Smart Export – L’accademia digitale per l’internazionalizzazione

Mercoledì  10 marzo 2021 ha avuto luogo in formato virtuale la presentazione dell’iniziativa Smart Export – L’accademia digitale per l’internazionalizzazione, un progetto innovativo di alta formazione online per sostenere e ampliare la proiezione italiana verso i mercati esteri attraverso il rafforzamento della capacità strategica, digitale e manageriale delle micro, piccole e medie imprese e dei professionisti italiani.

Smart Export è coordinato e promosso dalla Farnesina in collaborazione con Agenzia ICE e la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) nell’ambito delle nuove strategie per il sostegno al Made in Italy del “Patto per l’Export”.

Il progetto si avvale del contributo didattico di cinque prestigiose Università e Business School italiane: Bologna Business School, Federica Web Learning – Università di Napoli Federico II, Luiss Business School, MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business e SDA Bocconi School of Management.

La presentazione del progetto è stata inaugurata dagli interventi del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Luigi Di Maio, del Ministro dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, del Presidente dell’Agenzia ICE, Carlo Ferro e del Presidente CRUI, Ferruccio Resta.

Dopo il segmento di apertura, i rappresentanti delle Università e Business School hanno illustrato i singoli percorsi formativi di cui si compone l’iniziativa. I contenuti didattici – fruibili in modalità e-learning e completamente gratuiti –  saranno on-line per 12 mesi, 24 ore al giorno, sulla piattaforma di autoapprendimento Federica Web Learning dell’Università di Napoli Federico II accessibile attraverso la pagina dedicata https://www.smartexportacademy.it/.

Cliccando qui si potrà inoltre scaricare una brochure dedicata all’iniziativa.

Leadership e purpose: così l’aspetto umano torna al centro del business

Dalla consapevolezza alla sostenibilità. Perché oggi è così importante che i manager guidino le aziende mettendo al centro l’elemento umano? Ce lo raccontano Arrigo Berni e Josip Kotlar, presentando l’Executive Programme in Leading with Purpose.

Affrontare le sfide del presente sostenuti da un’intenzione consapevole, un motivo che spinge a perseguire uno scopo o un obiettivo. In una sola parola, dal purpose. È la prova che attende i leader di oggi e di domani, chiamati a confrontarsi con scenari e sfide sempre più interconnesse e con consumatori che valutano i brand sulla base del loro contributo alla società: «Negli ultimi decenni le condizioni materiali di vita a livello globale sono migliorate enormemente. E la natura umana è tale per cui al soddisfacimento di una classe di bisogni, in questo caso materiali, nascono nuovi bisogni, in questo caso immateriali, di significato», spiega Arrigo Berni, founding partner di The Mind at Work Italy e Adjunct Professor del MIP Ma non solo. Il progressivo peggioramento delle condizioni ambientali impone un ripensamento delle ragioni alla base delle attività economiche: «Definire il purpose di un’attività», spiega Josip Kotlar, direttore dell’ Executive Programme in Leading with Purpose erogato da MIP Politecnico di Milano con la collaborazione di The Mind at Work, «è fondamentale per portare al centro del business, in maniera coerente, l’aspetto umano. Finora abbiamo assistito a una sorta di divisione tra le attività economiche e quelle di responsabilità sociale di impresa. Il nostro intento è usare il purpose per promuovere una visione più integrata di questi due aspetti che non sono separati, ma che devono stare assieme per essere sostenibili».

Consapevolezza, la chiave per la complessità

Un cambiamento epocale, che richiede leader consapevoli: «La leadership intenzionale», spiega Berni, «è contraddistinta da una grande consapevolezza di sé e dalla capacità di dare significato alla realtà, anziché reagire ad essa. A questo, un leader guidato dal purpose associa capacità di generare relazioni collaborative con gli altri e abilità nell’elaborare rappresentazioni corrette della realtà in cui opera».

Un approccio che può essere anche letto come un’evoluzione dei metodi con cui l’uomo, da sempre, cerca di elaborare strategie efficaci. Come spiega Kotlar, «è importante che le decisioni siano guidate da quella che possiamo definire “coscienziosità”. Oggi, però, gli strumenti tradizionali con cui vengono assunte le decisioni sono commodities a disposizione di qualsiasi azienda. Non costituiscono più un vantaggio competitivo. Sono necessari nuovi approcci che portino a decisioni coscienziose. Il purpose è rilevante perché offre un nuovo set di strumenti con cui maneggiare la complessità, senza limitarsi a una visione tecnicistica, e quindi limitata, del mondo».

Il cambiamento sostenibile passa dal purpose

I vantaggi di una leadership ispirata dal purpose derivano soprattutto dall’abbandono di una visione incentrata superficialmente sul “cosa” e sul “come”. «Un approccio», sottolinea Berni, «che sacrifica la consapevolezza delle intenzioni sottostanti una decisione e che porta a risultati non solo scarsamente sostenibili nel tempo, ma anche inferiori alle possibilità, perché non riesce a trasmettere energia all’intera organizzazione». Facendosi guidare dal purpose, invece, «i risultati si fondano su cambiamenti strutturali e quindi sostenibili nel tempo, perché figli di una visione sistemica della realtà aziendale e i risultati sono superiori, perché frutto di energia superiore, a livello sia individuale che collettivo».

