Multidisciplinarietà: una nuova disciplina

 

Intervista a Vittorio Chiesa
Presidente MIP Graduate School of Business

 

Viviamo in un mondo caratterizzato da crescente contaminazione tra le discipline, in cui i profili professionali richiesti dalle imprese sono mutevoli: quale ruolo può avere una business school in questo contesto?

Il settore delle business school evolve di pari passo con le imprese e con il ruolo che queste assumono nella società in senso ampio. E’ da tempo che alle imprese viene richiesto di operare con “purpose”, ossia agire non solo per profitto ma per scopi più elevati, con la finalità di avere un impatto positivo su tutto il sistema di cui sono parte. Sia i mercati che i consumatori dimostrano una sensibilità crescente sul tema e per questo motivo per le imprese avere un rapporto con i propri stakeholder è diventato un elemento imprescindibile.

Allo stesso modo, le business school devono avere la medesima attenzione sia nei confronti degli allievi, sia nei confronti delle imprese. E’ con questo obiettivo in mente che quest’anno abbiamo ottenuto la certificazione Bcorp (Benefit Corporation) entrando nella community internazionale di società che si distinguono per l’impegno a coniugare profitto, ricerca di benessere per la società, inclusione, attenzione all’ambiente.

Il “purpose” deve diventare parte fondamentale nello sviluppo delle competenze delle persone, affinché si formino manager capaci di concepire l’impresa al servizio della società.
Si tratta di un salto culturale che le stesse imprese ci chiedono e che possiamo facilitare, insegnando ai nostri allievi come un’impresa possa e debba contribuire in modo positivo in un sistema e un territorio.
E’ questo il nostro ruolo: preparare professionisti a introdurre innovazioni fortemente orientate a “purpose” di natura non solo economica ma anche sociale.

La multidisciplinarietà è funzionale a questo obiettivo in quanto impone ampiezza di vedute, flessibilità, spirito critico, intuizione. Formare oggi non è solo specializzare in ambiti ristretti, è soprattutto contaminare con altre discipline per creare profili professionali più completi, capaci di analisi di livello sistemico e in grado di guidare le imprese definendo e ispirandosi ad un “purpose”.

La multidisciplinarietà quindi come strumento per mantenere una mentalità aperta ed elastica nei confronti del mondo. Come integrarla nella formazione?

Tradizionalmente l’approccio alla multidisciplinarietà è quello di fornire prospettive diverse all’interno di un percorso formativo, quindi offrire contributi diversi all’interno della formazione di base e specialistica. La sintesi tra multidisciplinarietà e competenze specialistiche è poi in genere lasciata al singolo individuo.

Ma è possibile applicare un approccio radicalmente diverso integrando in un percorso formativo la multidisciplinarietà, e facendola diventare parte integrante qualsiasi tema si insegni. La sfida oggi è proprio gestire la complessità di questo nuovo approccio, usando per esempio tecniche didattiche innovative che, modificando la logica di interazione tra docente e allievo, possano rendere più efficace questo tipo di formazione. Al momento non è di ampia e facile diffusione, ma sono certamente in corso diverse sperimentazioni.

Richiede una progettazione dei percorsi formativi specifica e quindi anche i docenti, o meglio gruppi di docenti, che operino in team vanno preparati in questa direzione. Dall’altro lato, la formazione multidisciplinare ha bisogno di maggiore interazione, quindi di essere erogata con piccoli gruppi e con forte ricorso a format didattici che coinvolgono gli allievi in modo attivo.

Credo che in futuro l’elemento distintivo tra le offerte formative sarà proprio questo: da un lato iniziative con contenuti specialistici fornite con modalità standardizzate e per grandi numeri, dall’altro iniziative con contenuti più trasversali e metodologie didattiche innovative, dedicate a gruppi più circoscritti.

In questo periodo si parla molto di life-long education come chiave per l’aggiornamento continuo delle competenze. E’ una dinamica che si interseca con quella della multidisciplinarietà?

L’apprendimento continuo vuol dire rimanere allineati con l’evoluzione del contesto e questo avviene solo raramente o in parte attraverso degli approfondimenti verticali. Più spesso equivale ad un allargamento del profilo professionale.

Anche per il life-long learning quindi vale quanto detto finora: deve avvenire su contenuti più ampi, ma anche in modi diversi dal passato, usando per esempio specifiche piattaforme in grado di trattare ampi spettri disciplinari.

“Purpose” e multidisciplinarietà: quali sono i piani del MIP per il futuro relativamente a questi aspetti?

