Con le digital platform il manager si fa designer dell’innovazione

In un contesto sempre più digitale, la funzione del dirigente assomiglierà a quella di un architetto: una figura più carismatica e meno operativa in grado di sviluppare visioni e costruire relazioni

 

Trasformazione digitale e management dell’innovazione: cosa sta succedendo in questi due ambiti, così importanti per il futuro delle imprese? È il tema del workshop Digital trasformation and Innovation Management: Opening up the Black Box, che si è tenuto il 19 e il 20 dicembre presso il Politecnico di Milano. Tra gli accademici che vi hanno preso parte, c’è anche il professor Carmelo Cennamo, della Copenhagen Business School. «In un contesto sempre più digitale, la funzione del manager assomiglierà sempre più a quella di architetto» sostiene Cennamo. «In un’economia basata sulle digital platform, avrà il compito di disegnare nuove architetture relazionali con le altre aziende. Dovrà valutare se all’azienda conviene utilizzare una propria piattaforma o se affidarsi a terzi, e capire quale ruolo e quale posizione strategica dovrà assumere la sua compagnia in questa struttura. È un’evoluzione che avvicina la figura del manager a quella del designer, rendendola meno operativa. Ma dovrà sempre trattarsi di una figura carismatica, in grado di sviluppare visioni e immaginare nuove configurazioni nel sistema di valore».

Modularità, complementarietà, flessibilità

La chiave di questo cambiamento è la digital platform. «Sono ecosistemi basati su piattaforme che funzionano per mezzo di strutture relazionali, dove le aziende sono interdipendenti tra loro e condividono un insieme di attività correlate», spiega Cennamo. Sono due, principalmente, le caratteristiche delle digital platform: «La prima è la modularità. Significa che le varie attività all’interno di una piattaforma possono sì essere complementari, ma rimangono comunque indipendenti. Il secondo elemento è proprio la complementarietà. Viene così incentivato il coordinamento, che avviene proprio grazie alle peculiarità di questo sistema. È un mondo dove vengono meno i classici rapporti contrattuali, in nome di una maggiore flessibilità».

Grandi e piccole alla prova della disruption

Un cambiamento simile ha delle ricadute non da poco su tutte le imprese, grandi e piccole. «Le potenzialità sono assolutamente disruptive» racconta Cennamo. «Assistiamo a una progressiva disintermediazione, che mette in contatto attori precedentemente disconnessi. Le piattaforme aiutano a mettere direttamente sul mercato un’offerta, così nasce un mercato liquido che supera di gran lunga i limiti di quello tradizionale». Per le piccole imprese il vantaggio è notevole: «Si riesce ad arrivare al di là dei mercati locali, raggiungendo un giro di potenziali clienti immensamente più ampio». Per le grandi imprese, soprattutto le incumbent che hanno sempre offerto servizi di tipo premium, le cose sono un po’ diverse. «Prendiamo l’esempio degli hotel di alto livello, che avevano relazioni privilegiate con la clientela. Per loro, un mercato più liquido ha significato anche un mercato più trasparente e competitivo. E questo ha comportato una certa difficoltà. Ma lo stesso vale per le banche, che guardano con timore all’avvento delle fintech. Con le digital platform, chi non aveva degli asset è riuscito a trovare un valore».

L’importanza della “visione” per il manager

Dalla digital platform alle cognitive enterprises, il passo è breve. «L’azienda è sempre stata una struttura che riceveva input e mandava all’esterno degli output, spesso materiali. Oggi la materia prima da processare sono i dati, fondamentali per chi vuole sfruttare tecnologie come i big data, il machine learning, l’intelligenza artificiale… L’evoluzione è questa. I rischi, però, sono due: da una parte le piccole aziende potrebbero ritrovarsi ad avere una mole di dati troppo piccola, insufficiente per le tecnologie che abbiamo citato. Potrebbero essere così costrette ad affidarsi a qualcun altro, a un player più grande. Dall’altra parte, bisogna evitare che i manager si affidino ciecamente ai dati processati dalle intelligenze artificiali. Perché anche quei dati vanno saputi interpretare, e vanno letti in modo critico. Un vero manager non potrà mai fare a meno delle sue capacità di visione strategica», conclude Cennamo.

