Data-powered management: una sfida ambidestra

Dietro all’affermazione di necessità di un potenziamento della cultura dei dati in una impresa, risiede un bisogno profondo di consolidare, potenziare, far evolvere o modificare in modo consapevole il proprio modello di business o il modo di gestire l’impresa. Si tratta di un bisogno cogente e pervasivo, connesso alla constatazione di alcuni trend che modificano lo scenario competitivo.

 

Giuliano Noci, Professore di Strategy and Marketing e Prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano

 

E’ esperienza comune di chi interagisce con le imprese sentirsi dire “avremmo bisogno di potenziare la nostra cultura del dato”.

Il concetto di “cultura del dato” ha diverse sfumature: la presenza di competenze di analisi dei dati, la capacità di lettura e interpretazione delle analisi, la predisposizione di individui e gruppi di lavoro a poggiare le proprie decisioni su evidenze e dati piuttosto che su sensazioni e istinti, lo sforzo a raccogliere e condividere i dati giusti per supportare le decisioni proprie e altrui.

Evidentemente, la “cultura del dato” è l’insieme di queste dimensioni, e dietro all’affermazione di necessità di un potenziamento risiede un bisogno profondo di consolidare, potenziare, far evolvere o modificare in modo consapevole il proprio modello di business o il modo di gestire l’impresa. Si tratta di un bisogno cogente e pervasivo, connesso alla constatazione di alcuni trend che modificano lo scenario competitivo.

In primo luogo, le pressioni della concorrenza, in mercati sempre più saturi e al contempo sempre più interconnessi, forzano alla ricerca di modelli di business e innovazioni che abilitino funzionalità tanto utili quanto sofisticate. Ciò porta alla ricerca di un arricchimento del contenuto dell’offerta (anche) grazie al lavoro sui dati. A titolo d’esempio, se voglio differenziare radicalmente un elettrodomestico nel mercato occidentale, ragionevolmente dovrò renderlo connesso alla rete e utilizzare i dati che raccoglie per offrire servizi a valore aggiunto per il cliente (ad esempio, in un frigorifero, non solo segnalare anomalie per un intervento tecnico in tempo reale, ma essere in grado di verificare la presenza di un cartone di latte quasi vuoto, e magari, sulla base del tasso di suo utilizzo, stimare quando il latte finirà o con che frequenza suggerire di riacquistarlo). E’ peraltro evidente, che da questo tipo di innovazioni possono nascere evoluzioni del modello di business. Nel caso precedente, ad esempio, l’integrazione con sistemi di eCommerce per offrire refill tempestivi subscription-based.

In secondo luogo, la diversità nei mercati di destinazione sta chiedendo risposte sempre più differenziate a segmenti di mercato molto eterogenei per gusti, preferenze, abitudini di utilizzo del prodotto/servizio, comportamenti di utilizzo dei canali fisici e digitali per interagire con l’impres, implicando una capacità di risposta pressochè one-to-one da parte dell’impresa. Dalla marketing automation alla service automation, le imprese sono sempre più alla ricerca di modelli e algoritmi in grado di comprendere lo stato di salute della relazione con un cliente, la sua propensione a una nuova offerta o ad abbandonare l’impresa.

In terzo luogo, e, di fatto, conseguenza dei precedenti, il focus dell’azione manageriale è sempre più improntato sulla ricerca di precisione, puntualità, riduzione degli sprechi – tanto a livello produttivo quanto di marketing, vendita, customer service, ecc. Anche in questo caso, il dato e la capacità di leggerlo rappresentano leve fondamentali.

Quindi, al netto dell’efficacia comunicativa della locuzione “cultura del dato”, il tema che si pone è lo sviluppo della capacità di ibridare competenze analitiche avanzate con senso del business. Si tratta di una competenza nuova in impresa, e spesso di una competenza che difficilmente è riconducibile ad un profilo professionale, quanto piuttosto a un team. Infatti, spesso le imprese inseriscono figure di data scientist portatrici di grande competenza analitica e tecnica, ma non sempre hanno profili manageriali in grado di far da tramite tra i bisogni di business e le applicazioni tecnico-modellistiche e, di converso, di traduzione degli output analitici in piani di azione in grado di guidare il business.

La nostra Scuola ha recepito questa necessità nell’interazione con le imprese, e da questo ha fatto derivare un profondo potenziamento della propria offerta di corsi di machine learning, statistica applicata e corsi di analytics applicati a discipline manageriali (es. performance measurement, marketing, e anche public sector), con un Major del Master of Science a forte vocazione analitica.  Il notevole successo in termini di scelta di questi corsi da parte degli studenti testimonia una forte sensibilità dei nostri giovani allo sviluppo di una carriera e di una professionalità fortemente “data-powered”.

La sfida pedagogica, in questo contesto, è quella di compendiare una solida preparazione analitica e una altrettanto solida conoscenza degli impatti di business dei sistemi decisionali oggetto dell’analisi modellistica, con un approccio incentrato sulla contestualizzazione di tali modelli negli ambiti applicativi in cui sono utili e promuovendo una discussione ricca ed estensiva sulle ulteriori ricadute nei modelli di funzionamento delle organizzazioni.

Machine Learning & Big Data Analytics

Le tecnologie digitali e gli algoritmi per analizzare i dati rappresentano l’evoluzione più recente delle tecnologie intellettuali. Grazie ad esse ci siano trasformati in quello che oggi siamo, in quello che sappiamo, nei nostri modi di pensare. Viviamo in stretta simbiosi con le tecnologie intellettuali e sarà sempre più così anche nei confronti degli algoritmi dell’intelligenza artificiale

 

Carlo Vercellis, Professore Ordinario di Machine Learning, School of Management, Politecnico di Milano

La maggior parte dei nostri gesti quotidiani, acquisti, spostamenti, decisioni personali o professionali sono orientati da un algoritmo di Machine Learning: è comodo ricevere suggerimenti circa prodotti da acquistare, di alberghi e mezzi di trasporto per i viaggi, le indicazioni di film o brani musicali che potrebbero piacerci.

Molte aziende da decine di anni raccolgono grandi moli di dati nei loro sistemi informativi. Gestori di carte di credito, che nel corso di un weekend registrano quasi due miliardi di transazioni, grandi retailer, operatori delle Telco e delle Utility.

Tuttavia, la vera rivoluzione che ha portato ai Big Data coincide con l’avvento dei social network, fenomeno indicato con il termine Internet of People. Ognuno di noi si è trasformato da lettore di informazioni in autore di contenuti. La necessità di immagazzinare questa mole di dati immensa e in rapida crescita ha indotto le grandi aziende del web a creare un nuovo tipo di database basato su architetture a rete distribuite e di fatto a dare vita al cloud.