Inserire in tutti i programmi formativi dei moduli sul “purpose”, sul ruolo dell’impresa e quello dei managers in qualità di leader e innovatori in questa direzione.

Sempre su questo tema, inaugurare dei “Purpose lab”, ovvero iniziative formative dedicate a studiare e analizzare in profondità come un’impresa possa costruire il proprio purpose, e supportare così i vertici delle imprese in questa evoluzione.

Infine innovare i formati di erogazione dei nostri servizi, affinché la scuola non sia solo un luogo di formazione, ma un luogo che favorisca la crescita di una persona a tutto tondo: dalla valutazione delle competenze, all’orientamento, allo sviluppo professionale.

Nuove connessioni nell’era post-Covid: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #3 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

Il titolo di questo numero è New connections in the post-Covid era. Discutiamo del cambiamento di approccio alle collaborazioni, alle partnership, alle reti internazionali e agli eventi, in un mondo che sta cercando di far fronte allo shock economico globale e all’impossibilità di viaggiare.

Ne parliamo con Giuliano Noci, Vice Rettore del Campus Cinese del Politecnico di Milano, che ci racconta come la nostra Università ha sviluppato il primo campus fisico al di fuori del nostro Paese, a Xi’An, in Cina, e come questa specifica situazione storica impone nuove forme di interconnessione in tutto il mondo.

Ci occupiamo poi degli effetti sulle grandi reti industriali, sulle esposizioni mondiali e sulle catene di approvvigionamento: il presente e il futuro del World Manufacturing Forum – con Marco Taisch, Presidente Scientifico della World Manufacturing Foundation; i possibili impatti di Expo Dubai 2020 – con Lucio Lamberti e Lucia Tajoli; la sfida della tracciabilità sulle catene di approvvigionamento globali – con Veronica Leon Bravo.

Infine, raccontiamo storie di progetti di formazione e ricerca, che attraversando con successo le frontiere, si occupano di creazione capacity building e gestione dell’innovazione.

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I numeri precedenti:

•      # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”

•       Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses

•       #2 “Being entrepreneurial in a high-tech world”

 

 

Expo Dubai 2020: un World Expo per ripartire

Lucia Tajoli
Professoressa Ordinaria di International Economics, School of Management, Politecnico di Milano

Lucio Lamberti
Professore ordinario di Multichannel Customer Strategy, School of Management, Politecnico di Milano
Coordinatore del Laboratorio PHEEL – Physiology, Emotion and Experience Lab

 

Expo Dubai 2020, che si terrà tra l’ottobre 2021 e marzo 2022 dopo il posticipo di un anno a causa della pandemia, sarà – presumibilmente e auspicabilmente – uno snodo fondamentale del post-Covid. I World Expo sono considerati dei mega eventi, paragonabili per impatto solo ai campionati del mondo di calcio e alle Olimpiadi per esposizione mediatica, numero di partecipanti e impatti sull’economia ospitante, ma, a differenza dei mega-eventi sportivi, hanno una durata maggiore (6 mesi) e, potenzialmente, hanno una maggiore influenza sull’economia anche dei paesi partecipanti.

Le ultime due edizioni del World Expo hanno avuto delle connotazioni particolari. Quella del 2010 a Shanghai è stata la più grande della storia per partecipanti, con circa 84 milioni di visitatori. Il tema trattato era la qualità della vita nelle città (“Better City, Better Life”), ma, non casualmente insieme alle Olimpiadi di Pechino del 2008, rappresentava anche la dimostrazione della Cina al Mondo della sua raggiunta prominenza socio-economica. L’Expo del 2015, tenutosi a Milano e incentrato sul tema della capacità di fornire cibo di qualità all’umanità (“Feeding the planet, Energy for life”), ha attirato circa 20 milioni di visitatori e ha rappresentato, in un contesto economico nazionale stagnante e pur in mezzo a notevoli complessità organizzative, un motore per quello che molti analisti internazionali hanno considerato il “Rinascimento” milanese dell’ultimo lustro.
Il tema di Expo Dubai 2020 è “Connecting Minds, Creating the future”; si tratta di un evento che si focalizza sul ruolo dell’interconnessione come chiave per lo sviluppo sostenibile.