Un corso per sviluppare i propri punti di forza

Dalla volontà di incoraggiare un cambiamento positivo nel mondo, il MIP Politecnico di Milano ha deciso quindi di avviare l’Executive Programme in Leading with Purpose: «Si basa sul modello innovativo di digital learning FLEX», spiega Kotlar. «Coniuga una formazione d’impatto con la massima flessibilità. Il programma è composto da 8 moduli tematici, ciascuno formato da una combinazione di brevi clip, una sessione di domande/risposte live e quattro lezioni interattive. Il programma si conclude con un project work che permette ai partecipanti di mettersi alla prova su progetti reali; offre inoltre una sessione di coaching che supporta i partecipanti nel lavoro su se stessi, per scoprire e sviluppare i punti di forza interiori, al fine di migliorare la capacità di innovare, sviluppare l’imprenditorialità e altri aspetti della leadership. È un programma che offre ampia flessibilità di indirizzare il proprio percorso personale».

“Da know HOW a know WHERE”.

Con queste poche parole Federico Frattini, Dean del MIP Business School del Politecnico di Milano, descrive il progetto FLEXA, piattaforma di personalised and continuous learning basata su meccanismi di Artificial Intelligence sviluppata negli ultimi 4 anni da un Team di oltre 20 persone e che viene a ragione considerato uno degli esperimenti più innovativi e riusciti per rendere la formazione un’abitudine virtuosa cui dedicare tempo ogni giorno.

Federico ne parla con emozione e orgoglio in una recente intervista rilasciata al Sole24Ore nella quale il MIP comunica la decisione di aprire gratuitamente FLEXA agli utenti privati che vogliono intraprendere un percorso di reskilling personale.

Ma da dove nasce questo progetto, e che ruolo gioca OfCourseMe in FLEXA?

Il tutto risale alla primavera del 2018 quando OfCourseMe e il Team FLEXA si incontrano per la prima volta per condividere la propria Visione di come fosse necessario costruire dei percorsi di formazione continua sfruttando la ricchezza di contenuti formativi a libero accesso sul Web.

“Negli ultimi 15 anni abbiamo infatti assistito a una crescita esponenziale nel numero di fonti e formati per il personalised and continuous learning” ricorda Frattini “ma nessuno si era ancora posto il problema di organizzare questa abbondanza e renderla fruibile in modo guidato per le persone, partendo da un’analisi delle proprie competenze. Abbiamo visto l’opportunità di colmare questo gap con FLEXA e abbiamo incontrato OfCourseMe al momento giusto.”

FLEXA nasce infatti con lo scopo di aiutare gli utenti a capire i propri gap e a costruire dei percorsi formativi, traducendo in prodotto l’esperienza accademica del MIP; tuttavia, una delle sfide che deve affrontare è l’organizzazione dei contenuti. Esattamente come un professore, che deve orientare lo studente all’interno di una biblioteca ricchissima seppur molto eterogenea e dispersiva.

È proprio qui che entra in gioco OfCourseMe: nato come un motore di ricerca che organizza e normalizza decine di migliaia di contenuti formativi online, OfCourseMe si è dimostrato da subito un partner prezioso per il Team FLEXA. Utilizzando le API di OfCourseMe FLEXA ha infatti potuto fruire in outsourcing di un potente motore di ricerca che aggrega e classifica oltre 500.000 titoli, in oltre 20 lingue e in svariati formati.

OfCourseMe ci ha messo a disposizione funzionalità che difficilmente avremmo potuto sviluppare e mantenere nel tempo in modo indipendente. Inoltre, OfCourseMe continua ad aggiungere nuove fonti ogni mese e noi possiamo sempre sfruttare i contenuti più freschi dal Web per offrire raccomandazioni personalizzate agli utenti del nostro prodotto, il tutto in modo completamente automatico.” chiosa Frattini.

Quali dunque i prossimi passi?

Ad oggi FLEXA accoglie oltre 3.000 utenti: principalmente Alumni o studenti dei Master del MIP. L’idea è ora quella di portare presto FLEXA fuori dal perimetro in cui l’iniziativa è nata.

Fin dal primo scambio di opinioni in merito, è stato chiaro l’allineamento strategico tra noi e il team FLEXA” conclude Davide Conforti, CEO di OfCourseMe. “L’ambizione ora è quella di lavorare assieme per rendere il personalised and continuous learning in azienda una routine virtuosa, in un contesto in cui upskilling e reskilling sono diventate imperativi categorici.”

FLEXA e OfCourseMe vantano una soluzione assolutamente eccellente che va dagli assessment, alle raccomandazioni di contenuti formativi, alla curation on demand, all’indicizzazione di contenuti proprietari…. Sostanzialmente tutto quello che serve per essere pronti al futuro.

Includere a distanza: la sfida del benessere nella società post-Covid

La pandemia di Sars-Cov2 ha affermato il ruolo dell’abitazione come luogo centrale di lavoro e vita privata, stravolgendo tutti i modelli sociali tradizionali. La tecnologia ha permesso di portare avanti il sistema economico in modo efficace anche a distanza, ma quali sono le conseguenze della “remotizzazione” sul benessere degli individui? La School of Management propone una piattaforma multidisciplinare per lo studio di benefici e costi sociali della remote economy.

 

Lucio Lamberti, Professore Ordinario di Multichannel Customer Strategy, Coordinator of the Physiology, Emotion and Experience Lab
Alessandro Perego, Direttore accademico School of Management Politecnico di Milano

L’inclusione e l’inclusività sono temi fondamentali per lo sviluppo sostenibile: una questione ampia, multidimensionale, che richiede non solo uno sforzo trasversale, ma chiare progettualità verticali attraverso le quali contribuire a un reale progresso collettivo. Tra le varie iniziative intraprese dalla nostra Scuola, una rappresenta per noi un tema che concilia le nostre sensibilità, le nostre competenze e il tipo di contributo che la nostra istituzione può offrire: l’analisi delle ricadute della mediazione tecnologica dei rapporti di studio e lavoro.

