumento il numero delle emissioni, scende la raccolta complessiva

School of Management Politecnico di Milano, presentata la 5° edizione del Report italiano sui mini-bond, che si confermano fonte di finanziamento alternativa e complementare al credito bancario. Diminuisce il valore medio dei collocamenti, salgono le Srl emittenti

Il mercato dei mini-bond continua a rafforzarsi: anche nel 2018 infatti è cresciuto il numero delle emissioni, benché si sia ridotto il controvalore raccolto, a causa della diminuzione del valore medio dei collocamenti. Sono i risultati a cui è giunto il 5° Report italiano sui mini-bond redatto dall’omonimo Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano e presentato oggi.

Dal novembre 2012 allo scorso dicembre sono salite a 746 in totale le emissioni di mini-bond (in gran parte obbligazioni) effettuate dalle imprese del campione, per un valore di 25,2 miliardi di euro 4,6 considerando solo quelle fatte da PMI, 4,9 analizzando le 636 sotto i 50 milioni. Il 2018 ha contribuito con 198 emissioni, in aumento rispetto alle 170 del 2017, ma con un controvalore di 4,3 miliardi di euro che risulta in calo (era di 5,5) a causa del valore medio delle emissioni, sceso al minimo storico: 22,40 milioni di euro (contro 45) nel secondo semestre, 20,85 nel primo.

 

Sotto la taglia dei 50 milioni troviamo 159 emissioni, pari a 1,3 miliardi di euro. La raccolta effettuata dalle sole PMI si è dimezzata – 668 milioni contro 1,4 miliardi – mentre le emittenti sono aumentate: 176 (di cui ben 123 “debuttanti”) rispetto alle 137 del 2017. A fine 2018 il mercato ExtraMOT PRO gestito da Borsa Italiana, il listino più ‘adatto’ per i mini-bond italiani, ha raggiunto i 207 titoli quotati, il valore più alto mai visto.

“Per il 2019 le aspettative sono più conservative rispetto al passato – commenta Giancarlo Giudici, Direttore scientifico dell’Osservatorio Mini-Bond della School of Management del Politecnico di Milanoa causa dei primi segnali negativi provenienti dal ciclo economico, dell’incertezza sulle politiche di sviluppo interne e della possibile concorrenza delle operazioni di direct lending che si vanno diffondendo sul mercato. I volumi del 2019 saranno dunque abbastanza simili a quelli del 2018. Ci auguriamo che gli ELTIF riescano dove i PIR non sono riusciti, cioè nel canalizzare risorse verso le PMI”.

I mini-bond – intesi come titoli di debito emessi da società italiane non finanziarie, in particolare società di capitale o cooperative di importo inferiore a 500 milioni di euro non quotate su listini aperti agli investitori retail – si confermano comunque come una fonte di finanziamento alternativa e complementare al credito bancario, soprattutto in preparazione a successive operazioni con investitori istituzionali più complesse come il private equity o la quotazione in Borsa.

Si registrano novità nella normativa di riferimento che riguardano la disciplina sulle cartolarizzazioni, i PIR e la possibilità per i portali autorizzati di equity crowdfunding di collocare mini-bond a investitori professionali. Gli attori che hanno sottoscritto i mini-bond di taglia inferiore ai 50 milioni si confermano essere i fondi chiusi di private debt (il 26% degli investimenti rispetto al campione) e gli investitori esteri (25%). Ancora in aumento il ruolo delle banche nazionali (21%) e delle assicurazioni (9%), che però sottoscrivono poche operazioni di maggiore dimensione. Le finanziarie regionali sono passate dal 6 al 4%, Confidi dall’1 al 3.