192 Paesi hanno aderito, e tra questi l’Italia, che parteciperà con un padiglione dal tema “La Bellezza Unisce le Persone”.
Il Politecnico di Milano e la sua School of Management sono partner del commissariato del Ministero degli Esteri nazionale che sta organizzando la partecipazione italiana ai Expo Dubai 2020, e ha sviluppato, a partire dal 2018, diversi studi volti a quali-quantificare i potenziali impatti di tale presenza. Infatti, al di là dell’ovvio bisogno di giustificare l’investimento di risorse pubbliche nella realizzazione del Padiglione, la misurazione dei ritorni (economici e non economici) è resa particolarmente rilevante dalle specificità geopolitiche di questo evento: la posizione geografica di Dubai, fulcro dell’area ME.Na.Sa. (Middle East, North Africa e South Asia) e snodo logistico e dei corridoi della Nuova Via della Seta rende questo Expo un punto di contatto fondamentale tra l’Europa e quelle che sono le aree del mondo con i maggiori tassi di crescita economica e di crescita della classe media.

Non a caso, l’evento, nelle previsioni iniziali avrebbe dovuto attrarre una vastissima maggioranza di visitatori non locali, e prevede una partecipazione convinta e rilevante in termini di progettualità tanto di Paesi del Medio Oriente quanto di economie emergenti come quelle dell’India e dell’asia centro-meridionale. Si tratta di un’occasione di grande rilevanza per affrontare il tema dello sviluppo sostenibile in queste aree del mondo, ad esempio con riferimento alle Infrastrutture e ai trasporti, alla valorizzazione dei beni culturali, alle scienze della vita e all’aerospazio.

Tre principali ordini di considerazioni giustificano la grande attenzione che nel mondo gli operatori economici stanno rivolgendo all’evento.
In primo luogo, essendo il primo World Expo tenuto in Medio Oriente, Expo Dubai 2020 rappresenta un’occasione di consolidamento di rapporti commerciali e di rappresentanza a vari livelli tra quest’area del mondo, il mondo arabo, il Nord Africa e l’Europa.
In secondo luogo, si tratta di un Expo a forte connotazione di ricerca (ancor di più considerando che la pandemia potrebbe ridurre il numero di visitatori “reali” e accrescere il connotato di interconnessione virtuale): archiviata ormai da un paio di edizioni la stagione degli Expo interpretati come mera “vetrina” degli Stati partecipanti, la logica di partecipazione di molti dei Paesi coinvolti, tra cui l’Italia, è quella di creare in seno a Expo 2020 un vero e proprio hub di competenze per sviluppare piattaforme di collaborazione stabili, da perpetuare anche dopo l’evento.
In terzo luogo questo Expo rappresenta uno dei primi mega eventi, insieme alle Olimpiadi di Tokio, del post-pandemia, e quindi avrà il duplice ruolo di mostrare il possibile profilo della nuova normalità in termini di eventi, flussi di persone e interconnessioni, e dall’altro di contribuire alla ripresa economica dopo le interruzioni legate alla pandemia.

La misurazione delle ricadute della partecipazione a un mega evento con World Expo sull’Organizzatore, e ancora di più sui Paesi che partecipano senza ospitarlo, è un tema su cui la letteratura scientifica non ha ancora dato risposte definitive: con riferimento ai giochi olimpici, mentre ci sono indicazioni qualitative circa il risultato espansivo sul paese ospitante, ci sono anche molte voci critiche che evidenziano come queste iniziative tendono, a livello finanziario diretto (differenza tra investimenti e biglietti, diritti televisivi, sponsor, ecc.), a non ripagarsi.
E’ però evidente, da un lato, che gli effetti finanziari diretti sono solo un aspetto delle ricadute indotte (vi sono impatti turistici, di advertising equivalente del territorio, ecc.) e, dall’altro, che i World Expo hanno un profilo di indotto differente dai Giochi Olimpici, in ragione del fatto che dura 6 mesi e quindi movimenta un flusso di visitatori molto più elevato, e poiché la partecipazione dei Paesi ospitanti e organizzatori è orientata a obiettivi precipuamente di sviluppo economico e diplomatico.