Tecnologia e gestione del business: la School of Management del Politecnico di Milano tra le 3 migliori scuole di Università “tecniche” in Europa secondo il Financial Times

I ranking 2019 editi dal Financial Times e dedicati al mondo delle business school europee posizionano la Scuola milanese tra le prime 50 in assoluto (45) su un totale delle top 95, e sul podio se la si confronta con le altre appartenenti ad Atenei focalizzati su innovazione e ingegneria. Meglio solo Imperial College (UK) e Aalto University (Finlandia). I prodotti in classifica vanno dall’MBA all’EMBA, al Master of Science in Ingegneria Gestionale, ai programmi per le imprese e i professionisti

 

 

Affiancare ai corsi di management, economia e finanza l’apprendimento di competenze ingegneristiche e tecniche, indispensabili per comprendere e gestire con successo la trasformazione digitale nelle imprese. È questo “orientamento” a contraddistinguere le business school legate a Università con un focus tecnologico come la School of Management del Politecnico di Milano, posizionato tra le prime 3 in Europa con le stesse caratteristiche secondo il Financial Times, che ha pubblicato i consueti ranking annuali sulle 95 migliori scuole di business europee.

Per l’undicesimo anno in classifica, la School of Management del Politecnico di Milano regge bene il confronto con il resto d’Europa anche nella classifica generale, dove compare al 45esimo posto con cinque linee di prodotto. Si va dai “classici” MBA full time ed Executive EMBA al Master of Science in Ingegneria gestionale, a un’ampia e innovativa offerta di programmi ad hoc per le imprese e per il mercato Open di manager e professionisti, con una marcata impronta tecnologica sia nei contenuti, sia nella forma: sempre più corsi infatti sono fruibili in distance learning grazie allo sviluppo di specifiche piattaforme informatiche che permettono di gestire la formazione in maniera flessibile e attenta alle esigenze dell’utente.

L’FT European Ranking 2019 valuta i migliori programmi di MBA, Executive MBA, master of science, corsi a catalogo e su commessa. I parametri che determinano il posizionamento in classifica sono numerosi, tra cui l’opinione che gli stessi diplomati hanno dei docenti e del prodotto formativo, la retribuzione o l’avanzamento di carriera che si raggiungono dopo avere frequentato il master e l’esposizione internazionale della Scuola.

La School of Management del Politecnico di Milano è composta dal Dipartimento di Ingegneria Gestionale e dal MIP, la business school dell’Ateneo milanese. “Da anni abbiamo puntato sull’internazionalizzazione dei corsi e sulle competenze legate alla trasformazione digitale, che sarà la principale sfida per le nostre aziende, perché un buon manager dovrà essere un esperto nella gestione dell’innovazione”, commentano Alessandro Perego e Andrea Sianesi, rispettivamente Direttore del Dipartimento e Dean di MIP.

Il giudizio del Financial Times, che nuovamente ci inserisce tra le migliori scuole di management con una forte impronta tecnica e ingegneristica – proseguono -, è premiante non solo per noi, ma per gli studenti e per le imprese nostre clienti, che continuano ad apprezzare l’ampiezza e la qualità della nostra attività formativa. Tra i criteri di valutazione, infatti, rientrano le possibilità di carriera di chi esce dai nostri corsi, la buona opinione dei diplomati sui docenti e i prodotti e l’internazionalizzazione della Scuola, tutti aspetti che ci stanno particolarmente a cuore e su cui abbiamo costruito la nostra proposta”.

Meglio un master specialistico o un MBA?

