Premio di laurea sul tema “Logistica” in memoria del prof. Gino Marchet – Anno 2021

 

E’ aperto il bando per 2 premi di Laurea sul tema “Logistica” del valore di € 2.000 ciascuno, istituito in ricordo del Professor Gino Marchet, Professore Ordinario di Logistica presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, scomparso prematuramente nel 2017.

I premi sono destinati a laureati/e in Ingegneria (Laurea Magistrale) che abbiano conseguito il relativo titolo dal 1° ottobre 2020 al 31 luglio 2021.

I lavori dovranno trattare tematiche di Logistica tra cui: Automazione di magazzino, Picking, Logistica 4.0, Ottimizzazione dei processi logistici e della supply chain, Outsourcing Logistico, Gestione delle scorte.

Per maggiori informazioni, si prega di consultare il bando disponibile alla pagina: https://www.som.polimi.it/albo-e-bandi/

Al via il progetto TREASURE

Nuove opportunità di test di nuove tecnologie per rendere il settore automotive più circolare

 

Ha preso il via il 1° giugno 2021 il progetto TREASURE (leading the TRansion of the European Automotive SUpply chain towards a circulaR futurE), coordinato da Sergio Terzi e da Paolo Rosa del Dipartimento di Ingegneria Gestionale della School of Management.
TREASURE è un’Azione di Ricerca e Innovazione co-finanziata dalla Commissione Europea con il programma H2020, il cui scopo è offrire nuove opportunità di test di nuove tecnologie per rendere il settore automotive più circolare.

I principali obiettivi sono:

  1. garantire uso sostenibile delle materie prime nel settore automotive riducendo i rischi legati agli approvvigionamenti;
  2. applicare in pratica il paradigma dell’economia circolare nel settore automotive, agendo come dimostratori per il macrosettore manifatturiero;
  3. offrire delle prestazioni economiche, ambientali e sociali migliori relative ai veicoli per tutti gli utenti;
  4. creare nuove supply chain intorno ai veicoli fuori uso, focalizzandosi sull’uso circolare delle materie prime.

In tal modo, TREASURE supporterà concretamente le aziende del settore automotive, dimostrando in pratica i benefici ottenibili dall’applicazione del paradigma dell’economia circolare, sia da un punto di vista del business e delle supply chain che da quello tecnologico e della sostenibilità, attraverso l’adozione delle tecnologie di Industria 4.0 nei processi di gestione dei veicoli fuori uso e dei loro componenti.

I principali risultati attesi includono:

  1. lo sviluppo di uno strumento basato sull’intelligenza artificiale per l’analisi e il confronto di possibili supply chain circolari nel settore automotive;
  2. la realizzazione di una serie di casi di successo per gli attori chiave nella gestione dei veicoli a fine vita, quali demolitori auto, impianti di macinazione rottami, riciclatori di materie prime e costruttori di veicoli;
  3. l’integrazione di tecnologie abilitanti chiave per la progettazione, disassemblaggio e riciclo efficiente e sostenibile delle componenti elettroniche delle auto.

Partner del progetto, coordinato dal Politecnico di Milano, sono: il centro di ricerca olandese TNO, l’Università spagnola di Saragozza, la scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, l’Università degli Studi dell’Aquila, la società di consulenza olandese Material Recycling and Sustainability B.V., la società estone sugli studi sociali Edgeryders OU, la società lituana produttrice di schermi LCD EUROLCDS SIA, la società spagnola produttrice di componenti auto Walter Pack SL, la società di demolizione veicoli Pollini Lorenzo e Figli Srl, il principale costruttore di auto spagnolo SEAT SA, la società di sviluppo software TXT E-Solutions Spa, la società spagnola di riciclo rottami metallici Industrias Lopez Soriano SA, l’ente nazionale italiano di unificazione ed il cluster automotive francese NEXTMOVE.

Nuova vita ai rifiuti elettronici grazie all’economia circolare

Un esempio virtuoso di economia circolare esito del progetto Horizon2020 FENIX di cui è partner il Politecnico di Milano.

 

Come una fenice che rinasce dalle proprie ceneri, il progetto FENIX è riuscito nell’intento di dare nuova vita ai rifiuti elettronici, che diventano così materia prima per prodotti ecocompatibili come nuovi filamenti metallici per la stampa 3D, polveri metalliche green per la manifattura additiva e gioielli sostenibili stampati in 3D.

Il Progetto Horizon 2020 FENIX, di cui il Politecnico di Milano è partner, si è concluso dopo 40 mesi di lavoro e ha raggiunto l’obiettivo di sviluppare nuovi modelli di business e strategie industriali in un’ottica di economia circolare.

In particolare il Laboratorio Industry 4.0 del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano ha implementato una stazione automatizzata per il disassemblaggio di schede elettroniche di cellulari grazie ai collaborative-robot (cobot) che sono tra le soluzioni di automazione più avanzate in termini di tecnologia robotica, in quanto garantiscono flessibilità operativa consentendo interazione con l’ambiente circostante e con gli operatori con cui condividono le mansioni.

Il cobot, tramite un processo semiautomatizzato, riesce a dissaldare i componenti elettronici di una scheda e a salvaguardarne le caratteristiche chimiche: sfruttando un flusso di aria calda scioglie lo stagno che lega i componenti in modo che questi possano essere staccati e gestiti separatamente dalla scheda.