Accanto alle persone, ormai in Internet ci sono anche le “cose”: si tratta della Internet of Things, costituita da innumerevoli oggetti dotati di sensori e spesso capaci di comportamenti intelligenti e autonomi. Siamo in grado di accendere le luci di casa a km di distanza, di regolare il termostato e di osservare attraverso l’impianto di videosorveglianza. L’automobile potrà guidare in modalità autonoma senza il nostro intervento. Si tratta di un universo composto da quasi 30 trilioni di sensori che registrano valori numerici con altissima frequenza temporale (un trilione è pari a “uno” seguito da 18 “zero”!). Abbiamo inoltre i contatori digitali per gas e power, capaci di registrare puntualmente i nostri consumi e di suggerire comportamenti che rendano più efficiente e sostenibile il nostro utilizzo dell’energia. Indossiamo dispositivi di fitness e smart watch al polso, che registrano la nostra attività fisica, i principali parametri vitali, le nostre abitudini alimentari, la qualità del sonno, e ci forniscono suggerimenti utili a migliorare le nostre condizioni fisiche. Oggetti intelligenti che contribuiranno a rendere sempre più comoda la nostra vita.

Da quanto abbiamo detto finora, è chiaro che il valore predittivo e il valore applicativo contribuiscono a generare un grande valore economico, per le imprese, per la pubblica amministrazione, per i cittadini nel loro complesso.

Tuttavia, i dati di per sé non servono a nulla se non vengono analizzati automaticamente da algoritmi intelligenti. In particolare, gli algoritmi di machine learning nell’ambito dell’intelligenza artificiale vengono applicati a grandi moli di dati per riconoscere regolarità ricorrenti e per estrarre conoscenze utili che permettono di prevedere con notevole accuratezza eventi futuri. Si tratta di una logica induttiva, un po’ come il meccanismo di apprendimento di un bimbo, cui la mamma indica alcuni esempi di lettere dell’alfabeto ponendolo in breve tempo in grado di identificarle autonomamente e quindi di imparare a leggere.

Ad esempio, gli algoritmi sono in grado di interpretare l’umore, il cosiddetto “sentiment”, di post testuali sulle reti sociali con accuratezze del 95-98%, maggiore di quella che potrebbe ottenere un lettore umano. Analogamente, oggi gli algoritmi sono in grado di effettuare con grande precisione il riconoscimento automatico dei contenuti e del contesto delle immagini analizzate.

Le tecnologie digitali e gli algoritmi per analizzare i dati rappresentano l’evoluzione più recente delle tecnologie intellettuali e ci aiuteranno a vivere meglio. Pensiamo infatti che lungo il corso della storia, dai primi strumenti preistorici all’invenzione della scrittura, dall’invenzione della stampa all’ideazione dei computer, le tecnologie intellettuali sono state il motore dell’evoluzione umana. Grazie ad esse noi ci siano trasformati in quello che oggi siamo, in quello che sappiamo, nei nostri modi di pensare. Viviamo in stretta simbiosi con le tecnologie intellettuali e sarà sempre più così anche nei confronti degli algoritmi dell’intelligenza artificiale.

Sul versante economico, osserviamo che le imprese più mature nell’analisi dei dati hanno una maggiore capacità di competere e continuano a rafforzarsi nei confronti delle imprese meno evolute e meno tempestive nell’adozione di strategie di innovazione digitale. Da anni si parla di digital divide in riferimento alle diverse opportunità di accesso alle risorse digitali da parte dei cittadini. Nell’ambito dell’Osservatorio Big Data Analytics che abbiamo avviato al Politecnico di Milano sin dal 2008, abbiamo introdotto dallo scorso anno il termine Analytics Divide per indicare il gap che si è venuto a creare e che purtroppo si sta ampliando tra le imprese virtuose nell’impiego di big data e intelligenza artificiale e quelle meno innovative, che faticheranno di più a uscire dalla palude in cui il virus ci ha spinti.

Per poter progredire come azienda data driven occorre tuttavia disporre di talenti e competenze adeguate, che possono essere ottenute mediante l’acquisizione di nuove risorse o il reskilling di risorse già disponibili in azienda. In questa prospettiva, presso il MIP-Politecnico di Milano abbiamo avviato diverse attività formative su temi di Machine Learning, Artificial Intelligence, Big Data Analytics, Data Science, quali il master internazionale in Business Analytics & Big Data e il percorso executive in Data Science & Business Analytics.

Cultura del dato e modello di leadership: due facce della stessa medaglia

Gli esperti dei dati diventano nodi fondamentali delle relazioni all’interno di un’organizzazione. Per questo la cultura del dato si porta dietro la necessità di rivedere i modelli organizzativi e di leadership

 

Filomena Canterino, Ricercatrice in People Management & Organization, School of Management, Politecnico di Milano

Gli esperti di data analytics, i cosiddetti data scientist e data analyst, sono da qualche anno tra le figure più ricercate dalle aziende, in tutti i settori, dalla manifattura all’education all’editoria. Il loro lavoro è raccogliere, strutturare, analizzare, interpretare e sintetizzare i dati, per trasformarli in informazioni utili per gli altri attori e decisori di un’organizzazione.

Molto spesso, questi ruoli sono nodi fondamentali all’interno dell’organizzazione, perché interagiscono con diverse funzioni e livelli, diventando un punto di riferimento che scavalca e in alcuni casi addirittura ribalta le gerarchie tradizionali. Gli esperti di dati infatti possono portare grande valore aggiunto in quasi tutte le diverse aree aziendali, dalla manutenzione alla strategia alla gestione delle risorse passando per il marketing. E nel farlo, si interfacciano con una moltitudine di diversi attori aziendali.
Pensiamo al tipico esempio di datification di un impianto produttivo, in cui un sistema di sensori è in grado di raccogliere in tempo reale e continuativo i dati relativi alle performance di produzione (ad esempio numero di pezzi prodotti, numero di scarti, durata degli stop, numero di guasti). Tramite l’analisi e l’elaborazione dei dati, e le informazioni che riesce ad estrapolare da essi, un data scientist o un data expert è in grado di dialogare in modo efficace sia con gli operatori, sia con i team leader, sia con i top manager. E’ in grado di dare voce alle macchine, ma anche alle persone che, avendo un’idea più completa e dettagliata delle performance e delle possibili aree di miglioramento, possono proporre nuove soluzioni e idee.