Non c’è una risposta valida per tutti. Perché prima di compiere una scelta, è sempre bene tenere in considerazione due fattori: la propria esperienza professionale e l’obiettivo da conseguire

Orientarsi in un’offerta formativa ampia come quella dei master può essere tutt’altro che semplice. Soprattutto se non si hanno ben chiare le premesse su cui i master stessi si basano, e se non si ha un’idea chiara dell’obiettivo che si vuole conseguire. A volte capita che il dubbio oscilli tra due percorsi, entrambi validi ma molto diversi tra loro: i master specialistici e gli MBA. Come scegliere fra l’uno e l’altro?

Il curriculum fa la differenza

Una domanda a cui risponde Greta Maiocchi, Head of Marketing & Recruitment del MiP Politecnico di Milano: «La prima grande differenza è data dall’esperienza professionale. Il master specialistico si avvicina al Master of Science, cioè alla laurea specialistica, e quindi si rivolge principalmente a chi ha appena finito un percorso triennale o a chi ha cominciato a lavorare da poco. Per accedere all’MBA è necessario, invece, avere almeno tre anni di esperienza lavorativa».

E proprio chi ha l’esperienza maggiore, a volte, commette un errore di valutazione: «Sempre più persone che magari hanno già quattro o cinque anni di seniority ci chiedono di iscriversi a un master specialistico. Il problema è che vanno in aula con un bagaglio culturale troppo elevato rispetto agli altri partecipanti. Sono situazioni che cerchiamo di evitare», spiega Maiocchi.

Un master verticale e un master orizzontale

La seconda grande differenza, invece, riguarda i temi affrontati. Il master specialistico ha un’impostazione di tipo verticale, spiega Maiocchi: «Può essere sul lusso, sulla supply chain, sull’energy management, sui big data. Sviluppa insomma delle competenze grazie a cui si può diventare molto validi in un ambito o in una funzione specifici. Solitamente, è scelto dai giovani che vogliono specializzarsi».

Tutt’altro discorso per i master MBA, che hanno un taglio generalista e affrontano tutte le discipline utili a poter apprendere quelle skill che sono poi applicate in un contesto strategico. «L’obiettivo in questo caso – spiega Maiocchi – è fornire una panoramica di come funziona un’organizzazione, per poter così puntare a un ruolo manageriale di alto livello. Un partecipante di un nostro MBA nel 2009 oggi è vicepresidente di una grandissima azienda di credito. Aveva appena quattro anni di esperienza lavorativa».

Le soft skill prima di tutto

Poiché tra gli obiettivi dell’MBA spicca la capacità di gestire il cambiamento e le persone, le soft skill acquisiscono un peso predominante, già in fase di selezione. «Oltre a quattro test scritti, in cui verifichiamo le capacità analitiche, svolgiamo anche dei lunghi colloqui in cui valutiamo l’attitudine del candidato a risolvere problemi, essere propositivo, gestire lo stress. Anche le capacità empatiche e comunicative sono importanti: negli MBA si impara tantissimo dagli altri. Una persona che non ha nulla da offrire ai suoi compagni di classe non è il nostro candidato ideale. Ma non è il candidato ideale di nessuna azienda, se il suo obiettivo è essere un leader».

Può essere un candidato ideale, invece, chi ha nel suo bagaglio anche delle qualità creative: «Ultimamente abbiamo avuto dei partecipanti più bravi dal punto di vista artistico, persone con una laurea in economia che poi, ad esempio, sono andate a fare i videomaker. Vantavano un’incredibile capacità di visualizzare risultati e obiettivi. Per questo guardiamo con grande interesse anche alla parte più creativa e innovativa».

Come ribadisce Maiocchi, poi, diventa importantissimo sviluppare quelle competenze che per le aziende fanno la differenza: «Bisogna sapersi adattare al cambiamento e stimolarlo. Il mondo va di fretta, e offre opportunità e sfide che evolvono continuamente. Il compito di un buon leader sta anche nel trascinare il suo team in questi processi. Infine, è fondamentale saper lavorare per progetti. Tutto l’MBA è strutturato per progetti: più che una disciplina, è una vera e propria metodologia che può essere applicata a una pluralità di settori».