Grazie alla filiera circolare istituita dal consorzio che aderisce al progetto, le schede elettroniche disassemblate dal Politecnico di Milano sono trattate dall’Università dell’Aquila, che recupera dalle schede e dalle componenti elettroniche alcuni materiali puri (quali rame, stagno, oro, argento e platino). Rame e stagno vengono successivamente trasformati sia in polveri metalliche (dall’azienda MBN Nanomaterialia Spa di Treviso) che in filamenti adatti alla stampa 3D (congiuntamente dalle aziende MBN Nanomaterialia Spa, e dalle aziende I3DU e 3DHUB di Atene – Grecia), entrambi testati successivamente dal centro di ricerca Fundaciò CIM di Barcellona – Spagna. I metalli preziosi vengono invece utilizzati dalle aziende I3DU e 3DHUB di Atene – Grecia per la creazione di gioielli ecocompatibili. Questi gioielli realizzati e messi in vendita attraverso il consorzio possono anche essere personalizzati attraverso un servizio di scansione 3D ed assumere le forme di oggetti o visi di persone.

L’auspicio è che al termine del progetto, i modelli di business pensati e testati da FENIX siano replicabili da parte di altri soggetti esterni, al fine di promuovere la creazione di nuove filiere circolari.

Segnaliamo inoltre che due dei risultati sviluppati dal team del Politecnico di Milano coinvolto nel progetto FENIX sono stati citati dall’EU Innovation radar e che un articolo scritto dal team ha ricevuto un riconoscimento dalla casa editrice Taylor & Francis ed appare sul sito dell’ International Journal of Production Research come top cited article. Clicca qui per leggere l’articolo.

Fonte: https://www.polimi.it/pressroom/comunicatistampa/

Per maggiori info sul progetto: http://www.fenix-project.eu/
Link video youtube: https://www.youtube.com/channel/UCEg3DZSWyo62lSaMg7xxZrg

L’inclusione lavorativa: saperci tutti diversi aumenta il potenziale competitivo

Possiamo ancora accettare che l’in-clusione venga spesso sostituita da una re-clusione? Non è solo una questione di etica: il riconoscere che ogni operatore ha un suo potenziale valore per l’azienda diventa una leva per configurare sistemi produttivi sempre più competitivi.

 

Guido J.L. Micheli, Professore associato di Industrial Plants Engineering and Management
School of Management Politecnico di Milano

In ogni cosa esistono dei tempi minimi necessari perché una evoluzione cominci a dare qualche effetto. Nel nostro Paese la costituzione recita che l’Italia è una “Repubblica […] fondata sul lavoro”, tuttavia solo negli ultimi decenni si è cominciato ad affrontare in qualche modo il problema dell’inclusione lavorativa degli operatori disabili, che – salvo rarissimi casi – non presentano le caratteristiche “standard” che le aziende ricercano nei propri impiegati.

Semplificando, il processo si muove attualmente su due fronti. Da una parte, un grande numero di aziende è obbligato per legge ad assumere operatori disabili; dall’altra, esistono aziende (le cooperative sociali di tipo B) il cui fine ultimo è quello di preparare al lavoro persone disabili (anche dette, in questo caso, “svantaggiate”). Nella grande casistica delle aziende che sono obbligate ad assumere personale disabile, la deriva assai frequente è alternativamente l’assunzione di una persona che viene poi “isolata” in compiti di poco valore per l’azienda stessa (in altre parole, assunti ma non inclusi) oppure la scelta deliberata di pagare le penali annesse alla non assunzione, considerate paradossalmente “sostenibili” se confrontate con l’onere della gestione di una persona considerata di poco valore aggiunto.
Perché questa situazione? La motivazione è, tutto sommato, abbastanza semplice: le aziende sono abituate e vogliono continuare a lavorare in situazioni in cui ogni attività, macchina, attrezzatura, luogo, processo è progettato per persone “standard”. Ogni differenza è vissuta come origine di inefficienza.

È senz’altro vero che la formazione iniziale e continua degli operatori disabili è in certi casi significativamente maggiore, ma perché? Una delle risposte è facilmente identificabile: lo sforzo nella formazione/preparazione degli operatori disabili a qualsivoglia mansione lavorativa è collegato all’obiettivo stesso di tale formazione, ossia fornire loro le stesse capacità di operatori non disabili. In altre parole, anche la formazione che le aziende immaginano e mettono in pratica non è inclusiva, bensì volta ad uniformare gli operatori disabili agli altri.

Cosa occorrerebbe fare per cambiare lo status quo?

Serve un profondo cambiamento culturale. Le aziende devono studiare criticamente i propri processi, per identificarne le porzioni che possano essere svolte con caratteristiche “diverse”; così facendo, tali “caratteristiche diverse” non richiedono più uno sforzo per essere adeguate e incluse, ma diventano naturalmente funzionali, e quindi naturalmente incluse.

Questo tipo di analisi è ciò che le cooperative sociali (aziende manifatturiere o agricole vere e proprie, che impiegano primariamente operatori disabili) devono necessariamente fare ogni giorno, per capire ad esempio come un processo di assemblaggio possa essere “suddiviso e supportato” per essere efficientemente ed efficacemente svolto da operatori disabili, spesso diversissimi fra loro.

Questa attenzione ai processi porta come effetto secondario una semplificazione degli stessi, e quindi una riduzione degli errori, che si traduce in una riduzione degli scarti, e complessivamente in un aumento dell’efficienza.
Allora, l’avere coscienza che in azienda tutti sono “diversi”, può diventare un’importante leva di cambiamento: ogni attività, macchina, attrezzatura, luogo, processo, che una volta erano progettati per persone “standard”, possono essere finalmente progettati in maniera operatore-centrica e non standard-centrica.