Altrettanto spesso, purtroppo, le persone che ricoprono questi ruoli vengono superficialmente etichettati come “nerd”, “geek”, o altri termini che alludono ad una certa confidenza ed interesse per le questioni analitiche e tecniche, e meno interesse o spigliatezza negli aspetti relazionali, interpersonali e di leadership.
Questa visione, oltre che essere limitata – pensiamo a quanti “nerd” possiamo enunciare tra i CEO e leader di grandi aziende di successo – è estremamente limitante.

Innanzitutto, perché fa riferimento ad una visione ormai obsoleta del concetto di leadership, ossia la leadership innata, eroica, che pone le sue fondamenta sul carisma “naturale”. Gli esperti di leadership e le aziende più all’avanguardia su questi temi sanno bene che leader non necessariamente si nasce, ma si può diventare – per alcuni con più fatica che per altri certo – semplicemente perché la leadership è caratterizzata da comportamenti, ossia da azioni che si possono praticare, allenare e migliorare, e non da tratti. Quindi, anche una persona con una spiccata predisposizione tecnica e analitica può certamente identificare e mettere in campo i comportamenti per interagire con gli altri e per guidare efficacemente un gruppo di lavoro.
Per di più, nel campo della ricerca accademica, in cui la rilevanza dei comportamenti più che dei tratti è cosa nota da svariati decenni, i più recenti studi ci mostrano come la leadership sia in realtà nella maggior parte dei casi un processo complesso, dinamico e condiviso, che nasce dall’interazione tra i diversi attori di un sistema. Se concepita in questo modo, si potrebbe quasi dire che possa essere più facilmente capita da chi si occupa di intercettare e interpretare flussi di dati, che da altri.

In secondo luogo, questo tipo di visione rende poco efficace la gestione dello sviluppo di queste figure all’interno delle organizzazioni, proprio perché accende i riflettori sulla parte sbagliata della scena, ossia sulle caratteristiche personali di chi ricopre uno specifico ruolo, piuttosto che sul modello di leadership dell’organizzazione.

Cosa fare quindi per mettere questi ruoli nelle condizioni di esprimere al meglio il loro potenziale e sviluppare le loro doti di leadership di contenuto e di processo?

Certamente diffondere un modello culturale che guardi alla leadership come qualcosa di condiviso e diffuso, che si basa su azioni e comportamenti, e sul concetto di accountability – per cui ogni singola persona o piccolo gruppo di lavoro è responsabile di una piccola parte del risultato. Tutto ciò può essere reso possibile sia da piani di formazione e sviluppo coerenti, che riguardino tutta l’organizzazione, sia dalle tecnologie digitali, che facilitano l’acquisizione e la condivisione di dati per informare le decisioni e accorciare di conseguenza le catene gerarchiche. Dati, accountability e leadership condivisa: un circolo virtuoso in cui i data expert possono essere veri protagonisti.

“Innovation with a human touch”: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #6 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

In questo numero intitolato “Innovation with a human touch” parliamo di innovazione e di come la componente umana e umanistica giochi un ruolo tanto fondamentale quanto complementare nel progresso tecnologico.

Ne abbiamo discusso con Giovanni Valente, che ci spiega come le scienze umane e sociali siano essenziali per affrontare qualsiasi sfida innovativa in campo scientifico e tecnologico, e per questo è importante promuovere un approccio interdisciplinare in ambito accademico.

L’uomo deve essere al centro della trasformazione digitale e le tecnologie devono essere sviluppate non al posto di ma per le persone, come raccontano Raffaella Cagliano, Claudio Dell’Era e Stefano Magistretti nei loro editoriali su Industry 4.0 e Design Thinking.

Ma l’innovazione tecnologica può essere veramente a misura d’uomo? Giovanni Miragliotta cerca di rispondere a questo quesito riflettendo su quanto le nuove tecnologie abbiano profondamente modificato la società e il lavoro dell’uomo.

Infine nelle “Stories” alcuni nostri progetti di ricerca: l’ impatto economico del cambiamento climatico, il riuso di scarti elettronici per dar vita a prodotti eco-compatibili, la distribuzione del Venture Capital in Europa.

 

 

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I numeri precedenti:

  • # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”
  • Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses
  • #2 “Being entrepreneurial in a high-tech world”
  • #3 “New connections in the post-covid era”
  • #4 “Multidisciplinarity: a new discipline”
  • #5 “Inclusion: shaping a better society for all”

Tecnologia e innovazione, a misura d’uomo

Il progresso scientifico, la disponibilità di mezzi tecnici, la cross-fertilizzazione tra le diverse comunità di ricerca e l’innovazione combinatoria  ci stanno regalando ad una inarrestabile progressione delle capacità umane. Ma quanta, e soprattutto quale, innovazione è davvero a misura d’uomo?

 

Giovanni Miragliotta, Professore di Advanced Planning, Co-Direttore dell’Osservatorio AI, Politecnico di Milano

Ovunque guardiamo, come cittadini e come ricercatori, leggiamo delle “magnifiche sorti e progressive”[1] che, per mezzo delle nuove tecnologie, stanno cambiando la nostra società e la nostra vita. Da quelle a noi più familiari, come le reti di comunicazione a banda larga, a quelle  più avanzate, come la bioingegneria, a quelle che operano nascoste dietro le quinte, come la crittografia, tutto si fonde al punto che diventa quasi difficile rendersi conto del potenziale di cambiamento del sistema di ricerca e innovazione che abbiamo costruito nei paesi sviluppati. A materializzarne il potenziale ci pensano, di tanto in tanto, discontinuità inattese come ad esempio la pandemia che stiamo vivendo la quale, combinando le diverse innovazioni esistenti, ci mostra come possono essere stravolti in pochi mesi il modo di lavorare, di insegnare, di progettare, di curare. Una riflessione molto potente, in questo senso, anche e soprattutto perché viene da un letterato e non da uno scienziato, è quella recentemente pubblicata da Alessandro Baricco[2].

Questa occasione, che ci ha mostrato portata e velocità del cambiamento possibile, può essere colta per riflettere su quale sia l’innovazione a misura d’uomo; è ancora più importante farlo ora, in vista di quello che si sta sviluppando, nelle università e nei laboratori di tutto il mondo, poiché le prossime conquiste tecnologiche potrebbero materializzare un cambiamento, secondo il pensiero di molti (ed io sono uno di quelli) addirittura dirompente per l’assetto stesso delle nostra società.