Le imprese emittenti

La ricerca ha identificato 498 imprese italiane, di cui 260 PMI, che dal 2012 al 31 dicembre 2018 avevano collocato mini-bond (a fine 2017 erano 326). L’ultimo anno ha contribuito con 176 emittenti, di cui 123 affacciatesi sul mercato per la prima volta e 42 con un fatturato inferiore ai 10 milioni di euro prima del collocamento, mentre la fascia più numerosa ha ricavi compresi fra 100 e 500 milioni. Più che raddoppiate le Srl, da 21 a 45.

Per quanto riguarda il settore di attività, si conferma la netta supremazia del comparto manifatturiero (41%), pur con un aumento nei segmenti meno rappresentati in passato. La collocazione geografica evidenzia come sempre una netta prevalenza delle regioni del Nord: domina la Lombardia con ben 50 emittenti (il 28% su scala nazionale), crescono il Piemonte e le regioni del Sud, scende il Trentino-Alto Adige.

Rispetto alle motivazioni del collocamento, si conferma come dominante l’obiettivo di finanziare la crescita interna dell’azienda (56% dei casi, soprattutto per le PMI), seguono la necessità di ristrutturare le passività dell’impresa (soprattutto per le grandi), le strategie di crescita esterna tramite acquisizioni e il fabbisogno di alimentare il ciclo di cassa del capitale circolante.

“L’analisi dei bilanci consolidati focalizzata sulle 244 PMI non finanziarie emittenti – commenta Giudici – mostra situazioni abbastanza diversificate, con 28 imprese che hanno EBITDA negativo al momento del collocamento. La redditività appare contenuta e in media si riscontra un buon aumento del fatturato già prima dell’emissione, ma per circa un quarto delle aziende non si registrano variazioni significative. Non vi è evidenza quindi di un rapporto di causa-effetto fra emissione del mini-bond e crescita del volume d’affari. Piuttosto, per un buon numero di PMI il mini-bond rappresenta una tappa in un percorso di crescita che inizia ben prima e che prevede una serie di passi importanti, predefiniti”.

Dettagli sulle emissioni

Il 54% delle emissioni totali è sotto la soglia dei 5 milioni di euro e nel 2018 la percentuale è salita addirittura al 60%. Fra tutti i mini-bond, il 44% è stato quotato su ExtraMOT PRO, ma nel 2018 la percentuale è scesa al 27%. Cresce il numero di emissioni quotate all’estero (12%). La durata media del 2018 è 5,2 anni, in leggero aumento rispetto ai 4,9 anni del 2017.

Il 50,5% prevede il rimborso del titolo alla scadenza (bullet), ma nelle emissioni a lungo termine e in quelle sotto i 50 milioni è relativamente più frequente la modalità amortizing, con un rimborso graduale fino alla scadenza. La cedola in genere è fissa (valore medio 5,1%, mediano 5%), ma nel 2018 è aumentata la frequenza di quella variabile. Per la prima volta si riscontra un lieve aumento del tasso di interesse (5% di media contro 4,83%).

I mini-bond del campione sono associati a un rating da agenzie autorizzate nel 30% dei casi (di cui il 17% ‘pubblico’, distribuito quasi equamente fra investment grade e speculative grade mentre il 13% è unsolicited o undisclosed). Il ricorso al rating è calato ancora nel 2018 (solo il 22% delle emissioni l’ha ottenuto) ed è riscontrato soprattutto fra le grandi imprese e per le emissioni sopra i 50 milioni. La presenza di una garanzia sul rimborso del capitale, a dare maggiore sicurezza agli investitori, è sensibilmente aumentata nel 2018: 38% dei casi nel 2018 rispetto al 29% dell’intero campione.

 

Polisocial Award 2018

Città e Comunità Smart in Africa, questo il tema dei progetti di cooperazione e sviluppo che sono stati premiati all’interno della competizione Polisocial Award 2018, la quinta edizione della competizione che sostiene i progetti di ricerca ad alto contenuto sociale del Politecnico di Milano, finanziati con il contributo del 5 per mille IRPEF destinato all’Ateneo milanese.