Con riferimento ai Paesi partecipanti, in particolare, è possibile ricondurre gli ambiti di ricaduta a un impatto potenziale sull’export, in quanto la partecipazione è un momento di promozione delle proprie eccellenze e di organizzazione di missioni diplomatiche e commerciali. Vi è poi, e nella visione ad hub di Expo Dubai 2020 gioca un ruolo rilevante, la possibilità di favorire l’incontro tra domanda e offerta di capitali, ovvero tra iniziative imprenditoriali innovative e finanziatori, generando flussi in entrata e in uscita di investimenti diretti esteri. In terzo luogo, la partecipazione con un padiglione a un Expo è connessa anche alla promozione delle specificità culturali di un territorio (e la connotazione incentrata sulla bellezza e sulle tecnologie per i beni culturali della partecipazione italiana rende questo tema particolarmente centrale) e quindi tende a essere un momento di promozione turistica, con i potenziali effetti economici espansivi che ciò comporta. Infine, meno facilmente qualificabile ma certamente non per questo meno importante, la vicinanza diplomatica e l’esposizione a piattaforme di collaborazione scientifica rappresentano sempre più un fondamentale obiettivo della partecipazione a un Expo. L’analisi svolta nel 2018 aveva evidenziato come una stima cautelativa delle ricadute espansive legate a questi fenomeni per l’Italia potesse raggiungere il valore di 1,7 miliardi di Euro all’anno almeno per i 3-4 anni successivi all’evento.

E’ evidente che queste stime devono essere, se non riviste, riconsiderate alla luce della pandemia. Però, paradossalmente, al netto degli eventuali ulteriori freni all’evento legati a fenomeni in questo momento imprevedibili di continuazione dello stato di emergenza, il bisogno delle economie mondiali di recuperare le posizioni perdute negli ultimi mesi, e la possibilità di sperimentare nuove forme – più digitali e meno fisiche – di presidio di iniziative di promozione internazionale, potrebbero avere addirittura un effetto ancora più espansivo. Quello che è certo, è che Expo Dubai 2020 può avere un valore simbolico di desiderio di riscatto, e, al contempo, di tappa di ulteriore consolidamento del rapporto tra Europa e Asia. Analizzarne gli impatti nel breve, nel medio e nel lungo periodo è una sfida affascinante e che va raccolta per rendere queste occasioni sempre più centrali nel processo di sviluppo delle relazioni economiche (e non solo) internazionali.

Imprenditorialità in un mondo interconnesso: è online il nuovo numero di SOMeMagazine

E’ uscito il #2 di SOMe, l’eMagazine della nostra Scuola in cui raccontiamo storie, punti di vista e progetti attorno a temi-chiave della nostra missione.

Il titolo di questo numero è “Being entrepreneurial in a high tech world”. Mettiamo sotto la lente d’ingrandimento il cambio di approccio all’imprenditorialità in un mondo sempre più connesso, sempre più interconnesso, ma anche alle prese con la più grave crisi sanitaria dell’ultimo secolo.

Ne parliamo in apertura con una intervista ad Andrea Sianesi, presidente esecutivo PoliHub, che ci racconta come sta evolvendo alla luce della pandemia e come cambia il ruolo degli incubatori. Ne trattiamo poi elementi specifici come la strategia, la leadership e i modelli di business, con editoriali di Federico Frattini, Antonio Ghezzi, Roberto Verganti.

E, infine, raccontiamo storie di Alumni che con le loro idee hanno realizzato iniziative imprenditoriali di successo.

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I numeri precedenti di SOMe:
• # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”
• Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses”

Essere imprenditori in un mondo interconnesso

Ne parliamo con Andrea Sianesi, Professore di gestione dei sistemi logistici e produttivi della School of Management
Presidente Esecutivo PoliHub, Innovation District e Startup Accelerator del Politecnico di Milano

 

Andrea, sei a capo di un incubatore, e quindi abbracci nuove idee imprenditoriali quando sono ancora nella culla. Che caratteristiche ha un buon imprenditore in questo momento storico?

Prima di tutto coraggio. E questa è la stessa risposta che avrei dato anche prima della crisi provocata da Covid-19. L’iniziativa imprenditoriale è un salto nel vuoto, e impegnare risorse e tempo per sviluppare idee richiede sangue freddo.
Oltre al coraggio, credo sia fondamentale la capacità di correggere i propri errori e far tesoro degli “inciampi” che capitano durante il percorso.

Do per scontato ovviamente la necessità di possedere conoscenze tecniche e tecnologiche che riguardano la propria impresa. L’imprenditore che passa per PoliHub, in genere, ha una solida competenza tecnologica, mentre si trova ad essere un po’ più debole sulle conoscenze legate al mondo del business. Per questo, l’imprenditore deve essere aperto a fare partnership con altre persone che possano portare all’impresa competenze complementari, come ad esempio la capacità di sviluppo del mercato, o la conoscenza del framework normativo di riferimento.
Bisogna sempre essere disponibili a farsi aiutare.

PoliHub è un incubatore universitario: perché serve l’università, e a cosa esattamente?