D HUB

 

È nata D HUB, la nuova piattaforma di digital learning del MIP! Questo nuovo strumento, pensato per offrire agli studenti un’esperienza formativa ancora più coinvolgente, rappresenta un nuovo traguardo nel percorso di innovazione digitale intrapreso dalla Scuola ormai da diversi anni.

“Quello che abbiamo notato – spiega il Prof. Federico Frattini, Associate Dean of Digital Transformation al MIP – è una maggiore richiesta di flessibilità. Le persone oggi cercano programmi post-laurea altamente personalizzati e con un forte legame con il mondo reale. Il tutto in un formato compatibile con gli impegni lavorativi e familiari. Come conseguenza di questo grande cambiamento, abbiamo sempre più studenti interessati a programmi che includono componenti digitali o persino erogati totalmente in digital learning.”

Un cambiamento che non ha colto la Scuola impreparata. Risale infatti al 2014 il lancio del Flex EMBA, il primo Executive MBA del MIP fruibile a distanza. Offrire agli studenti la possibilità di partecipare alle lezioni ovunque si trovino e in qualsiasi momento tramite un’innovativa piattaforma di digital learning non è stato che il primo passo verso un’esperienza formativa sempre più digitale e senza limiti.

Da allora, la componente digitale è diventata una parte sempre più integrante nei corsi del MIP, andando a toccare anche prodotti come i Master specialistici o l’MBA Full Time, tradizionalmente in presenza, offrendo così agli allievi una Digital Experience completa.
Questa evoluzione ha fatto nascere la necessità di dare vita a una nuova piattaforma, D HUB, ancora più innovativa e al passo con i tempi.

La nuova interfaccia grafica guida gli studenti nello studio, registrando automaticamente i progressi dell’utente, mentre la libreria di clip asincrone è stata aggiornata con nuovi video, che offrono agli allievi la possibilità di scegliere tra l’audio in inglese e quello in italiano e di attivare i sottotitoli.

A queste novità si aggiungono anche altre funzionalità utili, come un sistema di notifiche personalizzabile, la segnalazione delle clip propedeutiche alla prossima sessione live e una chat chiusa per ogni aula.
Per offrire un’esperienza ancora più completa ai nostri studenti, sarà disponibile da inizio 2020 anche la nuova versione della app dedicata.

Fashion: premiata la laurea più sostenibile

Save The Duck, il primo marchio di piumini 100% animal free, ha consegnato ieri il premio di laurea alla migliore tesi sul tema della sostenibilità nel settore fashion. Dedicato agli studenti del Politecnico di Milano, il riconoscimento è stato istituito in collaborazione con la Sustainable Luxury Academy della School of Management dell’Ateneo, un Osservatorio permanente sul lusso responsabile. In palio: 5 mila euro.

 

Save The Duck, il primo marchio di piumini 100% animal free, ha consegnato ieri il premio di laurea dall’importo di 5.000 euro, istituito in collaborazione con la Sustainable Luxury Academy della School of Management del Politecnico di Milano e volto a valorizzare la migliore tesi sul tema della sostenibilità nel settore fashion. Ad aggiudicarsi il riconoscimento con un punteggio complessivo di 23.3 su 25 sono state Tiziana Modica e Maria Giulia Zanotti con la tesi «Introducing Postponement in Global Distribution Network Design: a Sustainability Perspective». Motivazione: «Ottimo lavoro, che prende in considerazione una tematica “calda” come la riduzione di emissioni di Co2 e l’ottimizzazione dei trasporti e della distribuzione delle merci. Si tratta inoltre di un progetto di respiro internazionale e, caratteristica fondamentale, modulabile secondo le esigenze di ogni azienda». Al premio hanno potuto candidarsi tutti gli studenti che hanno conseguito il titolo di laurea magistrale nel periodo tra ottobre 2018 e luglio 2019 con votazione non inferiore a 100/110 presso il Politecnico di Milano. Le vincitrici si sono focalizzate sulla sostenibilità della supply chain nel mondo fashion, con un focus sulla riduzione delle inefficienze nel sistema dei trasporti su scala internazionale. Obiettivo: garantire alle aziende benefici tangibili sul piano sia ambientale, sia economico.