La nostra società, prendendo come riferimento gli stati democratici occidentali, si poggia su alcuni pilastri, un mix di weltanschauung, principi morali e senso comune, che ne costituiscono il collante. Alcune innovazioni tecnologiche (in primis bioingegneria e intelligenza artificiale) sono, per così dire, in rotta di collisione con questi principi, e potrebbero portare a nuove società che non è facile prevedere se e quanto saranno a misura d’uomo, almeno come oggi noi interpretiamo tale misura.

Pensiamo alla centralità che il lavoro ha nella struttura della società, anche solo limitandoci alla sua valenza economica e trascurando gli aspetti psicologici o di realizzazione personale; per la prima volta nella storia inizia ad intravedersi un futuro possibile in cui non solo non sappiamo più predire quali saranno i lavori dei nostri figli tra 30 anni, ma iniziamo a dubitare che ci possano addirittura essere dei lavori rimasti. In un numero sempre crescente di specifiche mansioni (=Narrow AI), infatti, le macchine hanno raggiunto già abilità superumane e, come sapete, vi è un enorme dibattito sul bilancio tra posti di lavoro creati e distrutti. Le analisi condotte nell’Osservatorio Artificial Intelligence, almeno per la prossima decade, sembrano indicare uno scenario positivo[3], ma allungando l’orizzonte di analisi non è da escludere uno scenario in cui la domanda per il lavoro umano, reso antieconomico o inutile dalle nuove abilità delle macchine[4], sarà molto inferiore.  In una situazione di precario equilibrio monetario e fiscale delle nazioni, una alterazione significativa nel mercato del lavoro potrebbe rappresentare un elemento di forte instabilità.

Cambiando tecnologia di riferimento, l’avvento delle biotecnologie potrebbe portare in un prossimo futuro dei cambiamenti così importanti da scuotere le fondamenta stessa della società: come evolverà il concetto di famiglia qualora fosse normale per gli esseri umani vivere 120 anni, con una giovinezza che possa durare oltre 40 anni?  Cosa accadrà quando le classi più abbienti, oltre a potersi permettere una assistenza sanitaria tradizionale migliore, potranno permettersi anche di intervenire per migliorare il proprio pacchetto genetico in modo non eguagliabile dalla maggior parte delle persone? Per la prima volta nella storia osserveremo una biforcazione nella nostra specie, con una (piccola) frazione della popolazione che disporrà di un “hardware” (corpo + cervello) più capace, resistente e duraturo rispetto alla maggioranza della popolazione?

Questi esempi ci fanno ragionare sulla portata del cambiamento possibile, economico e sociale, ma non sembrano ancora intaccare i fondamenti ideologici della società che abbiamo costruito, nel nostro occidente, a partire dalle rivoluzioni americana e francese, ovvero la convinzione profonda nel valore della libertà, della unicità ed irripetibilità dell’individuo. Ma cosa accadrebbe se, in linea di principio, osservando tutte le interazioni di una persona con il suo ambiente e con i suoi simili, fosse possibile prevedere esattamente quali sarebbero le sue sensazioni, ed i suoi bisogni? Cosa accadrebbe se Google, o Facebook, o altri, forti della immensa mole di dati che raccolgono su di noi, sapessero consigliarci il libro giusto, il lavoro giusto, l’investimento giusto, la moglie giusta, la chirurgia preventiva giusta molto meglio di quanto sapremmo fare da soli, confusi e sperduti in una mole sterminata di decisioni importanti, da prendere decine di volte nella nostra (lunghissima) vita? A quel punto saremmo ancora “liberi”? E ammesso che ci rimanga uno spazio di libertà, ci converrebbe farne uso, , oppure non sarebbe più conveniente affidare le nostre decisioni ad una tecnologia di “life advisor” che avrebbe probabilità di successo e di felicità molto maggiori di quelle che sapremmo apparecchiarci con le nostre stesse mani?  Questo ultimo scenario, ventilato da molti pensatori, apre ad un ripensamento radicale dei principi fondanti della nostra società, in primis il principio liberale, portando ad esiti che potrebbero spaziare da un ulteriore allentamento dei riferimenti esistenti (sulla scia della liquidità Bauminana) fino al suo totale opposto, una rigidissima tecnocrazia.

Il punto è sempre lo stesso: non è possibile fare previsioni di alcun tipo, e in fondo quel poco che serve conoscere, di speculazione pura sul futuro, è già stato scritto. Queste riflessioni invece ci richiamano ad una responsabilità molto grande, quella di rimanere molto vigili sugli atti di moto, anche solo incipienti, che l’innovazione tecnologica sta imprimendo alla nostra società.

Ci attende un futuro che può essere a misura d’uomo solo se saremo capaci di costruircelo.

 

 

Note di lettura

Questa riflessione nasce, e può essere ulteriormente sviluppata, attingendo al pensiero dei seguenti autori:

  • Yuval Harari: consiglio l’intera trilogia su passato, futuro e presente dell’uomo;
  • Mark Tegmar, “Vita 3.0”, ed il dibattito interno al Future of life Institute;
  • Zygmunt Bauman, in particolare il suo testo cardine “Modernità liquida”.

 

 


[1] Citazione del poeta Giacomo Leopardi

[2] Alessandro Baricco, “Cinque anni in uno”, https://www.ilpost.it/2021/05/28/baricco-2025/

[3] Si veda report Osservatorio Artificial Intelligence, “On your marks”, ed. 2019.

[4] Si consideri, ad esempio, “A 3D printed car which is designed by AI”, www.thereviewstories.com/czinger-21c-ai-3d-printed-car/

 

 

 

“Inclusione: costruire una societa’ migliore per tutti”: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #5 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

In questo numero intitolato “Inclusion: shaping a better society for all” discutiamo del tema dell’inclusione, declinato in ambito universitario, lavorativo e sociale.

Ne parliamo con Donatella Sciuto, Prorettrice del Politecnico di Milano, che ci racconta come le università possano contribuire a ridurre il divario di genere nello studio delle materie STEM, e debbano farsi promotrici di un’inclusione a tutto tondo, creando le condizioni per accogliere la diversità in tutte le sue forme.

Diversità che può essere valore aggiunto nelle aziende, come spiega Guido Micheli nel suo editoriale sull’inclusione dei lavoratori disabili.

Emanuele Lettieri racconta la sfida dell’Healthy Ageing, ossia come invecchiare in salute ed essere “inclusi” come soggetti attivi e partecipativi nella società il più a lungo possibile.

Infine una riflessione di Lucio Lamberti e Alessandro Perego sulla progressiva “remotizzazione” del lavoro e della formazione, che ha stravolto tutti i modelli sociali tradizionali, e la proposta di una piattaforma multidisciplinare per lo studio di benefici e costi sociali della nuova remote economy.