A cosa serve la flessibilità dei componenti dei sistemi produttivi (macchine, linee, ruoli, …), tanto ricercata negli ultimi decenni, se poi non viene usata in modo continuativo per rivedere i processi e le mansioni, alla ricerca di una sempre migliore configurazione complessiva del sistema? Se questo fosse l’approccio, l’inclusione non sarebbe più da ricercare come tale.
Stiamo comprendendo che l’inclusione non può essere forzata: se viene imposta, come da approccio legislativo , in molti casi si trasforma in reclusione. Invece, il riconoscere che ogni operatore ha un suo potenziale valore per l’azienda diventa una leva per configurare sistemi produttivi e renderli sempre più competitivi.

D’altronde, chi di noi non ha mai pensato “ho in mente la persona giusta per questo”? Ecco, si tratta semplicemente di cominciare a riconoscere in tutte le persone – comprese quelle disabili – i rispettivi punti di forza.
Partiamo da qui. E non chiudiamo gli occhi: qualche azienda già lo fa!

Ricerca scientifica: il Covid-19 cambia attività e spazi

Si fa più ricerca da soli e le donne dell’accademia italiana sono tornate meno dei colleghi uomini a vivere gli spazi universitari

 

La pandemia ha un impatto anche sul modo di fare ricerca e di conseguenza sul modo di vivere gli spazi universitari. Un gruppo di ricerca interdisciplinare del Politecnico di Milano, composto da Gianandrea Ciaramella, Alessandra Migliore e Chiara Tagliaro del Dipartimento Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito (DABC) e da Massimo G. Colombo e Cristina Rossi-Lamastra del Dipartimento di Ingegneria Gestionale (DIG), ha raccolto le esperienze di 8.049 accademici universitari (49% donne, 51% uomini, età media 51 anni) in tutta Italia tra il 24 luglio e il 24 settembre 2020.

I ricercatori universitari, come altri lavoratori con alto capitale umano, hanno modificato i propri modi di lavorare a causa della pandemia Covid-19. Le implicazioni di questo fenomeno, che il gruppo di ricerca chiama Covid-working, sono molteplici in particolare in termini di organizzazione dello spazio per il loro lavoro. Le domande rivolte ai docenti riguardavano il modo di fare ricerca (individuale o collaborativo) e gli spazi utilizzati per svolgere le proprie attività di ricerca (in quanto fattori abilitanti alla ricerca stessa) nel periodo pre e durante Covid-19.

I risultati evidenziano tendenze molto chiare. In primo luogo, i dati mostrano un orientamento generale a impostare le attività di ricerca in modo più individuale rispetto al periodo pre-Covid. L’attività di ricerca, complice il distanziamento fisico, diviene un’attività più individuale che collaborativa. Soprattutto i ricercatori afferenti ai settori scientifici delle Life Sciences (LS) e Physical Sciences and Engineering (PE) passano da un lavoro prevalentemente bilanciato in termini di ricerca individuale e collaborativa a una ricerca drasticamente più individuale (da una media di quattro volte a settimana in università a poco più di una). I ricercatori afferenti invece al settore Social Sciences and Humanities (SH) subiscono una “individualizzazione” meno drastica, essendo già abituati ad una attività di questo tipo.

In secondo luogo, con l’allentarsi progressivo del lockdown, si delinea uno scenario diverso nel rientro negli spazi universitari: emergono differenze di genere in termini di organizzazione degli spazi di lavoro. Al termine della prima ondata pandemica, infatti, la maggioranza delle donne ha continuato a fare ricerca da casa mentre gli uomini hanno ripreso maggiormente a utilizzare anche altri luoghi di lavoro: non solo l’università, ma anche spazi terzi come laboratori e biblioteche pubbliche. Una tendenza che ha iniziato a delinearsi già durante la fase iniziale di restrizioni sociali molto severe.
Le donne sembrano essere penalizzate, in particolare, perché in era pre-Covid usavano spazi condivisi in numero maggiore rispetto agli uomini ed ora, a causa delle necessità di distanziamento fisico, si trovano in maggiore difficoltà a rientrare nel proprio luogo di lavoro abituale. I dati mostrano infatti come gli uomini, durante la progressiva riapertura dei campus universitari, siano tornati più di una volta a settimana nei loro uffici, prevalentemente singoli, mentre le donne, con uffici prevalentemente condivisi, lavorano da casa più dei colleghi maschi (4-5 volte a settimana).

I primi risultati dell’analisi mostrano dunque come la ricerca stia diventando in generale più individuale (la percentuale di attività di ricerca collaborativa passa dal 42% pre Covid-19 contro il 31% attuale, mentre l’attività individuale cresce di circa il 10%) e come gli uomini, sia prima che durante il Covid-working, abbiano maggiore accesso ad ambienti di lavoro diversificati. Gli effetti di questa nuova organizzazione del lavoro sono ancora da approfondire, soprattutto in riferimento alle categorie più penalizzate: non solo le donne ma anche i giovani ricercatori che, secondo i dati raccolti, hanno subito una diminuzione consistente della loro attività di ricerca collaborativa in una fase cruciale della loro carriera accademica.