Il riconoscimento è stato consegnato nel corso del Responsible Luxury Summit, l’annuale momento di confronto della Sustainable Luxury Academy, Osservatorio permanente sul lusso sostenibile finanziato dalla School of Management del Politecnico di Milano e da Mazars per riunire le voci più influenti dell’industria dell’alto di gamma e incidere positivamente sul mercato. L’Osservatorio monitora quanto, con che politiche e risultati, le aziende italiane del lusso siano effettivamente sostenibili e propone una roadmap di azioni da intraprendere, anche grazie al dibattito tra imprese, docenti ed esperti come Carbonsink, società di consulenza specializzata in strategie di mitigazione dei cambiamenti climatici che ha portato spunti di riflessione.

IDENTIKIT DEL PREMIO — L’obiettivo del progetto promosso da Save The Duck e fortemente voluto dal founder e ceo Nicolas Bargi è investire sul futuro delle giovani generazioni e sensibilizzarle ulteriormente su un tema cruciale per la vita di tutti noi. Lanciata nel 2011, l’azienda realizza capi privi di piume, pellami, pellicce e in generale materiali/tessuti di derivazione animale. L’ultimo traguardo raggiunto è stata la certificazione B-Corp, che distingue le aziende che volontariamente rispettano i più alti standard di responsabilità e trasparenza in ambito sociale e ambientale, dando lo stesso peso agli obiettivi economico-finanziari e agli obiettivi di impatto sociale e ambientale. Tra le partnership messe a segno da Save The Duck quelle con WWF, LAV, PETA e Sea Shepherd. «Sono molto orgoglioso della collaborazione con il Politecnico di Milano, eccellenza universitaria italiana, perché ci permette di sostenere giovani che ogni giorno si impegnano per poter contribuire a trovare soluzioni più sostenibili e rendere il mondo un luogo migliore» ha commentato Nicolas Bargi di Save The Duck. «Colgo l’occasione per complimentarmi con le due giovani vincitrici perché hanno saputo affrontare in modo efficace un tema estremamente complesso e di grande impatto sul mercato fashion (e non solo)». «Questo premio va esattamente nella direzione che ci siamo prefissi – ha aggiunto Alessandro Brun, a capo della Sustainable Luxury Academy della School of Management del Politecnico di Milano e direttore del Master in Global Luxury Management –: sensibilizzare maggiormente il settore del lusso sui temi della sostenibilità e della responsabilità sociale a partire dagli studenti, dalle nuove generazioni, che avranno il compito di trasformare le strategie e le analisi in realtà quotidiana».

Entra a far parte del network di aziende del MIP

 

Le aziende ricoprono un ruolo centrale per la Scuola, assicurando ai nostri programmi un forte legame con il mondo professionale.
Insieme ai professori, infatti, entrano in aula anche manager e recruiter, che attraverso company presentation, lezioni in azienda ed eventi di networking, da una parte mettono a disposizione dei nostri studenti la propria esperienza, dall’altra hanno la possibilità di incontrare tramite un canale privilegiato i talenti di domani.

Far parte del network del MIP offre numerosi vantaggi, soprattutto in termini di employer branding. Ecco alcune delle attività che sono riservate alle aziende aderenti:

  • Accesso alla Job Board FLEXA, che consente all’azienda di creare il proprio profilo e di pubblicare offerte di lavoro e stage per gli studenti in corso o gli Alumni.
  • Possibilità di accogliere per uno stage curriculare o extra-curriculare gli studenti e gli Alumni durante la preparazione del project work finale, supervisionato da un tutor MIP. Questa rappresenta un’ottima occasione per valutare un profilo ai fini di un possibile inserimento in azienda.
  • Opportunità di avvalersi della consulenza di un team di studenti selezionati per analizzare un processo chiave scelto dall’azienda attraverso le metodologie apprese in aula.
  • Attività di recruitment presso il campus MIP o la propria sede aziendale .
  • Partecipazione a Career Day per incontrare gli studenti dei Master specialistici e degli MBA attraverso colloqui programmati o application spontanee. Il prossimo evento in programma è il 24 gennaio con gli allievi del Full Time MBA, non perdere l’occasione!
  • Attività in aula, come presentazioni per promuovere la propria azienda e le opportunità di carriera, partecipazione in veste di relatori a workshop, tavole rotonde e lezioni.
  • Possibilità di accogliere gli studenti in azienda per visite alla struttura o lezioni su tematiche specifiche.