Nelle “Stories” alcuni nostri nuovi progetti di ricerca e azioni sul territorio: dal percorso di dottorato sulla sostenibilità aerea, ai risultati dei Food Hub di quartiere nella lotta contro lo spreco alimentare.

 

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I numeri precedenti:

  • # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”
  • Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses
  • #2 “Being entrepreneurial in a high-tech world”
  • #3 “New connections in the post-covid era”
  • #4 “Multidisciplinarity: a new discipline”

Includere a distanza: la sfida del benessere nella società post-Covid

La pandemia di Sars-Cov2 ha affermato il ruolo dell’abitazione come luogo centrale di lavoro e vita privata, stravolgendo tutti i modelli sociali tradizionali. La tecnologia ha permesso di portare avanti il sistema economico in modo efficace anche a distanza, ma quali sono le conseguenze della “remotizzazione” sul benessere degli individui? La School of Management propone una piattaforma multidisciplinare per lo studio di benefici e costi sociali della remote economy.

 

Lucio Lamberti, Professore Ordinario di Multichannel Customer Strategy, Coordinator of the Physiology, Emotion and Experience Lab
Alessandro Perego, Direttore accademico School of Management Politecnico di Milano

L’inclusione e l’inclusività sono temi fondamentali per lo sviluppo sostenibile: una questione ampia, multidimensionale, che richiede non solo uno sforzo trasversale, ma chiare progettualità verticali attraverso le quali contribuire a un reale progresso collettivo. Tra le varie iniziative intraprese dalla nostra Scuola, una rappresenta per noi un tema che concilia le nostre sensibilità, le nostre competenze e il tipo di contributo che la nostra istituzione può offrire: l’analisi delle ricadute della mediazione tecnologica dei rapporti di studio e lavoro.

La pandemia di Sars-Cov2 ha infatti riaffermato il ruolo dell’abitazione come luogo centrale di lavoro, vita privata, acquisto, raccolta di informazioni, studio, intrattenimento, attraverso l’enorme accelerazione di fenomeni come il Working From Home (WFH) e il distance learning.
Negli ultimi mesi, con una virulenza e una rapidità impensabili, si sono trasformati i modelli sociali degli individui e delle famiglie. Milioni di persone hanno cominciato a lavorare e studiare assiduamente da casa, e, per quanto possa essere presumibile una forma di ritorno a dinamiche sociali più canoniche una volta – si spera presto – rientrata la fase pandemica, si stanno iniziando a osservare fenomeni di alienazione (o perlomeno depauperazione del valore esperienziale) legati alla perdita della dimensione fisica della socialità, se non addirittura manifestazioni della cosiddetta Sindrome della Capanna (o del Prigioniero), ovvero la paura del ritorno a una normale interazione fuori casa con il resto del mondo di chi è costretto a restare chiuso in uno spazio per un tempo più o meno lungo.

Inoltre, dopo una fase di attenzione all’abilitazione tecnologica e organizzativa del WFH e del distance learning, è giunto il momento di valutarne l’efficacia comparata ai modelli tradizionali. Ci troviamo di fronte a fenomeni di portata storica: da un lato, si pone un tema di inclusione e tenuta sociale, in quanto la remote economy estremizza le conseguenze di distacco sociale delle fasce meno digitalizzate della popolazione, che spesso sono anche le fasce più vulnerabili della popolazione (es. famiglie a basso reddito, anziani, disabili).
D’altro canto, nella complessissima equazione sociale che stima benefici e costi sociali di una progressiva “remotizzazione” del lavoro e della formazione, i termini relativi all’efficacia (qualità dell’apprendimento, produttività, innovatività, ecc.) e al benessere degli individui coinvolti (soddisfazione, qualità di vita, socialità) risultano ancora sostanzialmente ignoti.

Si tratta di driver di coesione sociale, benessere individuale, efficienza ed efficacia nel lavoro e nello studio, sviluppo relazionale ed emotivo che, ragionando per estremi, potrebbero essere conquiste epocali in grado di generare sviluppo sostenibile (meno traffico, meno inquinamento, maggiore inclusività, rivitalizzazione delle aree non urbane), o pericolose minacce di deterioramento del benessere economico, della qualità di vita e della qualità del capitale umano, se non di ingenerazione di tensioni individuali, familiari e sociali.

La School of Management ha intrapreso un percorso di ricerca multidisciplinare e multipiattaforma sul benessere dell’individuo nella remote economy volto specificatamente a qualificare e quantificare le dinamiche di relazione, ingaggio e produttività legate al WFH, le dimensioni dell’efficacia del distance learning, i fattori di costo e beneficio sociale della “remotizzazione” dei rapporti di studio/lavoro.

Per fare questo, si vuole (e si deve) attingere all’ampio ventaglio di competenze che la Scuola può esprimere: il MIP, business school ai vertici mondiali nel distance learning; gli Osservatori Digital Innovation, che analizzano da più di dieci anni fenomeni come lo Smart Working, la digitalizzazione delle case e i modelli di relazione mediati dalle tecnologie; il Laboratorio IOT, che sviluppa e studia modelli di interfaccia tra gli individui e dispositivi connessi; il Laboratorio Pheel, che studia e misura, in chiave multimodale e a partire dalla biometria, l’efficacia e la reazione delle interfacce e delle esperienze sugli individui.

Ma anche un ventaglio così ampio di competenze rischia di non riuscire ad abbracciare la complessità del tema. Per questo, in ossequio al nostro piano strategico e a quello del nostro Ateneo, stiamo creando un sistema di relazioni con le altre anime del nostro Politecnico (ad esempio, i dipartimenti di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, Fisica, Ingegneria Civile, Meccanica, Design), con centri di ricerca in domini disciplinari altri da quelli politecnici (Psicologi e Sociologi, in primis), e con imprese e istituzioni co-interessate al tema.

La nostra piattaforma intende creare ambienti sperimentali che riproducano l’esperienza domestica per consentire la conduzione di esperimenti sulle esperienze di WFH e smart learning in termini di ergonomia, isolamento acustico, contestualizzazione, impatto dei materiali, user experience e dinamiche di produttività. Coerentemente con le attività di riflessione strategica sullo smart working del nostro Ateneo, intendiamo esplorare il tema del bilanciamento tra lavoro in presenza e a distanza per individuare soluzioni in grado di compendiare i vantaggi di entrambi limitandone le possibili aree di debolezza. A livello metodologico, intendiamo lavorare con dispositivi wearable a bassa invasività per condurre ricerche su benessere e stress con disegni longitudinali su panel mirati di popolazione. Per valutare l’efficacia di interventi educativi e di pratiche didattiche intendiamo sviluppare spazi di simulazione 3D, realtà aumentata e realtà virtuale e di prototipizzazione di interfacce di distance learning.