I dati sui ricercatori italiani pongono quindi importanti interrogativi sull’impatto della pandemia COVID-19 sulle caratteristiche e la qualità della ricerca scientifica:

  • Esiste un nesso causale tra attività di ricerca individuali o collaborative e spazi a disposizione? Lo spazio per la ricerca scientifica manterrà la sua primaria funzione di incontro tra individuo e dimensione collettiva?
  • Qual è l’impatto delle nuove modalità di organizzazione spaziale delle attività di ricerca sulla conciliazione casa-lavoro e sulla produzione di risultati scientifici? È uguale per uomini e donne?
  • Come ridisegnare i campus universitari del futuro affinché promuovano a pieno pari opportunità nella ricerca e nella progressione di carriera? Quanto lo spazio fisico può favorire questi obiettivi?

Per saperne di più, leggi il comunicato stampa.

Stimoli dagli approcci evolutivi: algoritmi e sfide in finanza

Avanzate tecniche analitiche prese in prestito da una letteratura eterogenea per estrarre dai dati informazioni preziose, stanno guadagnando slancio all’interno della comunità finanziaria. Questo articolo introduce brevemente come gli ecosistemi finanziari siano sempre più sensibili all’applicazione di algoritmi biologici ed evolutivi volti ad analizzare il comportamento e le dinamiche dei loro partecipanti.

Andrea Flori, Ricercatore in Management and Finance, School of Management, Politecnico di Milano

 

In un popolare lavoro del 1973, Burton Malkiel mostrò come una scimmia bendata che lancia freccette alle pagine finanziarie di un giornale potrebbe selezionare un portafoglio in grado di performare bene come uno accuratamente costruito da esperti (“A Random Walk Down Wall Street”, 1973), contribuendo ad alimentare il dibattito sulla possibilità di estrarre segnali informativi da dati finanziari e dai comportamenti degli operatori di mercato.

I mercati finanziari costituiscono quindi una arena in cui tecniche ed algoritmi di predizione tentano di sfidare l’efficienza dei mercati attraverso l’identificazione di patterns.

È in tale contesto che numerose metodologie, mutuate da vari ambiti scientifici, si sono diffuse e reciprocamente contaminate per fornire una prospettiva nuova per lo studio della dinamica di sistemi finanziari complessi e delle interdipendenze che governano le relazioni tra i loro partecipanti.

L’infrastruttura di mercato, il ruolo dell’informazione ed il comportamento degli operatori rappresentano pertanto alcuni dei pillars ricorrenti nella definizione di questi approcci di analisi in contesti finanziari.

In particolare, il ricorso ad approcci ispirati da contesti biologici ha catturato l’attenzione di molti operatori finanziari interessati ad una nuova generazione di tecniche intelligenti di analisi e calcolo che imitino l’esecuzione di azioni umane.

Algoritmi genetici e reti neurali hanno pertanto pervaso la letteratura in finanza e contribuito alla diffusione di innovazioni metodologiche ispirate all’evoluzione biologica e al funzionamento umano, ottenendo, attraverso l’utilizzo di una prospettiva di analisi multidisciplinare e computazionalmente evoluta, risultati spesso promettenti rispetto ai tradizionali metodi di analisi statistica.

Nello specifico, gli algoritmi genetici utilizzano strumenti e prospettive proprie della selezione naturale e della genetica per identificare la migliore soluzione al problema. Mimando l’evoluzione biologica, una popolazione iniziale viene iterativamente mutata e ricombinata per determinare generazioni successive, in modo tale che le modifiche che hanno un impatto desiderabile vengono mantenute nel bagaglio genetico delle future generazioni nel tentativo di convergere verso soluzioni ottimali. Ad ogni individuo, cioè soluzione candidata, viene quindi assegnato un valore di fitness rispetto ad una funzione obiettivo e agli individui con caratteristiche più promettenti viene assegnata una maggiore probabilità di accoppiarsi per generare nuovi individui, quindi soluzioni al problema, potenzialmente ancora più performanti, in linea con la teoria darwiniana della “sopravvivenza del più adatto”. Le reti neurali, invece, sono costruite per imparare dalla struttura dei dati e processare un segnale attraverso neuroni artificiali tra loro interconnessi per creare una configurazione simile al funzionamento del sistema nervoso umano. Ad ogni connessione è associato un peso che contiene informazioni sul segnale di ingresso, inibendo oppure stimolando il segnale che viene comunicato ai neuroni per risolvere uno specifico problema. L’informazione rinveniente dall’esterno come input viene quindi elaborata internamente in uno o più layers di analisi che attivano determinati neuroni e trasmettono il segnale ad altri, prima di determinare un output la cui accuratezza previsionale può essere incrementata da un processo di apprendimento delle azioni svolte in precedenza. Le reti neurali sono quindi un sistema adattivo complesso in grado di mutare ed adattare la propria struttura interna in base al contesto e alle informazioni che lo attraversano.

Questi approcci risultano essere pertanto flessibili ed in grado di adattarsi a nuove circostanze, eventualmente imparando dall’esperienza passata e reagendo agli stimoli provenienti da nuovi segnali nel sistema.

Non stupisce, quindi, che tali tecniche, separatamente oppure tra loro combinate, siano sempre più spesso applicate in molteplici ambiti in finanza, quali ad esempio in analisi predittive dei mercati e nella selezione di regole di allocazione di portafoglio, hedging di strumenti finanziari, applicazioni di robo-advisoring.