Eritrea, Mozambico e Somalia sono in paesi in cui diversi percorsi di ricerca multidisciplinare hanno identificato piani di sviluppo locale e tra i quattro progetti premiati, due vedono la partecipazione del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, parte della School of Management del Politecnico.

In Mozambico, il progetto SAFARI NJEMA | From informal mobility to mobility policies through big data analysis si focalizza sullo sviluppo di sistemi di mobilità.

La mobilità in Africa spesso non viene considerata tra i problemi prioritari; ancor più spesso non è nota la pessima situazione nei grandi centri urbani: i mezzi pubblici sono scarsi o inesistenti, la maggior parte dei privati non possiede un mezzo, il che porta le persone a creare ed appoggiarsi ad un sistema informale di mobilità condivisa. Ma il sistema è poco organizzato, lento, rischioso e rende difficile spostamenti anche brevi e necessari per accedere a scuole e luoghi di lavoro.

L’obiettivo di SAFARI è contribuire al miglioramento della gestione della mobilità nelle grandi città africane. Attraverso l’uso di strumenti di analytics, come le informazioni offerte dall’utilizzo della telefonia mobile, SAFARI studierà lo stato attuale della mobilità, con focus su Maputo, e proporrà un piano di sviluppo place-based e bottom-up della mobilità.

“Il Dipartimento di Ingegneria Gestionale contribuisce a definire un sistema di misura delle performance profilato sulle città africane” – spiega la prof.ssa Michela Arnaboldi, docente di Accounting, Finance and Control e project manager del progetto – “che consente di confrontare soluzioni alternative e definire come le diverse opzioni migliorano i fattori critici, quali il tempo e la sicurezza negli spostamenti”.

Un modello di sviluppo integrato per Mogadiscio in Somalia è invece la finalità del progetto BECOMe | Business ECOsystem design for sustainable settlements in Mogadishu: affordable housing, local entrepreneurship and social facilities.

Tra i principali bisogni della popolazione somala, infatti, c’è la risoluzione dell’emergenza abitativa determinata dall’intensa crescita della popolazione, gli alti livelli di povertà, il danneggiamento di edifici provocato dalla guerra civile e la generale insicurezza nelle aree di conflitto.

Il progetto si pone l’obiettivo di realizzare moduli abitativi di nuova concezione, che affianchino alla accessibilità del costo di realizzazione (e quindi di acquisto per gli abitanti) la qualità della vita, garantendo comfort e sicurezza e la possibilità di costruire una comunità sociale (spazi comuni, piccole attività, servizi di supporto) secondo le caratteristiche proprie della Somalia.

Il ruolo del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, in particolare, è quello di garantire che le diverse scelte progettuali siano coerenti – dal punto di vista economico – con l’obiettivo di costo di acquisto che ci si è dati. Inoltre, l’apporto del Dipartimento sarà fondamentale per disegnare il business ecosystem che deve ruotare attorno alla realizzazione dei moduli abitativi e che è reso ulteriormente complesso dalla nostra volontà di integrare sistemi di produzione di energia distribuita (soprattutto fotovoltaico) e di immaginare la creazione di una filiera locale “circolare” per la realizzazione di parte dei materiali costruttivi (ad esempio sfruttando le macerie di guerra) e dei servizi necessari per la gestione e manutenzione degli edifici.

Collaborare ad un progetto Polisocial significa mettersi al servizio di chi progetta sistemi reali e con ricadute sociali” – racconta il prof. Davide Chiaroni, docente di Strategy & Marketing – “Vivo con molto piacere, ma soprattutto con grande senso di responsabilità, il mettere a servizio di un paese come la Somalia la nostra esperienza nella valutazione di fattibilità economica e nella costruzione di modelli di business coerenti con il paradigma dell’Economia Circolare.”

I progetti finanziati, che saranno avviati a inizio marzo, avranno durata di 15 mesi.