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Perché il valore umano nell’era digitale è ancora più prezioso

La crescita della digitalizzazione è vista da tanti con preoccupazione. Eppure le nuove tecnologie possono aiutare produttività e flessibilità. A patto che i manager sappiano individuare le giuste opportunità

 

“L’interazione umana è la prima vittima dell’era digitale”. È il titolo che introduce un editoriale firmato da Vivek Wadhwa, imprenditore del settore tech, docente ad Harvard e, tra le altre cose, un entusiasta della prima ora dei social media. Con il tempo, come molti altri, Wadhwa ha cambiato idea, convincendosi che i mezzi di comunicazione digitali hanno fatto più male che bene ai rapporti interpersonali. Allo stesso modo, sono in molti a sostenere che le tecnologie digitali avanzate possano ridimensionare la centralità dell’elemento umano nel mondo del lavoro. Ma è davvero così? Una serie di dati e previsioni mostrano come in realtà sia possibile prendere delle contromisure. E come il ruolo dei manager, in questo scenario, sia centrale.

Rapporti umani: tra relazioni e connessioni

Un’indagine del World Economic Forum, condotta nel 2016 su un campione di oltre 5 mila individui sparsi per i cinque continenti, rivela una percezione diffusa in netta controtendenza rispetto ai timori di Wadhwa. Secondo la maggior parte degli intervistati, l’utilizzo dei social media ha portato una maggiore capacità di stringere amicizie nel mondo reale, di mantenere le relazioni con amici già acquisiti e con il proprio partner e – sorpresa! – anche di sviluppare una maggiore empatia.
Ma non è tutto oro quel che luccica. Se è vero che da una parte i media digitali abilitano l’interazione sociale, spesso dando rilievo alle voci delle minoranze, dall’altra parte esistono dei rischi che è lo stesso World Economic Forum a sottolineare nel report Digital Media and Society: è possibile che lo sviluppo delle capacità relazionali online non corrisponda a un analogo incremento delle social skills offline. Uno scenario a luci e ombre, insomma, che ritroviamo anche in ambito lavorativo.

Il lavoro che cambia

Le tecnologie digitali stanno plasmando forme e contenuti dell’offerta lavorativa. Tra le ricadute positive si possono annoverare un incremento della produttività e della flessibilità, in particolare nel ricorso sempre maggiore a forme di telelavoro, o di smart working, rese possibili dallo sviluppo di connessioni di rete sempre più rapide e di strumenti di comunicazione digitale sempre più efficienti. Anche in questo caso, però, non mancano i dubbi. I media digitali, infatti, possono provocare un aumento delle diseguaglianze, causate da un rapido avvicendamento nelle skill più richieste. Non è azzardato prevedere un allargamento della forbice del valore (e quindi anche di quella economica) tra i dipendenti con skill di basso livello e colleghi con abilità più evolute e preziose.