La chiave del progetto è la sua multidisciplinarietà: i problemi dello sviluppo sostenibile sono troppo complessi e multi-sfaccettati per essere affrontati in modo realmente efficace all’interno di un’area disciplinare come l’economia, il management o l’ingegneria.
E’ la contaminazione, l’inclusione culturale la vera chiave di innovazione, ed è in questa direzione che le istituzioni di ricerca, in ogni campo, dovrebbero muoversi.

 

L’inclusione lavorativa: saperci tutti diversi aumenta il potenziale competitivo

Possiamo ancora accettare che l’in-clusione venga spesso sostituita da una re-clusione? Non è solo una questione di etica: il riconoscere che ogni operatore ha un suo potenziale valore per l’azienda diventa una leva per configurare sistemi produttivi sempre più competitivi.

 

Guido J.L. Micheli, Professore associato di Industrial Plants Engineering and Management
School of Management Politecnico di Milano

In ogni cosa esistono dei tempi minimi necessari perché una evoluzione cominci a dare qualche effetto. Nel nostro Paese la costituzione recita che l’Italia è una “Repubblica […] fondata sul lavoro”, tuttavia solo negli ultimi decenni si è cominciato ad affrontare in qualche modo il problema dell’inclusione lavorativa degli operatori disabili, che – salvo rarissimi casi – non presentano le caratteristiche “standard” che le aziende ricercano nei propri impiegati.

Semplificando, il processo si muove attualmente su due fronti. Da una parte, un grande numero di aziende è obbligato per legge ad assumere operatori disabili; dall’altra, esistono aziende (le cooperative sociali di tipo B) il cui fine ultimo è quello di preparare al lavoro persone disabili (anche dette, in questo caso, “svantaggiate”). Nella grande casistica delle aziende che sono obbligate ad assumere personale disabile, la deriva assai frequente è alternativamente l’assunzione di una persona che viene poi “isolata” in compiti di poco valore per l’azienda stessa (in altre parole, assunti ma non inclusi) oppure la scelta deliberata di pagare le penali annesse alla non assunzione, considerate paradossalmente “sostenibili” se confrontate con l’onere della gestione di una persona considerata di poco valore aggiunto.
Perché questa situazione? La motivazione è, tutto sommato, abbastanza semplice: le aziende sono abituate e vogliono continuare a lavorare in situazioni in cui ogni attività, macchina, attrezzatura, luogo, processo è progettato per persone “standard”. Ogni differenza è vissuta come origine di inefficienza.

È senz’altro vero che la formazione iniziale e continua degli operatori disabili è in certi casi significativamente maggiore, ma perché? Una delle risposte è facilmente identificabile: lo sforzo nella formazione/preparazione degli operatori disabili a qualsivoglia mansione lavorativa è collegato all’obiettivo stesso di tale formazione, ossia fornire loro le stesse capacità di operatori non disabili. In altre parole, anche la formazione che le aziende immaginano e mettono in pratica non è inclusiva, bensì volta ad uniformare gli operatori disabili agli altri.

Cosa occorrerebbe fare per cambiare lo status quo?

Serve un profondo cambiamento culturale. Le aziende devono studiare criticamente i propri processi, per identificarne le porzioni che possano essere svolte con caratteristiche “diverse”; così facendo, tali “caratteristiche diverse” non richiedono più uno sforzo per essere adeguate e incluse, ma diventano naturalmente funzionali, e quindi naturalmente incluse.

Questo tipo di analisi è ciò che le cooperative sociali (aziende manifatturiere o agricole vere e proprie, che impiegano primariamente operatori disabili) devono necessariamente fare ogni giorno, per capire ad esempio come un processo di assemblaggio possa essere “suddiviso e supportato” per essere efficientemente ed efficacemente svolto da operatori disabili, spesso diversissimi fra loro.

Questa attenzione ai processi porta come effetto secondario una semplificazione degli stessi, e quindi una riduzione degli errori, che si traduce in una riduzione degli scarti, e complessivamente in un aumento dell’efficienza.
Allora, l’avere coscienza che in azienda tutti sono “diversi”, può diventare un’importante leva di cambiamento: ogni attività, macchina, attrezzatura, luogo, processo, che una volta erano progettati per persone “standard”, possono essere finalmente progettati in maniera operatore-centrica e non standard-centrica.

A cosa serve la flessibilità dei componenti dei sistemi produttivi (macchine, linee, ruoli, …), tanto ricercata negli ultimi decenni, se poi non viene usata in modo continuativo per rivedere i processi e le mansioni, alla ricerca di una sempre migliore configurazione complessiva del sistema? Se questo fosse l’approccio, l’inclusione non sarebbe più da ricercare come tale.
Stiamo comprendendo che l’inclusione non può essere forzata: se viene imposta, come da approccio legislativo , in molti casi si trasforma in reclusione. Invece, il riconoscere che ogni operatore ha un suo potenziale valore per l’azienda diventa una leva per configurare sistemi produttivi e renderli sempre più competitivi.

D’altronde, chi di noi non ha mai pensato “ho in mente la persona giusta per questo”? Ecco, si tratta semplicemente di cominciare a riconoscere in tutte le persone – comprese quelle disabili – i rispettivi punti di forza.
Partiamo da qui. E non chiudiamo gli occhi: qualche azienda già lo fa!

Inclusione: costruire una società migliore per tutti

Intervista a Donatella Sciuto, Prorettrice del Politecnico di Milano

 

Diminuire il divario di genere è parte dell’agenda 2030 degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, anche in relazione all’incidenza femminile nell’ambito delle materie STEM. Discipline che garantiscono tassi di occupazione molto alti ma sono ancora prevalentemente appannaggio degli uomini. Quali sono i fattori che provocano questo divario?

I fattori sono diversi e riconducibili a mio avviso a tre dimensioni: individuale, di contesto e di cultura. Per individuale intendo le attitudini personali; per contesto l’ambiente in cui le ragazze crescono – la famiglia, la scuola, la comunità a loro più vicina; per cultura mi riferisco a quella di un paese o di un’area geografica, che con le proprie regole può influire nelle scelte individuali.

Ancora oggi esiste nel gioco dei bambini la distinzione tra i ruoli maschili e femminili: fin dall’asilo le bambine sono abituate a confrontarsi con determinati modelli e anche quelle cresciute con modelli diversi quando stanno con le loro compagne tendono ad adeguarsi al comportamento “atteso” per non essere emarginate. E crescendo le cose non cambiano, perché nell’adolescenza l’identità di gruppo è ancora più forte.