Negli ultimi anni, con l’aumento della potenza e delle risorse di calcolo e la loro ampia disponibilità, tecniche avanzate per analisi massive di dati stanno infatti guadagnando slancio all’interno della comunità finanziaria, contribuendo ad una letteratura in forte crescita che, oltre alle tecniche sopracitate, sfrutta, più in generale, un uso su larga scala di concetti di statistical learning e di deep learning per identificare patterns nei mercati finanziari, studiare le complesse relazioni non lineari tra e all’interno le serie temporali finanziarie, individuare anomalie di mercato.

In aggiunta, ripetuti episodi di crisi finanziaria con le loro esternalità di vasta portata e gli effetti a cascata sui mercati finanziari e sull’economia reale hanno motivato lo studio e predisposizione di nuovi strumenti per monitorare e prevedere la diffusione di instabilità nei sistemi finanziari e per gestire le criticità che possono emergere.

L’adozione di approcci di statistical learning e di tecniche di deep learning nello studio dei sistemi finanziari richiedono tuttavia nuovi paradigmi, conoscenze ed abilità pratiche necessarie per sviluppare una solida base di modelli ed algoritmi che siano opportunamente applicati nei domini di riferimento e capaci, al contempo, di sfruttare le potenzialità che scaturiscono da un approccio transdisciplinare all’investigazione scientifica.

Nel mondo della finanza, tali strumenti di analisi sono della massima importanza per il futuro sviluppo tecnologico, svolgendo un ruolo fondamentale in molti aspetti dell’ecosistema finanziario. L’analisi massiva dei dati con tecniche avanzate di statistical learning e deep learning è infatti molto richiesta in numerosi ambiti ed in una ampia gamma di applicazioni che comprende, oltre la previsione di andamenti di mercato, anche ad esempio lo studio delle dipendenze tra sistemi finanziari, l’approvazione di linee di credito, la gestione efficiente delle risorse finanziarie, l’individuazione di anomalie e frodi, la valutazione di rischi.

Queste sfide sembrano indicarci quindi una nuova prospettiva di ricerca, al crocevia tra data mining, analisi predittiva e modellazione causale, che permetta di sfruttare la forza di questi algoritmi di analisi e calcolo per investigare problemi economico-sociali di contesti reali e mutevoli.

Symplatform 2021: un simposio internazionale sulle piattaforme digitali

 

Negli ultimi anni la rilevanza dei modelli di business basati su piattaforme è aumentata significativamente. Aziende come Airbnb, Uber o BlaBlaCar hanno mostrato le grandi potenzialità dei modelli di business che hanno come obbiettivo il matchmaking di vari gruppi di clienti, come viaggiatori e host, cavalcando le opportunità delle tecnologie digitali.

Siamo felici di lanciare la seconda edizione di Symplatform, un symposium sulle piattaforme digitali che si pone l’obiettivo di unire accademici e practitioner.

Symplatform è un progetto sviluppato in collaborazione da Trinity College Dublin, Politecnico di Milano School of Management e Audencia Business School.

La seconda edizione avrà luogo in 4 sessioni digitali tra il 17 Maggio e il 20 Maggio 2021 dalle 2 alle 3.30 (CET).

Il symposium sarà basato su vari format: sessioni parallele con presentazioni di paper accademici, sessioni guidate dai practitioner “Pitch your challenge” e workshop collaborativi che possano indicare possibile sviluppi per il field delle piattaforme digitali.

Su symplatform.com sono disponibili informazioni aggiuntive sull’evento.

Valorizzare i beni culturali attraverso l’innovazione digitale: la multidisciplinarietà come asset di sviluppo

L’approccio multidisciplinare alla valorizzazione dei beni culturali, in grado di unire la conoscenza del bene e del costruito con le competenze manageriali applicate al contesto specifico, possono rappresentare una chiave strategica per il rilancio del Paese.

 

Deborah Agostino
Associate Professor in Accounting Finance and Control e Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei beni e nelle attività culturali, School of Management Politecnico di Milano.

Stefano Della Torre
Professore Ordinario di Restauro, Politecnico di Milano e Direttore del Master in Management dei Beni e delle Istituzioni Culturali – MIP Graduate School of Business, Politecnico di Milano

 

La situazione pandemica attuale ha riportato al centro dell’attenzione l’importanza di avere un approccio multidisciplinare alla valorizzazione dei beni culturali, che unisca le competenze umanistiche a quelle tecnico-scientifiche.
Il patrimonio culturale è di per sé multidisciplinare, nella diversità dei meccanismi con cui può produrre benefici per lo sviluppo locale, e la resilienza in occasione delle grandi crisi. Nel corso degli ultimi anni si è parlato a più riprese dell’importanza di comprendere nella valorizzazione tutta la complessità dei beni culturali, coinvolgendo discipline diverse, dall’archeologia all’architettura, alla chimica alla matematica fino ad arrivare alle scienze dei materiali, al design e al management.