Il manager di oggi (e di domani)

Il mercato del lavoro del prossimo futuro passerà attraverso manager aperti al cambiamento e capaci di evolversi. La quarta rivoluzione industriale, ovvero la presenza della tecnologia in numerose attività prima svolte esclusivamente dall’uomo, minaccia alcune figure professionali, promette di crearne delle nuove, e richiede uno sforzo di adattamento a tutti, in particolare a chi riveste ruoli decisionali.

Quella del manager è una delle professioni che ha meno da temere dai cambiamenti in atto, e anzi assume un ruolo sempre più centrale. Ma proprio per questo i manager hanno più degli altri bisogno di aggiornare le proprie competenze in base alla continua evoluzione degli scenari. Quell’evoluzione che sono chiamati a interpretare e gestire.

Il Future of Jobs Report 2018, pubblicato dal World Economic Forum, indica le professioni legate al ragionamento e alla presa di decisioni, e quelle legate al coordinamento, allo sviluppo, alla gestione e alla consulenza, come le due categorie in cui il rapporto fra ore lavorate da umani e da macchine resterà più decisamente a vantaggio dei primi. Ma nel medesimo report si sottolinea anche che entro il 2022, a non meno del 54% dei manager verrà richiesto un re-skilling e upskilling significativo. Molte delle aziende intervistate hanno dichiarato la loro intenzione di concentrare i loro sforzi di aggiornamento delle competenze sui dipendenti che ricoprono ruoli ad alto valore aggiunto.

Il manager del futuro, chiamato a operare in una società complessa che cambia continuamente e a ritmi molto rapidi, necessita da un lato di hard skill sempre nuove, soprattutto in ambito tecnologico, e dall’altro di soft skills come il pensiero analitico, la resilienza, la creatività, l’intelligenza emotiva, la flessibilità. Se n’è parlato anche nella tavola rotonda “Human skills and drivers for change”, tenutasi lo scorso 2 febbraio presso il MIP Politecnico di Milano nel corso del primo EMBA Day 2019 (l’evento fa parte del ciclo “Practising Leadership”, il cui prossimo appuntamento è previsto il 6 marzo sul tema “Empower your career”). In quella occasione, Pino Mercuri, Direttore delle Risorse Umane di Microsoft Italia, si è soffermato fra l’altro sul tema dell’obsolescenza delle competenze nell’IT. “Una competenza ingegneristica o tecnologica media ha una shelf life tra i 24 e i 48 mesi – ha dichiarato Mercuri –. Non abbiamo però chiarezza totale e completa delle competenze che saranno necessarie nel prossimo futuro. Parliamo di Machine Learning, di AI, di IoT, ma spesso sono più delle password che non dei reali concetti”.

A fronte di questa crescente instabilità delle competenze richieste, assumono sempre più importanza la capacità di apprendere e la motivazione a farlo lungo tutto l’arco della vita lavorativa. “In Microsoft abbiamo cercato di mettere tutti in condizioni di capire che apprendere non solo è necessario ma è anche un elemento di valutazione – ha proseguito Mercuri –. Nel nostro sistema di performance management chiediamo di dichiarare cosa si intende fare per crescere e apprendere, e la risposta a quella domanda viene verificata nel successivo step di valutazione”.

L’head hunter Jacopo Pasetti, anch’egli presente all’incontro, ha posto l’attenzione su due concetti, consapevolezza e passione: “La consapevolezza va intesa come comprensione del nostro percorso professionale e di quello che ci piace davvero. È necessaria perché l’aggiornamento continuo richiesto dalla veloce evoluzione delle competenze non venga percepito come un peso. Perciò bisogna scegliere il proprio percorso di carriera non in base alle mode del momento ma seguendo le proprie passioni, oltre a una strategia chiara”.