La pandemia di Sars-Cov2 ha infatti riaffermato il ruolo dell’abitazione come luogo centrale di lavoro, vita privata, acquisto, raccolta di informazioni, studio, intrattenimento, attraverso l’enorme accelerazione di fenomeni come il Working From Home (WFH) e il distance learning.
Negli ultimi mesi, con una virulenza e una rapidità impensabili, si sono trasformati i modelli sociali degli individui e delle famiglie. Milioni di persone hanno cominciato a lavorare e studiare assiduamente da casa, e, per quanto possa essere presumibile una forma di ritorno a dinamiche sociali più canoniche una volta – si spera presto – rientrata la fase pandemica, si stanno iniziando a osservare fenomeni di alienazione (o perlomeno depauperazione del valore esperienziale) legati alla perdita della dimensione fisica della socialità, se non addirittura manifestazioni della cosiddetta Sindrome della Capanna (o del Prigioniero), ovvero la paura del ritorno a una normale interazione fuori casa con il resto del mondo di chi è costretto a restare chiuso in uno spazio per un tempo più o meno lungo.

Inoltre, dopo una fase di attenzione all’abilitazione tecnologica e organizzativa del WFH e del distance learning, è giunto il momento di valutarne l’efficacia comparata ai modelli tradizionali. Ci troviamo di fronte a fenomeni di portata storica: da un lato, si pone un tema di inclusione e tenuta sociale, in quanto la remote economy estremizza le conseguenze di distacco sociale delle fasce meno digitalizzate della popolazione, che spesso sono anche le fasce più vulnerabili della popolazione (es. famiglie a basso reddito, anziani, disabili).
D’altro canto, nella complessissima equazione sociale che stima benefici e costi sociali di una progressiva “remotizzazione” del lavoro e della formazione, i termini relativi all’efficacia (qualità dell’apprendimento, produttività, innovatività, ecc.) e al benessere degli individui coinvolti (soddisfazione, qualità di vita, socialità) risultano ancora sostanzialmente ignoti.

Si tratta di driver di coesione sociale, benessere individuale, efficienza ed efficacia nel lavoro e nello studio, sviluppo relazionale ed emotivo che, ragionando per estremi, potrebbero essere conquiste epocali in grado di generare sviluppo sostenibile (meno traffico, meno inquinamento, maggiore inclusività, rivitalizzazione delle aree non urbane), o pericolose minacce di deterioramento del benessere economico, della qualità di vita e della qualità del capitale umano, se non di ingenerazione di tensioni individuali, familiari e sociali.

La School of Management ha intrapreso un percorso di ricerca multidisciplinare e multipiattaforma sul benessere dell’individuo nella remote economy volto specificatamente a qualificare e quantificare le dinamiche di relazione, ingaggio e produttività legate al WFH, le dimensioni dell’efficacia del distance learning, i fattori di costo e beneficio sociale della “remotizzazione” dei rapporti di studio/lavoro.

Per fare questo, si vuole (e si deve) attingere all’ampio ventaglio di competenze che la Scuola può esprimere: il MIP, business school ai vertici mondiali nel distance learning; gli Osservatori Digital Innovation, che analizzano da più di dieci anni fenomeni come lo Smart Working, la digitalizzazione delle case e i modelli di relazione mediati dalle tecnologie; il Laboratorio IOT, che sviluppa e studia modelli di interfaccia tra gli individui e dispositivi connessi; il Laboratorio Pheel, che studia e misura, in chiave multimodale e a partire dalla biometria, l’efficacia e la reazione delle interfacce e delle esperienze sugli individui.

Ma anche un ventaglio così ampio di competenze rischia di non riuscire ad abbracciare la complessità del tema. Per questo, in ossequio al nostro piano strategico e a quello del nostro Ateneo, stiamo creando un sistema di relazioni con le altre anime del nostro Politecnico (ad esempio, i dipartimenti di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, Fisica, Ingegneria Civile, Meccanica, Design), con centri di ricerca in domini disciplinari altri da quelli politecnici (Psicologi e Sociologi, in primis), e con imprese e istituzioni co-interessate al tema.

La nostra piattaforma intende creare ambienti sperimentali che riproducano l’esperienza domestica per consentire la conduzione di esperimenti sulle esperienze di WFH e smart learning in termini di ergonomia, isolamento acustico, contestualizzazione, impatto dei materiali, user experience e dinamiche di produttività. Coerentemente con le attività di riflessione strategica sullo smart working del nostro Ateneo, intendiamo esplorare il tema del bilanciamento tra lavoro in presenza e a distanza per individuare soluzioni in grado di compendiare i vantaggi di entrambi limitandone le possibili aree di debolezza. A livello metodologico, intendiamo lavorare con dispositivi wearable a bassa invasività per condurre ricerche su benessere e stress con disegni longitudinali su panel mirati di popolazione. Per valutare l’efficacia di interventi educativi e di pratiche didattiche intendiamo sviluppare spazi di simulazione 3D, realtà aumentata e realtà virtuale e di prototipizzazione di interfacce di distance learning.

La chiave del progetto è la sua multidisciplinarietà: i problemi dello sviluppo sostenibile sono troppo complessi e multi-sfaccettati per essere affrontati in modo realmente efficace all’interno di un’area disciplinare come l’economia, il management o l’ingegneria.
E’ la contaminazione, l’inclusione culturale la vera chiave di innovazione, ed è in questa direzione che le istituzioni di ricerca, in ogni campo, dovrebbero muoversi.