A livello di contesto familiare solitamente viene favorita una socializzazione di genere e lo stesso vale per l’esposizione alla scienza, alla matematica o alla tecnologia: le ragazze tendono ad essere meno esposte e quindi meno interessate a questi temi, probabilmente anche in virtù dell’identità di gruppo. Mancano i role model di riferimento, che in questa fase della crescita sono di tutt’altro tipo.
Nelle ragazze c’è spesso un livello di propensione al rischio più basso rispetto ai maschi, e proprio per questo le famiglie tendono a proteggerle maggiormente. In alcuni contesti le carriere scientifiche sono considerate più “a rischio” di altre, o comunque meno appropriate alle ragazze perché a maggioranza maschile, alimentando così la paura di un ambiente di lavoro ostile.

A livello culturale ci sono paesi in cui lo studio delle discipline scientifiche è più diffuso, come alcuni paesi dell’Asia, e le ragazze sono di conseguenza più propense a studiarle, anche se questo non si traduce poi necessariamente in carriere scientifiche. In Europa e nei paesi anglosassoni lo studio della scienza è meno diffuso, con l’eccezione dei paesi scandinavi in cui l’uguaglianza di genere è più radicata a tutti i livelli.

Alla luce di questo contesto, qual è il ruolo che devono avere le università nel ridurre il gender gap in questi percorsi di studi?

Possiamo fare tanto, e fin dai primi livelli scolari: lavorando con le scuole possiamo mostrare che scienza e tecnologia non hanno “genere” e sono divertenti e interessanti per tutti.
Con questo obiettivo al Politecnico di Milano negli anni scorsi abbiamo organizzato lezioni e laboratori scientifici per bambini delle scuole elementari in collaborazione con la rivista Focus Junior.

Per creare consapevolezza e favorire l’orientamento l’11 febbraio scorso, giornata che l’ONU dedica a celebrare le donne nella scienza, abbiamo pubblicato un video per aiutare le ragazze a prendere in considerazione ingegneria come percorso universitario.  Il video è ora in distribuzione nelle scuole superiori con cui siamo in contatto. Lavoriamo infatti molto con le scuole secondarie, e in particolare con i docenti di fisica e matematica per un confronto sull’insegnamento finalizzato all’ingegneria. Organizziamo inoltre le Summer School Tech Camp, dedicate agli studenti del terzo e quarto anno di liceo. I Tech Camp si svolgono in inglese, durano una settimana e prevedono lo sviluppo un progetto tecnologico (teoria e pratica) che vengono presentati alle famiglie.

Nel nostro ateneo abbiamo anche deciso di sostenere le ragazze con delle borse di studio specifiche. Il programma Girls@Polimi intende favorire la loro iscrizione ai corsi di laurea in ingegneria in cui sono meno rappresentate, offrendo un supporto economico supplementare finanziato da aziende: il primo anno ne avevamo 2, il secondo 12 e ora 20. Poi ci sono borse di studio per studentesse di laurea magistrale, e percorsi di mentoring, sempre in collaborazione con aziende.

Infine, ma questo vale come premessa, oltre a orientamento e sostegno, le università devono garantire l’uguaglianza e bandire qualsiasi forma di discriminazione.

Il nostro paese in Europa registra una percentuale di dottoresse di ricerca, in totale e anche nelle aree STEM, superiore a quelle di Spagna, Regno Unito, Francia e Germania (*rapporto del ministero dell’Istruzione sulle carriere femminili in ambito accademico, marzo 2020). Significa che stiamo andando nella direzione giusta per quanto riguarda la rappresentanza femminile a tendere oppure è solo un primo passo?

Siamo solo ai primi passi. Guardando i dati in maniera più attenta ci si rende conto che sono buoni perché le materie STEM comprendono spesso anche biologia e medicina, che non hanno mai avuto il problema di un divario di genere. Prendiamo ad esempio ingegneria biomedica: nel nostro ateneo le studentesse di questo corso sono il 50%. Tuttavia in altre aree le donne sono pochissime, come elettronica ed informatica ad esempio, in cui da noi il tasso femminile registra meno del 10%, sebbene le professioni informatiche siano richiestissime. A livello di dottorato i dati migliorano perché abbiamo molte studentesse straniere che decidono di studiare qui, quindi la presenza internazionale riduce il divario.

E’ vero che siamo in un periodo storico in cui c’è consapevolezza del problema e si registra un rinnovato interesse da parte delle aziende per ridurre il gender gap, in linea con gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals SDGs), ma la realtà mostra che è il pay gap ad essere ancora importante, e si verifica sin dal primo impiego e a parità di voti negli studi.

Per aiutare le donne dal punto di vista professionale è fondamentale eliminare il pay gap, e per la loro carriera considerarle nella prospettiva della diversità.
Un aumento della rappresentanza femminile è quindi relativo se è riferito solo ad alcune funzioni e a determinate aree aziendali, abitualmente più umanistiche.
In questo senso c’è ancora molto da fare e il giusto spazio nel mondo del lavoro deve essere ancora conquistato.

Oltre alle tematiche di genere, quali sono le sfide di inclusione che a tuo avviso sono più stringenti per il sistema della ricerca e dell’università?

Prima di tutto sostenere la carriera delle donne. Man mano che si sale nella gerarchia accademica le donne sono sempre meno, come rilevato dal rapporto italiano della CRUI. La carriera femminile non deve essere danneggiata dai compiti di cura e da una maternità, per esempio. Noi abbiamo creato un bonus economico per sostenere il rientro delle ricercatrici dopo la maternità e supportarle nella ripresa della loro attività di ricerca scientifica.

A parte questo, credo che in università il tema dell’inclusione debba essere affrontato a tutto tondo: la priorità è creare le condizioni per accogliere la diversità in tutte le sue forme.

Noi lo stiamo facendo con il programma “POP” (Pari Opportunità Politecniche) che ha l’obiettivo di garantire un ambiente di studio e lavoro che rispetti le identità di genere, le diverse abilità, le culture e provenienze. Essendo un ateneo internazionale è importante infatti anche imparare a vivere con persone che appartengono a culture diverse ed è un percorso in cui dobbiamo impegnarci tutti, docenti, studenti e personale amministrativo.  Per raggiungere questi obiettivi, nella riorganizzazione dei servizi del Politecnico dell’anno scorso abbiamo voluto creare una unità organizzativa che segua tutti gli aspetti, chiamata Equal Opportunities, all’interno dell’area Campus Life.