Con la chiusura fisica dei luoghi della cultura italiani a seguito dei decreti legislativi volti a contenere la pandemia Covid-19, , si è sottolineata ulteriormente l’importanza di creare sinergia tra figure professionali differenti per valorizzare il patrimonio, anche e soprattutto in momenti di crisi. In questo specifico momento storico è l’innovazione digitale, e la capacità di presidiare il canale digitale, a creare il fil-rouge tra discipline differenti. L’esperienza di fruizione si è momentaneamente spostata dal luogo fisico al luogo digitale: la visita in loco si è trasformata in tour virtuali, le visite scolastiche in momenti online o gli eventi e le manifestazioni in loco in dirette streaming. Nella maggior parte dei casi, l’erogazione di questi servizi non è avvenuta in modo strutturato con un team di professionisti. Al contrario, spesso è stato un approccio emergente e di sopravvivenza dettato dalla contingenza, scontando il ritardo su diversi fronti. La School of Management ha monitorato le tipologie di contenuti digitali proposti così come le risorse dedicate. Se i risultati in termini di partecipazione online agli eventi sono stati mediamente elevati (la partecipazione online dei pubblici è raddoppiata nei mesi di lockdown rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), non si può dire lo stesso per le competenze e le risorse coinvolte. Infatti, i risultati dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Nelle Attività Culturali della School of Management mostrano che, a livello italiano, un museo su due è dotato di professionisti con competenze dedicate al digitale. Di questi, solo il 6% ha un team dedicato con un digital manager e un set di professionisti.

Sebbene l’approccio emergente utilizzato nel primo lockdown abbia garantito l’erogazione di contenuti culturali in digitale con le risorse disponibili, occorre ora fare una riflessione più strutturata rispetto alla sostenibilità nel medio-lungo periodo del modello di business, ulteriormente provato dalle chiusure e relativi mancati incassi. Questo richiede una riflessione su almeno tre aspetti:

  • La tipologia di contenuto culturale digitale, che non può essere una mera traduzione in digitale delle attività pensate per la fruizione in loco. Occorre, al contrario pensare e sviluppare offerte “native digitali”.
  • I meccanismi di revenue associati alla nuova offerta culturale digitale. I contenuti digitali emergenti nei periodi di lockdown sono stati gratuiti, ma questo non contribuisce alla sostenibilità economica dei musei.
  • Le competenze professionali da ingaggiare nello sviluppo del progetto che, inevitabilmente, deve unire le competenze sul patrimonio e sulle opere con le competenze manageriali, tecnologiche e del design dell’esperienza.

In questo contesto, la School of Management è attiva nel percorso di innovazione digitale delle istituzioni culturali, sia con la ricerca che con la formazione.
Sotto il profilo della ricerca, sono attivi progetti incentrati sull’analisi di nuovi modelli di business sostenibili, sugli approcci di digital transformation messi in atto e sulla misurazione degli impatti generati dall’innovazione. Ad esempio, con riferimento ai nuovi modelli di business, stiamo mappando le offerte fully digital e i relativi meccanismi di costo e ricavo. Dalle prime evidenze emerge una difficoltà nell’identificare una value proposition in grado di evidenziare il valore di una fruizione culturale digitale; questo vuol dire che se il visitatore è disposto a pagare il biglietto per la visita in loco, non è disposto a farlo per una attività digitale. La ricerca è nella fase iniziale, ma proseguirà nella mappatura dei modelli adottati a livello nazionale ed internazionale, anche in settori affini, in modo da contribuire alla definizione di un possibile “phygital approach” che sia in grado di unire la “fisicità” del patrimonio culturale al valore aggiunto dell’esperienza di fruizione digitale.

Sotto il profilo della formazione, è oggi più che mai necessario formare dei profili professionali multidisciplinari, includendo due competenze trasversali chiave: le soft skills e la capacità di comprendere linguaggi diversi all’interno del mondo dei beni culturali, e l’innovazione digitale, che comprende sia l’innovazione nel design dell’esperienza di fruizione, ma anche l’innovazione nelle tecniche di conservazione e nuovi linguaggi digitali. In questo contesto, la School of Management con il Master in Management dei Beni e delle Istituzioni Culturali – un unicum nel panorama italiano per aver unito le competenze politecniche dell’architettura, del management e del design in un unico percorso si è posta l’ambizioso obiettivo di formare figure apicali in grado di presidiare e governare i grandi cambiamenti in atto nel mondo dei beni culturali, unendo una profonda conoscenza del bene e del costruito con le competenze manageriali applicate al contesto specifico.
Questo è stato fatto con un approccio applicativo che consente di “sperimentare” nel contesto reale, la complessità nella gestione e valorizzazione del bene, favorendo il dialogo tra “teoria” e “pratica”, fra università e istituzioni culturali e tra professionisti diversi.
È una sfida ambiziosa quella che ci siamo dati, ma che riteniamo, oggi più che mai, possa essere un valore aggiunto per il mondo dei beni culturali, che sono parte del programma di rilancio del Paese.

 

Multidisciplinarietà: una nuova disciplina

 

Intervista a Vittorio Chiesa
Presidente MIP Graduate School of Business

 

Viviamo in un mondo caratterizzato da crescente contaminazione tra le discipline, in cui i profili professionali richiesti dalle imprese sono mutevoli: quale ruolo può avere una business school in questo contesto?

Il settore delle business school evolve di pari passo con le imprese e con il ruolo che queste assumono nella società in senso ampio. E’ da tempo che alle imprese viene richiesto di operare con “purpose”, ossia agire non solo per profitto ma per scopi più elevati, con la finalità di avere un impatto positivo su tutto il sistema di cui sono parte. Sia i mercati che i consumatori dimostrano una sensibilità crescente sul tema e per questo motivo per le imprese avere un rapporto con i propri stakeholder è diventato un elemento imprescindibile.