 

3D Business Game Experience

Digital Workplace

The current pandemic situation led to significant changes in terms of working relationships and communication, team collaboration, people commuting and office locations.

Do you have a disruptive idea, based on which you would like to open a consulting/start-up company that offers services to companies to cope efficiently with the current situation?

Then, the 3D Business Game Experience is the perfect challenge for you!

3D Business Game Experience is a 7-week business game powered by Ekip Reply and launched by MIP that aims at generating disruptive ideas concerning Digital Workplace topics.

Every week participants will be able to challenge themselves, while sharing ideas with peers and experts.

Take part to the international competition and get ready to enter the virtual world of avatars: we’re looking forward to listening to your ideas!

Join us on March 15th to discover how to participate in the Business Game organized by MIP with Ekip Reply.

Please, note that the 3D Business Game Experience is open only to MIP and current students.

L’inclusione lavorativa: saperci tutti diversi aumenta il potenziale competitivo

Possiamo ancora accettare che l’in-clusione venga spesso sostituita da una re-clusione? Non è solo una questione di etica: il riconoscere che ogni operatore ha un suo potenziale valore per l’azienda diventa una leva per configurare sistemi produttivi sempre più competitivi.

 

Guido J.L. Micheli, Professore associato di Industrial Plants Engineering and Management
School of Management Politecnico di Milano

In ogni cosa esistono dei tempi minimi necessari perché una evoluzione cominci a dare qualche effetto. Nel nostro Paese la costituzione recita che l’Italia è una “Repubblica […] fondata sul lavoro”, tuttavia solo negli ultimi decenni si è cominciato ad affrontare in qualche modo il problema dell’inclusione lavorativa degli operatori disabili, che – salvo rarissimi casi – non presentano le caratteristiche “standard” che le aziende ricercano nei propri impiegati.

Semplificando, il processo si muove attualmente su due fronti. Da una parte, un grande numero di aziende è obbligato per legge ad assumere operatori disabili; dall’altra, esistono aziende (le cooperative sociali di tipo B) il cui fine ultimo è quello di preparare al lavoro persone disabili (anche dette, in questo caso, “svantaggiate”). Nella grande casistica delle aziende che sono obbligate ad assumere personale disabile, la deriva assai frequente è alternativamente l’assunzione di una persona che viene poi “isolata” in compiti di poco valore per l’azienda stessa (in altre parole, assunti ma non inclusi) oppure la scelta deliberata di pagare le penali annesse alla non assunzione, considerate paradossalmente “sostenibili” se confrontate con l’onere della gestione di una persona considerata di poco valore aggiunto.
Perché questa situazione? La motivazione è, tutto sommato, abbastanza semplice: le aziende sono abituate e vogliono continuare a lavorare in situazioni in cui ogni attività, macchina, attrezzatura, luogo, processo è progettato per persone “standard”. Ogni differenza è vissuta come origine di inefficienza.

È senz’altro vero che la formazione iniziale e continua degli operatori disabili è in certi casi significativamente maggiore, ma perché? Una delle risposte è facilmente identificabile: lo sforzo nella formazione/preparazione degli operatori disabili a qualsivoglia mansione lavorativa è collegato all’obiettivo stesso di tale formazione, ossia fornire loro le stesse capacità di operatori non disabili. In altre parole, anche la formazione che le aziende immaginano e mettono in pratica non è inclusiva, bensì volta ad uniformare gli operatori disabili agli altri.

Cosa occorrerebbe fare per cambiare lo status quo?

Serve un profondo cambiamento culturale. Le aziende devono studiare criticamente i propri processi, per identificarne le porzioni che possano essere svolte con caratteristiche “diverse”; così facendo, tali “caratteristiche diverse” non richiedono più uno sforzo per essere adeguate e incluse, ma diventano naturalmente funzionali, e quindi naturalmente incluse.

Questo tipo di analisi è ciò che le cooperative sociali (aziende manifatturiere o agricole vere e proprie, che impiegano primariamente operatori disabili) devono necessariamente fare ogni giorno, per capire ad esempio come un processo di assemblaggio possa essere “suddiviso e supportato” per essere efficientemente ed efficacemente svolto da operatori disabili, spesso diversissimi fra loro.

Questa attenzione ai processi porta come effetto secondario una semplificazione degli stessi, e quindi una riduzione degli errori, che si traduce in una riduzione degli scarti, e complessivamente in un aumento dell’efficienza.
Allora, l’avere coscienza che in azienda tutti sono “diversi”, può diventare un’importante leva di cambiamento: ogni attività, macchina, attrezzatura, luogo, processo, che una volta erano progettati per persone “standard”, possono essere finalmente progettati in maniera operatore-centrica e non standard-centrica.

A cosa serve la flessibilità dei componenti dei sistemi produttivi (macchine, linee, ruoli, …), tanto ricercata negli ultimi decenni, se poi non viene usata in modo continuativo per rivedere i processi e le mansioni, alla ricerca di una sempre migliore configurazione complessiva del sistema? Se questo fosse l’approccio, l’inclusione non sarebbe più da ricercare come tale.
Stiamo comprendendo che l’inclusione non può essere forzata: se viene imposta, come da approccio legislativo , in molti casi si trasforma in reclusione. Invece, il riconoscere che ogni operatore ha un suo potenziale valore per l’azienda diventa una leva per configurare sistemi produttivi e renderli sempre più competitivi.