Le persone non devono essere giudicate dalle apparenze, bensì dai meriti.  Solo eliminando ogni tipo di stereotipo o pregiudizio possiamo costruire un mondo inclusivo per tutti.

 

Valorizzare i beni culturali attraverso l’innovazione digitale: la multidisciplinarietà come asset di sviluppo

L’approccio multidisciplinare alla valorizzazione dei beni culturali, in grado di unire la conoscenza del bene e del costruito con le competenze manageriali applicate al contesto specifico, possono rappresentare una chiave strategica per il rilancio del Paese.

 

Deborah Agostino
Associate Professor in Accounting Finance and Control e Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei beni e nelle attività culturali, School of Management Politecnico di Milano.

Stefano Della Torre
Professore Ordinario di Restauro, Politecnico di Milano e Direttore del Master in Management dei Beni e delle Istituzioni Culturali – MIP Graduate School of Business, Politecnico di Milano

 

La situazione pandemica attuale ha riportato al centro dell’attenzione l’importanza di avere un approccio multidisciplinare alla valorizzazione dei beni culturali, che unisca le competenze umanistiche a quelle tecnico-scientifiche.
Il patrimonio culturale è di per sé multidisciplinare, nella diversità dei meccanismi con cui può produrre benefici per lo sviluppo locale, e la resilienza in occasione delle grandi crisi. Nel corso degli ultimi anni si è parlato a più riprese dell’importanza di comprendere nella valorizzazione tutta la complessità dei beni culturali, coinvolgendo discipline diverse, dall’archeologia all’architettura, alla chimica alla matematica fino ad arrivare alle scienze dei materiali, al design e al management.

Con la chiusura fisica dei luoghi della cultura italiani a seguito dei decreti legislativi volti a contenere la pandemia Covid-19, , si è sottolineata ulteriormente l’importanza di creare sinergia tra figure professionali differenti per valorizzare il patrimonio, anche e soprattutto in momenti di crisi. In questo specifico momento storico è l’innovazione digitale, e la capacità di presidiare il canale digitale, a creare il fil-rouge tra discipline differenti. L’esperienza di fruizione si è momentaneamente spostata dal luogo fisico al luogo digitale: la visita in loco si è trasformata in tour virtuali, le visite scolastiche in momenti online o gli eventi e le manifestazioni in loco in dirette streaming. Nella maggior parte dei casi, l’erogazione di questi servizi non è avvenuta in modo strutturato con un team di professionisti. Al contrario, spesso è stato un approccio emergente e di sopravvivenza dettato dalla contingenza, scontando il ritardo su diversi fronti. La School of Management ha monitorato le tipologie di contenuti digitali proposti così come le risorse dedicate. Se i risultati in termini di partecipazione online agli eventi sono stati mediamente elevati (la partecipazione online dei pubblici è raddoppiata nei mesi di lockdown rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), non si può dire lo stesso per le competenze e le risorse coinvolte. Infatti, i risultati dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Nelle Attività Culturali della School of Management mostrano che, a livello italiano, un museo su due è dotato di professionisti con competenze dedicate al digitale. Di questi, solo il 6% ha un team dedicato con un digital manager e un set di professionisti.

Sebbene l’approccio emergente utilizzato nel primo lockdown abbia garantito l’erogazione di contenuti culturali in digitale con le risorse disponibili, occorre ora fare una riflessione più strutturata rispetto alla sostenibilità nel medio-lungo periodo del modello di business, ulteriormente provato dalle chiusure e relativi mancati incassi. Questo richiede una riflessione su almeno tre aspetti:

  • La tipologia di contenuto culturale digitale, che non può essere una mera traduzione in digitale delle attività pensate per la fruizione in loco. Occorre, al contrario pensare e sviluppare offerte “native digitali”.
  • I meccanismi di revenue associati alla nuova offerta culturale digitale. I contenuti digitali emergenti nei periodi di lockdown sono stati gratuiti, ma questo non contribuisce alla sostenibilità economica dei musei.
  • Le competenze professionali da ingaggiare nello sviluppo del progetto che, inevitabilmente, deve unire le competenze sul patrimonio e sulle opere con le competenze manageriali, tecnologiche e del design dell’esperienza.

In questo contesto, la School of Management è attiva nel percorso di innovazione digitale delle istituzioni culturali, sia con la ricerca che con la formazione.
Sotto il profilo della ricerca, sono attivi progetti incentrati sull’analisi di nuovi modelli di business sostenibili, sugli approcci di digital transformation messi in atto e sulla misurazione degli impatti generati dall’innovazione. Ad esempio, con riferimento ai nuovi modelli di business, stiamo mappando le offerte fully digital e i relativi meccanismi di costo e ricavo. Dalle prime evidenze emerge una difficoltà nell’identificare una value proposition in grado di evidenziare il valore di una fruizione culturale digitale; questo vuol dire che se il visitatore è disposto a pagare il biglietto per la visita in loco, non è disposto a farlo per una attività digitale. La ricerca è nella fase iniziale, ma proseguirà nella mappatura dei modelli adottati a livello nazionale ed internazionale, anche in settori affini, in modo da contribuire alla definizione di un possibile “phygital approach” che sia in grado di unire la “fisicità” del patrimonio culturale al valore aggiunto dell’esperienza di fruizione digitale.

Sotto il profilo della formazione, è oggi più che mai necessario formare dei profili professionali multidisciplinari, includendo due competenze trasversali chiave: le soft skills e la capacità di comprendere linguaggi diversi all’interno del mondo dei beni culturali, e l’innovazione digitale, che comprende sia l’innovazione nel design dell’esperienza di fruizione, ma anche l’innovazione nelle tecniche di conservazione e nuovi linguaggi digitali. In questo contesto, la School of Management con il Master in Management dei Beni e delle Istituzioni Culturali – un unicum nel panorama italiano per aver unito le competenze politecniche dell’architettura, del management e del design in un unico percorso si è posta l’ambizioso obiettivo di formare figure apicali in grado di presidiare e governare i grandi cambiamenti in atto nel mondo dei beni culturali, unendo una profonda conoscenza del bene e del costruito con le competenze manageriali applicate al contesto specifico.
Questo è stato fatto con un approccio applicativo che consente di “sperimentare” nel contesto reale, la complessità nella gestione e valorizzazione del bene, favorendo il dialogo tra “teoria” e “pratica”, fra università e istituzioni culturali e tra professionisti diversi.
È una sfida ambiziosa quella che ci siamo dati, ma che riteniamo, oggi più che mai, possa essere un valore aggiunto per il mondo dei beni culturali, che sono parte del programma di rilancio del Paese.