Allo stesso modo, le business school devono avere la medesima attenzione sia nei confronti degli allievi, sia nei confronti delle imprese. E’ con questo obiettivo in mente che quest’anno abbiamo ottenuto la certificazione Bcorp (Benefit Corporation) entrando nella community internazionale di società che si distinguono per l’impegno a coniugare profitto, ricerca di benessere per la società, inclusione, attenzione all’ambiente.

Il “purpose” deve diventare parte fondamentale nello sviluppo delle competenze delle persone, affinché si formino manager capaci di concepire l’impresa al servizio della società.
Si tratta di un salto culturale che le stesse imprese ci chiedono e che possiamo facilitare, insegnando ai nostri allievi come un’impresa possa e debba contribuire in modo positivo in un sistema e un territorio.
E’ questo il nostro ruolo: preparare professionisti a introdurre innovazioni fortemente orientate a “purpose” di natura non solo economica ma anche sociale.

La multidisciplinarietà è funzionale a questo obiettivo in quanto impone ampiezza di vedute, flessibilità, spirito critico, intuizione. Formare oggi non è solo specializzare in ambiti ristretti, è soprattutto contaminare con altre discipline per creare profili professionali più completi, capaci di analisi di livello sistemico e in grado di guidare le imprese definendo e ispirandosi ad un “purpose”.

La multidisciplinarietà quindi come strumento per mantenere una mentalità aperta ed elastica nei confronti del mondo. Come integrarla nella formazione?

Tradizionalmente l’approccio alla multidisciplinarietà è quello di fornire prospettive diverse all’interno di un percorso formativo, quindi offrire contributi diversi all’interno della formazione di base e specialistica. La sintesi tra multidisciplinarietà e competenze specialistiche è poi in genere lasciata al singolo individuo.

Ma è possibile applicare un approccio radicalmente diverso integrando in un percorso formativo la multidisciplinarietà, e facendola diventare parte integrante qualsiasi tema si insegni. La sfida oggi è proprio gestire la complessità di questo nuovo approccio, usando per esempio tecniche didattiche innovative che, modificando la logica di interazione tra docente e allievo, possano rendere più efficace questo tipo di formazione. Al momento non è di ampia e facile diffusione, ma sono certamente in corso diverse sperimentazioni.

Richiede una progettazione dei percorsi formativi specifica e quindi anche i docenti, o meglio gruppi di docenti, che operino in team vanno preparati in questa direzione. Dall’altro lato, la formazione multidisciplinare ha bisogno di maggiore interazione, quindi di essere erogata con piccoli gruppi e con forte ricorso a format didattici che coinvolgono gli allievi in modo attivo.

Credo che in futuro l’elemento distintivo tra le offerte formative sarà proprio questo: da un lato iniziative con contenuti specialistici fornite con modalità standardizzate e per grandi numeri, dall’altro iniziative con contenuti più trasversali e metodologie didattiche innovative, dedicate a gruppi più circoscritti.

In questo periodo si parla molto di life-long education come chiave per l’aggiornamento continuo delle competenze. E’ una dinamica che si interseca con quella della multidisciplinarietà?

L’apprendimento continuo vuol dire rimanere allineati con l’evoluzione del contesto e questo avviene solo raramente o in parte attraverso degli approfondimenti verticali. Più spesso equivale ad un allargamento del profilo professionale.

Anche per il life-long learning quindi vale quanto detto finora: deve avvenire su contenuti più ampi, ma anche in modi diversi dal passato, usando per esempio specifiche piattaforme in grado di trattare ampi spettri disciplinari.

“Purpose” e multidisciplinarietà: quali sono i piani del MIP per il futuro relativamente a questi aspetti?

Inserire in tutti i programmi formativi dei moduli sul “purpose”, sul ruolo dell’impresa e quello dei managers in qualità di leader e innovatori in questa direzione.

Sempre su questo tema, inaugurare dei “Purpose lab”, ovvero iniziative formative dedicate a studiare e analizzare in profondità come un’impresa possa costruire il proprio purpose, e supportare così i vertici delle imprese in questa evoluzione.

Infine innovare i formati di erogazione dei nostri servizi, affinché la scuola non sia solo un luogo di formazione, ma un luogo che favorisca la crescita di una persona a tutto tondo: dalla valutazione delle competenze, all’orientamento, allo sviluppo professionale.

Coinvolgere i caregiver familiari nella progettazione dei servizi di assistenza: il progetto Place4carers

Si è appena concluso il progetto Place4Carers avente l’obiettivo di co-produrre un nuovo servizio sociale e di comunità per promuovere il coinvolgimento dei caregivers familiari di soggetti anziani residenti nelle aree remote e rurali della Valle Camonica.

 

Cristina Masella
Professoressa Ordinaria di Business Administration, School of Management, Politecnico di Milano

Eleonora Gheduzzi
Dottoranda, School of Management, Politecnico di Milano

 

L’attuale emergenza sanitaria ha dato l’occasione di riflettere sull’importanza dell’assistenza territoriale e domiciliare soprattutto a supporto degli anziani fragili. In Italia, i principali ma inosservati protagonisti dell’assistenza territoriale sono circa 7 milioni di caregiver familiari. I caregiver familiari sono prevalentemente donne con un’età compresa tra i 50 e i 60 anni. Durante l’emergenza sanitaria, più del 50% dei caregiver ha sospeso o ridotto la propria attività lavorativa a causa di un maggior carico nella cura del proprio caro.

 

“Abbiamo mille angosce. Per noi diventa dura la vita perché non riusciamo più a ritagliarci un piccolo spazio per noi; a ricaricarci le batterie. Poi gli aiuti sul territorio sono stati sempre di meno”, Caregiver 55 anni, Breno.