D’altronde, chi di noi non ha mai pensato “ho in mente la persona giusta per questo”? Ecco, si tratta semplicemente di cominciare a riconoscere in tutte le persone – comprese quelle disabili – i rispettivi punti di forza.
Partiamo da qui. E non chiudiamo gli occhi: qualche azienda già lo fa!

CFA Research Challenge 2021: il team del Politecnico di Milano vince la fase italiana

I cinque ingegneri gestionali della School of Management battono l’Università di Napoli Federico II e l’Università Luiss Guido Carli con l’analisi finanziaria di ERG e si preparano alla regionale EMEA. La finale globale si terrà il prossimo 22 aprile.

 

Milano, 3 marzo 2021 – Il team del Politecnico di Milano vince la finale italiana della CFA Research Challenge 2021, competizione mondiale di finanza targata CFA Institute e promossa nel nostro Paese da FactSet e Kaplan Schweser.

La finale si è svolta online lunedì 1 marzo, e ha visto il coinvolgimento di dieci atenei, 47 studenti e oltre 30 professionisti. Alla fase italiana, coordinata da CFA Society Italy, hanno partecipato i team rappresentanti le seguenti università: Università Cattolica, Politecnico di Milano, Ca’ Foscari di Venezia, Università di Roma Tor Vergata, Università di Firenze, Università di Bologna, Libera Università di Bolzano, Università Luiss Guido Carli, Università Politecnica delle Marche e Università di Napoli Federico II.

Gli studenti Riccardo Mellara, Davide Muffolini, Lorenzo Chiesa, Nicola Guidi, e Andrea Baronchelli sotto la guida dei docenti Laura Grassi e Marco Giorgino e del mentor CFA Alberto Mari, hanno presentato la loro analisi finanziaria sul titolo di ERG a una giuria di sei esperti del settore finanziario: Emanuele Oggioni (Banca Akros), Dennis Montagna, CFA (Credit Suisse), Alberto Chiandetti, CFA (Fidelity International), Carla Scarano (Anima SGR), Luca Forlani, CFA (Eurizon Capital), Pinuccia Parini (Fondi e Sicav). Il secondo e terzo posto sono stati assegnati rispettivamente all’Università di Napoli Federico II e all’Università Luiss Guido Carli.

Il Politecnico di Milano proseguirà direttamente per la finale regionale EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa), che si terrà il prossimo 20 aprile. A testimonianza dell’elevata qualità dei nostri studenti e dei professionisti che li seguono, già nel 2016, 2014 e 2011 l’Italia si è aggiudicata la finale regionale EMEA.

La finale mondiale, invece, si disputerà il 22 aprile 2021, mettendo a confronto i vincitori di EMEA, America e Asia Pacifico. 

“CFA Society Italy, nella sua attività pluriennale, ha costruito un’intensa relazione con le università italiane per promuovere i principi di integrità ed eccellenza professionale presso le giovani generazioni”. Ha affermato il coordinatore del progetto, Giuseppe Quarto di Palo, CFA. “Siamo felici di poter offrire alle università e ai loro talenti l’opportunità di misurarsi in una competizione realistica, volta a riprodurre l’esperienza di un ufficio di ricerca di società di gestione o di case di investimento. Ai migliori studenti offriamo, inoltre, borse di studio per accedere al Programma CFA, al fine di ottenere una certificazione globalmente riconosciuta nel settore finanziario”.

“Questa iniziativa consente di raggiungere alcuni obiettivi importanti nel mondo della formazione e delle accademie. Innanzitutto, avvicinare gli studenti al mondo del lavoro, combinando le conoscenze accademiche con le tecniche e gli strumenti utilizzati dai professionisti del settore finanziario. Il secondo obiettivo è quello di dare risalto alle nostre eccellenze universitarie italiane a livello europeo e mondiale”. Ha commentato il presidente di CFA Society Italy, Giancarlo Sandrin. “Questo progetto non potrebbe esistere senza il prezioso contributo dei volontari dell’associazione e dei partner che hanno sostenuto l’iniziativa FactSet, Kaplan Schweser e ERG, società oggetto di ricerca da parte degli studenti”.

“Anche in questa quarta edizione, FactSet ha avuto il piacere di supportare la CFA Research Challenge offrendo la sua piattaforma analitica a tutti gli studenti, professori e mentor”. Ha sottolineato Dorin Agache, Account Manager FactSet. “Quest’anno abbiamo visto un maggior coinvolgimento da parte delle Università partecipanti che hanno colto il valore della competizione utilizzando appieno anche la versione FactSet Web per effettuare l’analisi finanziaria di ERG. Un in bocca al lupo al team del Politecnico di Milano per la fase EMEA!”.

 Con la vittoria italiana della CFA Research Challenge, siamo davvero orgogliosi del livello che ogni anno i nostri ragazzi mostrano sui temi finanziari e che rappresenta la qualità degli studi che questo Ateneo offre”. Sono le parole espresso dai docenti del Politecnico di Milano Marco Giorgino e Laura Grassi.

 La CFA Research Challenge è stata sotto ogni aspetto una delle sfide più grandi della nostra vita. Nonostante questo, i risultati ottenuti e la crescita personale e professionale, ripagano tutti gli sforzi di questi mesi. Abbiamo avuto l’onore di collaborare con un grande esperto del settore, il nostro mentore, Alberto Mari CFA e con i nostri docent Marco Giorgino e Laura Grassi: a loro dedichiamo questo traguardo. Non vediamo l’ora di rappresentare l’Italia alla fase regionale EMEA e cercare di strappare il titolo di vincitori!”. Il primo commento espresso dal team vincitore del Politecnico di Milano.