L’importanza delle soft skill non deve però portare a trascurare le hard skill. “Siamo in un momento storico in cui stanno cercando di convincerci che la competenza e la cultura non siano poi così importanti – ha sottolineato Fulvia Fiaschetti, Global Talent Acquisition Associate Director di Amplifon –. Io credo invece che il mondo delle aziende con grande forza si opponga a questo tipo di pensiero”. La competenza tecnica, secondo la manager, è richiesta soprattutto all’ingresso in azienda, mentre le soft skill si formano dopo e servono a compiere passi ulteriori. Comunicazione, empatia, forward thinking sono competenze che non si apprendono sui libri.

La necessità di imparare in fretta porta poi alla diffusione di una cultura dell’errore, intesa come invito a osare e a sperimentare continuamente, utilizzando anche i fallimenti come modalità di apprendimento. “L’errore non solo è possibile ma è necessario per acquistare sempre più competenze – ha fatto notare ancora Pino Mercuri –. Se si sta sbagliando, è probabilmente perché si sta cercando davvero di innovare”.

 

 

 

SaniWelf 4.0


Mefop SpA (società per lo sviluppo del Mercato dei Fondi Pensione) e Politecnico di Milano School of Management propongono il progetto SaniWelf 4.0, iniziativa per contribuire alla ricerca e al dibattito finalizzati a disegnare possibili strategie di intervento da consegnare alle Istituzioni e al mercato in materia di assistenza sanitaria integrativa, con un focus sulle prospettive di sviluppo sul segmento dei servizi socio-sanitari e attraverso l’analisi delle prospettive di integrazione virtuosa e generativa tra sistema pubblico e strumenti/ stakeholders del welfare privato.

Nel corso dei momenti di ricerca e dei seminari, il progetto si propone di studiare meccanismi virtuosi di integrazione pubblico-privato sull’area dei servizi socio sanitari, in modo da valorizzare e sfruttare il ruolo del secondo welfare nelle sue diverse componenti sociali e sanitarie e nella sua imprescindibile dimensione di «welfare di rete».

L’attività del progetto sarà scandita da quattro seminari che si terranno a Roma e Milano da febbraio a maggio 2019.

  • 05/03/19: Invecchiamento e fragilità: il ruolo della sanità integrativa
  • 18/04/19: Ecosistemi per l’impatto sociale a sostegno di sanità e welfare
  • 16/05/19: Investitori istituzionali e finanza per l’impatto sociale

Seguiranno ulteriori comunicazioni con i dettagli di ogni evento.
Per maggiori informazioni: eventi@mefop.it

Dove

School of Management Politecnico di Milano – Via Lambruschini, 4 – 20156 Milano

Milano va sempre più di moda

Dal 19 al 25 febbraio Milano è al centro del mondo. Il motivo? La Settimana della Moda, evento di portata internazionale che celebra uno dei fiori all’occhiello della città: sei giornate dense di incontri che richiamano professionisti e appassionati da ogni continente.

Il calendario della manifestazione, organizzata dalla Camera Nazionale della Moda Italiana e dedicata alla moda donna autunno/inverno 2019, è ricco di appuntamenti e prevede 60 sfilate, 81 presentazioni, 33 eventi, per un totale di 173 collezioni. Come già nelle ultime edizioni, non mancano manifestazioni aperte anche ai non addetti ai lavori che permettono al grande pubblico, e in particolare agli studenti del mondo fashion, di conoscere da vicino la realtà del Made in Italy, dalle grandi aziende che ne hanno segnato la storia fino ai talenti emergenti.

“Grande attenzione verso i nuovi talenti e l’internazionalità”, ha dichiarato Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda a proposito di questa edizione. “Sono molti i brand presenti a Milano per la prima volta, grazie al nostro supporto. Sostenere i nuovi talenti è uno dei nostri pillar, accanto alla sostenibilità”. Tra gli esordienti figurano Gilberto Calzolari e Tiziano Guardini, vincitori del Franca Sozzani GCC Award rispettivamente nel 2017 e nel 2018, che presenteranno le loro collezioni. Attesissimi anche i debutti di Marco Rambaldi per Marios, della stilista portoghese Alexandra Moura e del brand di Mayo Loizou e Leszek Chmielewsk. Quanto ai big, questa edizione è segnata dal ritorno di Gucci, Angel Chen e Bottega Veneta con Daniel Lee.