 

Oltre alla sofferenza psicologica nel vedere un proprio caro in difficoltà, i caregiver familiari sperimentano forte stress, senso di impotenza e solitudine dovute al ‘peso dell’assistenza’. Per prevenire l’insorgere di nuove vulnerabilità sul territorio, è necessario creare una rete composta da professionisti e operatori socio-sanitari e sanitari capace di collaborare a stretto contatto con i caregiver familiari fornendogli assistenza e aiutandoli nella cura dell’anziano. Due sono gli obiettivi: supportare i caregiver, assicurando un miglioramento della loro condizione psicologica e sociale e consentire loro di rafforzare il sistema di assistenza territoriale a favore degli anziani fragili a casa.

 

“Abbiamo una consapevolezza maggiore di noi stessi e del rapporto che possiamo avere con gli operatori/professionisti che assistono al nostro caro. Io sono maturata molto, perché mi sono resa conto di che cosa io stessa possa fare”. Caregiver 77 anni, Breno

 

Il progetto Place4Carers ha risposto a queste esigenze attraverso azioni di ricerca scientifica partecipata in cui sono stati coinvolti caregiver familiari di anziani non autosufficienti a casa residenti in Valle Camonica. Il contesto di analisi (montano e hard-to-reach) è stato scelto perché in questi territori l’assistenza dei caregiver diventa cruciale a causa della limitata accessibilità ai servizi sanitari e socio-sanitari.

Il progetto di durata triennale è stato finanziato da Fondazione Cariplo ed è stato coordinato dall’EngageMinds HUB dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con la School of Management (SOM) del Politecnico di Milano, Need Institute e l’Azienda Territoriale per i Servizi alla Persona (ATSP, Breno, BS).

In particolare, il team della SOM del Politecnico di Milano ha avuto il compito di mappare i bisogni e la condizione psicologica e sociale dei caregiver familiari della Valle Camonica. Questa analisi ha evidenziato come i caregiver prestano in media 75 ore settimanali all’assistenza del proprio caro sperimentando un maggiore affaticamento fisico e psicologico rispetto a coloro che fruiscono maggiormente di servizi socio-sanitari.

Questi e altri risultati hanno costituito la base per la co-progettazione di un nuovo servizio “S.O.S CAREGIVERS: come stare bene per far stare bene“, eseguita attraverso quattro workshop di co-progettazione coinvolgendo 26 caregivers familiari, 6 ricercatori e 3 rappresentanti ATSP.

Il team della School of Management ha supportato ATSP nella realizzazione del servizio valutandone la fattibilità prima e impatto poi. Il servizio è organizzato in quattro macro-attività e ha raggiunto più di 150 caregiver:

  • Sapere di più, sapere meglio: corsi di formazione volti a fornire ai caregiver familiari conoscenze e competenze pratiche per una più efficace gestione dei propri cari.
  • Gruppi di tradizione e memorie: un’occasione di convivialità tra caregiver familiari in cui condividere e raccontarsi memorie legate alla vita in Valcamonica, tramite il supporto e la supervisione di uno psicologo.
  • Informarsi fa bene al cuore: creazione di diversi canali informativi sul territorio sia online che offline per informare sui servizi attivi sul territorio per gli anziani fragili e diffondere il nuovo servizio SOS Caregiver.
  • Comitato dei Cittadini: struttura organizzativa di gestione del servizio partecipata che supervisiona l’andamento dei servizi fornendo suggerimenti per migliorarne l’efficacia. Questo Comitato è composto da caregiver familiari, ATSP, e ricercatori.

I risultati sono stati più che soddisfacenti. Per una valutazione complessiva ed esaustiva, il team della School of Management ha coinvolto nella valutazione tutti gli stakeholder che hanno collaborato all’implementazione del servizio: caregiver familiari, referenti di ATSP, ricercatori, formatori, professionisti, e quattro RSA locali. In generale, il servizio ha riscontrato un ottimo livello di soddisfazione (c.a. 90%), un buon livello di comprensione dei contenuti dei corsi (c.a. 88%) e un considerevole tasso di partecipazione visto il contesto hard-to-reach (c.a. 20%). Inoltre, i referenti di ATSP, i professionisti e i responsabili delle quattro RSA coinvolte hanno mostrato interesse a continuare il servizio, evidenziando l’importanza di supportare i caregiver familiari nella cura dell’anziano a casa.

 

“Non ci avete dato un aiuto fisico, però la formazione e l’aiuto ci ha permesso di affrontare meglio la nostra quotidianità”, Caregiver 78 anni, Breno.
“Abbiamo avuto l’opportunità di capire il vissuto dei caregiver familiari nella gestione quotidiana degli anziani, e questo ci ha aiutato a rivedere la nostra offerta di servizi per indirizzarci non solo a favore non solo dell’anziano ma anche dell’intero nucleo familiare”, referente ATSP, Breno.

 

Questo progetto ha dato il via alla creazione di una rete territoriale a cui partecipano caregiver, ricercatori, ATSP, ATS della Montagna, ASST della Vallecamonica, Comunità Montana, Assemblea dei sindaci, quattro RSA della Valle Camonica e cooperative.

Il progetto è finito, ma Place4carers non si ferma!

Per avere ulteriori informazioni sul progetto Place4Carers, clicca qui per vedere il video della presentazione del progetto.