Autostrade per l’Italia lancia un master per assumere 20 giovani laureati

L’iniziativa nasce dalla collaborazione con Politecnico di Torino, Politecnico di Milano e MIP, la Graduate School of Business dell’ateneo milanese, e prevede un contratto in azienda per gli studenti selezionati.

Al via la selezione dei candidati per il Master universitario di secondo livello in “Ingegneria e gestione integrata delle reti autostradali”, lanciato da Autostrade per l’Italia insieme alla Scuola di Master e Formazioni Permanente del Politecnico di Torino, il Politecnico di Milano e il MIP, la Graduate School of Business dell’Ateneo Milanese, grazie a una partnership siglata per individuare e far crescere professionalmente giovani talenti.

Il Master, promosso da Autostrade per l’Italia, rappresenta una concreta opportunità occupazionale per 20 neolaureati under30 e vedrà fin dal suo avvio l’effettiva assunzione in azienda dei ragazzi selezionati, con un contratto in apprendistato di alta formazione della durata di due anni. In questo periodo, attraverso la formazione accademica e il lavoro sul campo, i ragazzi potranno contribuire alla realizzazione del Piano di Trasformazioni di ASPI, grazie ad un programma formativo teso a rafforzare competenze ingegneristiche di progettazione, gestione trasportistica, manutenzione e controllo delle infrastrutture stradali, oltre alla competenze digitali applicate all’infrastruttura (Monitoraggio IoT, Infrastrutture Smart Mobility) e competenze manageriali di project management, per garantire profili in uscita in grado di governare processi complessi di sviluppo e progettazione della rete autostradale. L’obiettivo è quello di formare talenti che sappiano distinguersi nella ricerca e nell’attuazione di soluzioni innovative nell’ambito della gestione e del monitoraggio delle reti autostradali, accompagnando l’azienda nel percorso di digital transformation prevista dal Piano industriale di Autostrade per l’Italia.

Questa iniziativa nasce in seno alla Autostrade Corporate University, la nuova scuola di formazione aziendale del Gruppo, riconosciuta dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri, nata nell’ambito del più vasto programma di HR Transformation avviato dalla società e in grado di erogare corsi per oltre 100.000 ore annue ad oltre 4.000 dipendenti, sia in modalità tradizionale che e-learning, avvalendosi di docenze certificate interne e di selezionati professionisti sul mercato, oltre che di partnership con le principali Università italiane. Il Master di secondo livello in “Ingegneria e gestione integrata delle reti autostradali” partirà nel mese di maggio 2021 e durerà per 24 mesi, mentre le selezioni (link) si chiuderanno il giorno 31 marzo 2021.

“Siamo orgogliosi di aver stimolato tre eccellenze italiane a collaborare con Autostrade Corporate University per la costruzione del Master” ha affermato Gian Luca Orefice, Human Capital & Organization Director di ASPI. “Un’iniziativa di rilievo che risponde alla filosofia di rendere la nostra infrastruttura un’autostrada dei saperi. Un luogo per sviluppare, promuovere e scambiare competenze sempre più in linea con l’innovazione tecnologica di processo, metodi e prodotto. La nostra strategia punta a valorizzare i mestieri e le professioni per garantire l’eccellenza delle conoscenze al servizio del Paese. Cominciamo dalle scuole e dall’Università il nostro on-boarding, per crescere persone consapevoli verso un futuro sostenibile”.

“Il Master – afferma Fabio Biondini, Direttore scientifico del Master – si inquadra nell’ambito di una crescente attenzione al settore delle infrastrutture legata alla necessità di garantire livelli di sicurezza, funzionalità e resilienza sempre più elevati e un utilizzo sostenibile delle risorse naturali ed energetiche che condiziona in modo rilevante l’economia e l’ambiente, coinvolgendo più generazioni. Il Master risponde a queste esigenze promuovendo una formazione trasversale e una visione sistemica in grado di coniugare il ciclo di vita e la manutenzione delle opere, in particolare ponti e gallerie, lo sviluppo di strutture e infrastrutture intelligenti, la trasformazione digitale della mobilità e la gestione integrata della rete infrastrutturale, con una impostazione che rende il percorso formativo fortemente attuale e proiettato nel futuro.”

“Per il Politecnico di Torino e la sua Scuola Master – commenta Paolo Neirotti, Direttore della Scuola di Master e Formazione Permanente del Politecnico di Torino – questa iniziativa rappresenta uno dei diversi fronti dove tramite lo strumento dell’Alto Apprendistato aiutiamo le imprese a formare persone di talento secondo un profilo di competenze in cui, a fianco della verticalizzazione in un particolare ambito tecnico, forniamo competenze orizzontali e complementari di economia e management, soprattutto su fronti legati alla trasformazione digitale e all’innovazione. Poter fare questo combinando le esperienze di due Politecnici e del MIP rappresenta un’opportunità per continuare a confrontarci su approcci innovativi alla didattica”.

“Le infrastrutture e le reti di trasporto sono un asset strategico della società moderna e lo saranno sempre di più nel futuro: questo è innegabile” afferma Daniela Peila, Direttore scientifico del Master, che aggiunge: “Questo settore ritenuto ormai “maturo” sta affrontando le sfide della modernità e dell’innovazione che richiedono professionalità con competenze e abilità trasversali, in grado di gestire la complessità. Il Master è stato pensato e sviluppato per rispondere a questa esigenza e formare i giovani talenti che diventeranno i dirigenti del futuro. Per raggiungere questo obiettivo il percorso prevede sia lezioni frontali per fornire le conoscenze necessarie a padroneggiare i problemi in modo interdisciplinare, sia giovani che si confrontino con la realtà del lavoro, del cantiere e dell’ufficio tecnico interagendo, con colleghi esperti che diventeranno inevitabilmente i loro mentori. Infine, lo sviluppo di un project work per gruppi ristretti consentirà, con un processo di learning by doing, di crescere non solo dal punto di vista professionale, ma anche dal punto di vista umano. È una sfida eccitante per un giovane ingegnere”.