Sfruttare la tecnologia, valorizzare l’umano

Per evitare questi rischi, la figura del leader diventa centrale. Deve “avere le conoscenze e le capacità adatte a riconoscere e anticipare le tendenze digitali, capirne le implicazioni per il business e usare a proprio vantaggio la tecnologia per rimanere al passo”, afferma il report Digital Media and Society. Spetta alle organizzazioni, e quindi ai loro manager, sviluppare le strategie adeguate per integrare i media digitali nel flusso lavorativo, e agire attivamente sulle opportunità e i pericoli che i loro dipendenti dovranno affrontare. Un altro report del World Economic Forum, Our Shared Digital Future, ha suggerito delle ulteriori linee guida per affrontare la rivoluzione digitale: spicca la creazione di una rete di leader responsabili che incoraggino il reskilling dei dipendenti. Se è vero, come suggerisce il Future of Jobs Report del 2018, realizzato sempre dal WeF, che entro il 2022 l’automazione sottrarrà agli esseri umani percentuali importanti di carico di lavoro, diventa infatti fondamentale la valorizzazione di quelle attività che le intelligenze artificiali ancora non riescono a svolgere: un paradosso apparente, ma il vantaggio competitivo di aziende e lavoratori dipenderà sempre più dalla capacità di dimostrarsi inimitabilmente umani. A dispetto di qualsiasi innovazione digitale.

Symplatform: un simposio internazionale sulle piattaforme digitali

 

Negli ultimi anni la rilevanza dei modelli di business basati su piattaforme è aumentata significativamente. Aziende come Airbnb, Uber o BlaBlaCar hanno mostrato le grandi potenzialità dei modelli di business che hanno come obbiettivo il matchmaking di vari gruppi di clienti, come viaggiatori e host, cavalcando le opportunità delle tecnologie digitali.

Siamo felici di lanciare la prima edizione di Symplatform, un symposium sulle piattaforme digitali che si pone l’obiettivo di unire accademici e practitioner.
Symplatform è un progetto sviluppato in collaborazione da Trinity College Dublin, Politecnico di Milano School of Management e Audencia Business School.

La prima edizione avrà luogo al Trinity Centre for Digital Business presso il Trinity College Dublin il 16 e il 17 aprile 2020.

Il symposium sarà basato su vari format: sessioni parallele con presentazioni di paper accademici, sessioni guidate dai practitioner “Pitch your challenge” e workshop collaborativi che possano indicare possibili sviluppi per il field delle piattaforme digitali.
Su symplatform.com sono disponibili informazioni aggiuntive sull’evento.

Le medie imprese ad alta crescita in Europa: il dataset RISIS-Cheetah

 

Oltre 42 mila medie imprese ad alta crescita in 30 paesi europei: sono le ‘Cheetah firms’, mappate grazie al dataset RISIS-Cheetah sviluppato dai ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, in collaborazione con l’Università del Sussex.

Il 24 Ottobre, a Bruxelles, si è tenuto il primo Policy meeting del progetto RISIS2, focalizzato sulle prime evidenze empiriche derivanti dal dataset RISIS-Cheetah e sulla rilevanza politica di questa categoria di imprese. RISIS2 è un progetto finanziato nell’ambito del programma Horizon 2020, e ha l’obiettivo di fornire un’infrastruttura di ricerca Europea per supportare lo sviluppo di nuovi dataset e di indicatori.

La discussione sulle ‘Cheetah firms’ è stata guidata da Massimiliano Guerini, professore della School of Management, e da Roberto Camerani, ricercatore dell’Università del Sussex. “Le Cheetah firms sono imprese di medie dimensioni che hanno registrato una crescita eccezionale. Queste imprese possono svolgere un ruolo chiave per favorire la crescita economica e la creazione di nuovi posti di lavoro”, commenta Guerini. “Con il progetto RISIS siamo ora in grado di studiarle e di comprendere meglio i loro driver di crescita“.

Le imprese ad alta crescita hanno ricevuto notevole attenzione da parte di studiosi, accademici e policy makers, dal momento che giocano un ruolo cruciale per la creazione di nuovi posti di lavoro. Ad esempio, è noto che la maggior parte delle imprese non registra performance di crescita elevata e che, se questo avviene, i fattori alla base del processo di crescita sono difficili da prevedere. Inoltre, si sa che tassi di crescita sostenuti tendono a non persistere nel tempo.

Ciononostante, l’evidenza empirica disponibile tende a concentrarsi su imprese di piccole dimensioni, start-up o su imprese di grandi dimensioni, mentre la dinamica di crescita delle imprese di media dimensione è poco nota. Eppure, le medie imprese possono fornire un contributo significativo per sostenere l’espansione occupazionale dell’economia europea.