«L’evento milanese è una delle quattro grandi “settimane della moda” che si svolgono due volte all’anno nel mondo: le altre sono quelle di Parigi, Londra e New Yorkracconta Alessandro Brun, Direttore del Master In Global Luxury Management presso la School of Management del Politecnico di Milano –. Si tratta di un appuntamento importante sia per le grandi maison, sia per i giovani designer e per i brand emergenti, che hanno la possibilità di mettersi in mostra in un evento “dal vivo”. Inoltre, è un momento importante per l’intera città: le sfilate si svolgono in diverse location, spesso in zone riqualificate come Tortona, Garibaldi-Porta Nuova-Isola, piazzale Lodi, con grandi benefici anche per le attività commerciali locali».

Insomma, la moda milanese va, come confermano i dati dello scorso anno, ed è più viva che mai e in costante crescita. Le imprese presenti sul territorio cittadino sono 13mila, mentre la Lombardia – prima regione italiana nell’ambito fashion – ne conta quasi 34 mila. L’export di tessili del territorio lombardo ha sfiorato nei primi nove mesi del 2018 i 10 miliardi di euro, con una crescita del 3,6% rispetto all’anno precedente. La sola città di Milano ha superato i 5 miliardi, con una crescita del 6,4%, confermandosi leader assoluta.

La Settimana della Moda dello scorso febbraio ha portato al capoluogo un guadagno di 19 milioni di euro nel solo settore dell’ospitalità, in crescita di 2 milioni rispetto all’edizione del 2017. L’impatto economico complessivo che coinvolge i settori di indotto (trasporti, musei, negozi, ristoranti) ha toccato i 160 milioni di euro, coinvolgendo 137mila addetti e 18mila imprese.

L’edizione 2019, partendo da queste premesse, ha voluto rafforzare, in accordo col Comune di Milano, la connessione tra moda e territorio utilizzando per gli eventi degli spazi inusuali come la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale o lo Spazio Cavallerizze del Museo della Scienza e della Tecnologia. Prevista inoltre la presentazione, da parte della Camera Nazionale della Moda Italiana, il film “Welcome to Milano”, realizzato da The Blink Fish, in cui un gruppo di modelle conduce gli spettatori alla scoperta di Milano e dei suoi luoghi più segreti.

Passano gli anni, quindi, ma la moda a Milano non passa mai di moda. «Però è bene guardare con attenzione ai cambiamenti – racconta ancora Alessandro Brun –. I grandi brand stanno prestando sempre più interesse ai costi rispetto a un tempo. E poi ci sono le nuove tecnologie e le nuove abitudini: Burberry ha lanciato la prima sfilata globale nel 2010 presentando la collezione autunno-inverno in diretta streaming su sette diversi siti e proiettata in 3D nei teatri di cinque diverse città, e qualche anno dopo ha offerto la possibilità di acquistare nei negozi gli stessi capi esibiti contemporaneamente sulle passerelle, rivoluzionando di fatto il paradigma che vedeva le sfilate presentare gli abiti con largo anticipo rispetto alla vendita. Ma non credo che questo possa mettere in crisi l’appuntamento milanese, che vanta una storia di oltre 60 anni. La città, infatti, resta un punto di riferimento dell’intero sistema moda italiano, il cui fatturato complessivo è passato dai 52 miliardi di euro del 2011 ai 54 miliardi del 2017 grazie al contributo di 46mila aziende e oltre 400mila lavoratori. La qualità dei nostri prodotti e la capacità artigianale italiana sono ancora delle eccellenze a livello internazionale».