“Siamo felici di essere partner, insieme a Politecnico di Milano e Politecnico di Torino, del Master promosso da Autostrade per l’Italia” commenta Federico Frattini Dean del MIP, la Graduate School of Business del Politecnico di Milano, che conclude: “Un progetto che offre ai giovani talenti non solo un’occasione di alta formazione presso tre realtà di spicco del panorama accademico, ma anche una concreta opportunità professionale. Un primo passo per diventare promotori della digital transformation in azienda.”

Inclusione: costruire una società migliore per tutti

Intervista a Donatella Sciuto, Prorettrice del Politecnico di Milano

 

Diminuire il divario di genere è parte dell’agenda 2030 degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, anche in relazione all’incidenza femminile nell’ambito delle materie STEM. Discipline che garantiscono tassi di occupazione molto alti ma sono ancora prevalentemente appannaggio degli uomini. Quali sono i fattori che provocano questo divario?

I fattori sono diversi e riconducibili a mio avviso a tre dimensioni: individuale, di contesto e di cultura. Per individuale intendo le attitudini personali; per contesto l’ambiente in cui le ragazze crescono – la famiglia, la scuola, la comunità a loro più vicina; per cultura mi riferisco a quella di un paese o di un’area geografica, che con le proprie regole può influire nelle scelte individuali.

Ancora oggi esiste nel gioco dei bambini la distinzione tra i ruoli maschili e femminili: fin dall’asilo le bambine sono abituate a confrontarsi con determinati modelli e anche quelle cresciute con modelli diversi quando stanno con le loro compagne tendono ad adeguarsi al comportamento “atteso” per non essere emarginate. E crescendo le cose non cambiano, perché nell’adolescenza l’identità di gruppo è ancora più forte.

A livello di contesto familiare solitamente viene favorita una socializzazione di genere e lo stesso vale per l’esposizione alla scienza, alla matematica o alla tecnologia: le ragazze tendono ad essere meno esposte e quindi meno interessate a questi temi, probabilmente anche in virtù dell’identità di gruppo. Mancano i role model di riferimento, che in questa fase della crescita sono di tutt’altro tipo.
Nelle ragazze c’è spesso un livello di propensione al rischio più basso rispetto ai maschi, e proprio per questo le famiglie tendono a proteggerle maggiormente. In alcuni contesti le carriere scientifiche sono considerate più “a rischio” di altre, o comunque meno appropriate alle ragazze perché a maggioranza maschile, alimentando così la paura di un ambiente di lavoro ostile.

A livello culturale ci sono paesi in cui lo studio delle discipline scientifiche è più diffuso, come alcuni paesi dell’Asia, e le ragazze sono di conseguenza più propense a studiarle, anche se questo non si traduce poi necessariamente in carriere scientifiche. In Europa e nei paesi anglosassoni lo studio della scienza è meno diffuso, con l’eccezione dei paesi scandinavi in cui l’uguaglianza di genere è più radicata a tutti i livelli.

Alla luce di questo contesto, qual è il ruolo che devono avere le università nel ridurre il gender gap in questi percorsi di studi?

Possiamo fare tanto, e fin dai primi livelli scolari: lavorando con le scuole possiamo mostrare che scienza e tecnologia non hanno “genere” e sono divertenti e interessanti per tutti.
Con questo obiettivo al Politecnico di Milano negli anni scorsi abbiamo organizzato lezioni e laboratori scientifici per bambini delle scuole elementari in collaborazione con la rivista Focus Junior.

Per creare consapevolezza e favorire l’orientamento l’11 febbraio scorso, giornata che l’ONU dedica a celebrare le donne nella scienza, abbiamo pubblicato un video per aiutare le ragazze a prendere in considerazione ingegneria come percorso universitario.  Il video è ora in distribuzione nelle scuole superiori con cui siamo in contatto. Lavoriamo infatti molto con le scuole secondarie, e in particolare con i docenti di fisica e matematica per un confronto sull’insegnamento finalizzato all’ingegneria. Organizziamo inoltre le Summer School Tech Camp, dedicate agli studenti del terzo e quarto anno di liceo. I Tech Camp si svolgono in inglese, durano una settimana e prevedono lo sviluppo un progetto tecnologico (teoria e pratica) che vengono presentati alle famiglie.

Nel nostro ateneo abbiamo anche deciso di sostenere le ragazze con delle borse di studio specifiche. Il programma Girls@Polimi intende favorire la loro iscrizione ai corsi di laurea in ingegneria in cui sono meno rappresentate, offrendo un supporto economico supplementare finanziato da aziende: il primo anno ne avevamo 2, il secondo 12 e ora 20. Poi ci sono borse di studio per studentesse di laurea magistrale, e percorsi di mentoring, sempre in collaborazione con aziende.

Infine, ma questo vale come premessa, oltre a orientamento e sostegno, le università devono garantire l’uguaglianza e bandire qualsiasi forma di discriminazione.