L’evento aveva come obiettivo discutere il ruolo cruciale rivestito dalle ‘Cheetah firms’ nella creazione di posti di lavoro, con l’idea di fornire nuovi spunti di riflessione per lo sviluppo di politiche a supporto della crescita, presentando i risultati principali ottenuti tramite il dataset RISIS-Cheetah, in particolare sulla distribuzione geografica, sulla specializzazione settoriale e sui processi di agglomerazione che caratterizzano le medie imprese europee ad alta crescita, rispetto alle altre medie imprese europee che non hanno sperimentato la stessa performance di crescita elevata.

SOM per i SDGs: il premio per le tesi con impatti sui Sustainable Development Goals

 

Claudia Cuttini, Celine De Vincenzi, Giulia Montuori, Anabel Velazque, Rocco Abbattista, Giulia Madoglio, Sonia Saibene: sono i vincitori dell’edizione 2019 del premioSOM per i SDGs”, premiati ieri in occasione dell’evento “School of Management per il Non Profit” che si è tenuto presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale.

Il premio è destinato a Tesi e Project Work finali di Alumni della School of Management con impatto sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, che rappresentano un contributo per risolvere le sfide sociali del nostro tempo e propongono modelli di sviluppo sostenibile sul piano ambientale, economico e sociale.

Sono state 27 le candidature ricevute (18 Laureati Magistrali in Ingegneria gestionale e 9 Alumni MBA e altri Master MIP), valutate in base a quattro criteri: impatto sui SDGs, contenuto innovativo, metodologia utilizzata, trasferibilità e replicabilità dei risultati.

Nelle loro tesi di Laurea Magistrale, Claudia Cuttini e Celine De Vincenzi hanno lavorato sul tema della riduzione degli sprechi alimentari lungo la supply chain agri-food, mentre Giulia Montuori sul ruolo dell’esperienza del paziente nelle terapie contro il cancro.

I project work vincitori trattano invece temi come Data Science, di Anabel Velazque (Master in Business Analytics and Big Data) e ambiente, di Rocco Abbattista, Giulia Madoglio, Sonia Saibene (International Part Time MBA).

L’evento aveva anche lo scopo di incontrare le organizzazioni del terzo settore per condividere le esperienze sviluppate e i risultati raggiunti all’interno del programma “School of Management per il Non Profit”, nonché dare avvio a un nuovo ciclo di collaborazione.

Lo sviluppo delle relazioni con le organizzazioni non profit e le imprese sociali occupa un posto centrale nel programma, che è stato lanciato nel 2017 con l’obiettivo di valorizzare e inserire in una strategia coerente le iniziative della Scuola legate alla sostenibilità sociale ed ambientale e all’etica del business.

Il programma rappresenta uno spazio di collaborazione e confronto reciproco con il mondo non profit, facilita il contatto di tali organizzazioni con gli studenti, i docenti e lo staff della Scuola per mettere a disposizione competenze e sviluppare progetti comuni.

In tre anni più di 400 studenti si sono messi alla prova affrontando le sfide di conoscenza e di gestione che sono state poste da organizzazioni non profit ed imprese sociali, conducendo più di 100 progetti tra tesi di Laurea Magistrale e project work, con la guida di 20 professori e ricercatori.

Le organizzazioni sociali sono viste da un numero sempre maggiore di studenti e docenti della Scuola come attori centrali dell’economia e della società, e il terzo settore diventa sempre più spesso ambito applicativo dell’Ingegneria Gestionale, con una crescita anche dell’interesse scientifico.

Le internship per gli studenti e laureati della Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale e del MIP Graduate School of Business sono un altro modo di scambiare conoscenza.

Oltre alla didattica, progetti di ricerca sono stati condotti con diverse organizzazioni, ma si mira a rafforzare le opportunità per attività congiunte di dimostrazione, capacity building e ricerca. Infine, la Scuola assiste le organizzazioni non profit e le imprese sociali nell’affrontare le loro necessità di formazione.