Il nostro paese in Europa registra una percentuale di dottoresse di ricerca, in totale e anche nelle aree STEM, superiore a quelle di Spagna, Regno Unito, Francia e Germania (*rapporto del ministero dell’Istruzione sulle carriere femminili in ambito accademico, marzo 2020). Significa che stiamo andando nella direzione giusta per quanto riguarda la rappresentanza femminile a tendere oppure è solo un primo passo?

Siamo solo ai primi passi. Guardando i dati in maniera più attenta ci si rende conto che sono buoni perché le materie STEM comprendono spesso anche biologia e medicina, che non hanno mai avuto il problema di un divario di genere. Prendiamo ad esempio ingegneria biomedica: nel nostro ateneo le studentesse di questo corso sono il 50%. Tuttavia in altre aree le donne sono pochissime, come elettronica ed informatica ad esempio, in cui da noi il tasso femminile registra meno del 10%, sebbene le professioni informatiche siano richiestissime. A livello di dottorato i dati migliorano perché abbiamo molte studentesse straniere che decidono di studiare qui, quindi la presenza internazionale riduce il divario.

E’ vero che siamo in un periodo storico in cui c’è consapevolezza del problema e si registra un rinnovato interesse da parte delle aziende per ridurre il gender gap, in linea con gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals SDGs), ma la realtà mostra che è il pay gap ad essere ancora importante, e si verifica sin dal primo impiego e a parità di voti negli studi.

Per aiutare le donne dal punto di vista professionale è fondamentale eliminare il pay gap, e per la loro carriera considerarle nella prospettiva della diversità.
Un aumento della rappresentanza femminile è quindi relativo se è riferito solo ad alcune funzioni e a determinate aree aziendali, abitualmente più umanistiche.
In questo senso c’è ancora molto da fare e il giusto spazio nel mondo del lavoro deve essere ancora conquistato.

Oltre alle tematiche di genere, quali sono le sfide di inclusione che a tuo avviso sono più stringenti per il sistema della ricerca e dell’università?

Prima di tutto sostenere la carriera delle donne. Man mano che si sale nella gerarchia accademica le donne sono sempre meno, come rilevato dal rapporto italiano della CRUI. La carriera femminile non deve essere danneggiata dai compiti di cura e da una maternità, per esempio. Noi abbiamo creato un bonus economico per sostenere il rientro delle ricercatrici dopo la maternità e supportarle nella ripresa della loro attività di ricerca scientifica.

A parte questo, credo che in università il tema dell’inclusione debba essere affrontato a tutto tondo: la priorità è creare le condizioni per accogliere la diversità in tutte le sue forme.

Noi lo stiamo facendo con il programma “POP” (Pari Opportunità Politecniche) che ha l’obiettivo di garantire un ambiente di studio e lavoro che rispetti le identità di genere, le diverse abilità, le culture e provenienze. Essendo un ateneo internazionale è importante infatti anche imparare a vivere con persone che appartengono a culture diverse ed è un percorso in cui dobbiamo impegnarci tutti, docenti, studenti e personale amministrativo.  Per raggiungere questi obiettivi, nella riorganizzazione dei servizi del Politecnico dell’anno scorso abbiamo voluto creare una unità organizzativa che segua tutti gli aspetti, chiamata Equal Opportunities, all’interno dell’area Campus Life.

Le persone non devono essere giudicate dalle apparenze, bensì dai meriti.  Solo eliminando ogni tipo di stereotipo o pregiudizio possiamo costruire un mondo inclusivo per tutti.

 

Sostenibilità nel fashion: seconda edizione del premio di laurea “Save The Duck”

Cinquemila gli euro messi in palio dal marchio di piumini 100% animal free per la migliore tesi che affronti il tema della sostenibilità nel fashion, con un focus sui materiali vegetali o sintetici o sui modelli di consumo sostenibili e circolari.

 

E’ giunta alla seconda edizione l’iniziativa lanciata da Save The Duck, in collaborazione con la Sustainable Luxury Academy della School of Management del Politecnico di Milano, l’Osservatorio permanente sul lusso sostenibile nato per riunire le voci più influenti dell’industria dell’alto di gamma e incidere positivamente sul mercato.

Al premio di laurea, del valore di 5.000 euro lordi, potranno partecipare gli studenti che abbiano conseguito il titolo di laurea magistrale al Politecnico di Milano tra aprile 2020 e aprile 2021, in tutti i corsi di studio, con una votazione non inferiore a 100/110. Le candidature vanno presentate sul sito del Politecnico di Milano nella sezione «Borse di studio e premi di laurea (non DSU)» entro le 12 del 14 maggio 2021, il vincitore sarà proclamato a fine giugno 2021.

La partnership tra la School of Management e Save The Duck nasce nel 2019 per offrire sostegno concreto ai giovani che si impegnano per un futuro a minore impatto ambientale e sociale.

Sensibilizzare maggiormente il settore del lusso sui temi della sostenibilità e della responsabilità sociale a partire dalle nuove generazioni, è un obiettivo che da anni ci siamo prefissi, e il premio di laurea con Save The Duck va esattamente in questa direzione – conferma Alessandro Brun, a capo della Sustainable Luxury Academy e direttore del Master in Global Luxury Management -. “Come School of Management abbiamo posto le tematiche ambientali, sociali e di governance al centro di tutti i nostri programmi e la risposta degli studenti è stata eccezionale: sono ormai moltissimi i giovani che nella loro tesi affrontano questi argomenti. Un premio che valorizzi i loro sforzi non può che innescare un circolo virtuoso, favorendo ulteriore interesse da parte dei futuri manager, designer e professionisti che domani guideranno il settore moda in Italia e nel mondo”.