L’ecosistema universitario è un asset fondamentale per chi vuol fare impresa. In particolare, al Politecnico di Milano, garantiamo contemporaneamente accesso alla business school, agli hub di innovazione POLI.design e Cefriel, a migliaia di docenti e ricercatori, a laboratori che coprono tutte le discipline ingegneristiche e che sono fondamentali, ad esempio, nel processo di trasformazione di un’idea a prodotto.

E noi per questo motivo non siamo soltanto un luogo che ospita le start up: offriamo un contesto unico rispetto ad altri incubatori. Spesso, nelle start up deep tech, è necessario svolgere attività sperimentale in laboratori che di fatto si trovano solo in università, e ci sono imprese che, seguendo sviluppi tecnologici in diversi settori, hanno distaccato alcuni loro dipartimenti per venire a localizzarsi da noi. Questo consente loro di collaborare e interagire con le start up e allo stesso modo avere la stessa facilità di accesso all’hub nella sua interezza.

Questo fa la differenza e i numeri ce lo confermano. Faccio un esempio: PoliHub, assieme al TTO (Techology transfer office) del Politecnico di Milano, gestisce ogni anno Switch To Product, il programma che valorizza sul mercato soluzioni innovative, nuove tecnologie e idee di impresa proposte da studenti e laureati da un massimo di tre anni, ricercatori, alumni e docenti del Politecnico di Milano, offrendo risorse economiche e servizi consulenziali per supportare lo sviluppo dei progetti d’innovazione attraverso percorsi di validazione tecnologica e accelerazione imprenditoriale. Quest’anno la call ha avuto un incremento delle domande del 20%. Si tratta di una crescita molto significativa, che ci fa anche ben sperare nell’aumento di nuove imprese di successo.

Covid-19 ha ribaltato il tavolo, modificando i confini e gli ecosistemi di business; gli effetti potrebbero essere di breve o di lungo periodo, che cosa hai osservato in particolare a riguardo?

Negli ultimi mesi si è temuto che la pandemia potesse spazzare via il mondo delle start up, che sono impossibilitate ad accedere a forme di sussidio messe in campo per altre categorie imprenditoriali e professionali. Il problema è reale e contingente: le start up oggi si trovano in maggiore difficoltà rispetto a imprese già navigate, ma per il momento il sistema sta reggendo e sta dando anche segnali incoraggianti.

L’effetto inatteso è stato infatti un aumento della domanda di accesso ai servizi di incubazione. C’è una forte richiesta di entrare nel mondo imprenditoriale, forse dovuto anche alla presa di coscienza che ora più che mai è necessario sapersi rimettere in gioco, anche per coloro che hanno una carriera consolidata, creando nuove opportunità di reddito laddove venisse meno una stabilità lavorativa.

E l’incremento della domanda di servizi avviene non solo da parte di potenziali start up, ma anche di aziende già formate, che decidono di delocalizzarsi in uffici più piccoli e snelli situati accanto a centri di eccellenza. Una nuova tendenza forse facilitata anche dal diffondersi dello smart working, che rende di più facile gestione uffici piccoli rispetto a sedi più grandi.

Dipingi un quadro con diverse opportunità all’orizzonte. Quali sono quindi i programmi futuri di Polihub?

La sfida per noi rimane quella di trovare le risorse che possano accompagnare le start up dall’idea, e quindi dall’università, con il suo fermento e la disponibilità di risorse legate a progetti europei e grant, a fondi e investitori disponibili a sostenerle in tutta la fase della loro crescita.

Mi piace visualizzare il processo come l’attraversamento di una valle: le start up hanno bisogno di un “ponte” tra le due fasi, di un accompagnamento che permetta loro di avere le risorse necessarie per rendere la loro idea interessante per gli investitori.
E affinchè l’idea sia interessante necessita di due elementi: dimostrarsi solida e verificata dal punto di vista tecnico, e avere un mercato target a cui rivolgersi.

Spesso le prove tecniche richiedono già investimenti considerevoli e tempi lunghi: noi ci impegniamo per far sì che questo “ponte” sia efficace, e possibilmente breve, rispetto agli obiettivi.

Il nostro progetto per il futuro è quindi quello di lavorare certamente per reperire investitori istituzionali e venture capital, ma con un approccio di ampio respiro che contempli il contesto internazionale e non solo una esposizione domestica delle nostre start up.

Abbiamo intenzione di pensare in logica internazionale, non solo per quanto concerne la parte finanziaria, ma anche per quanto riguarda l’uso di tutti i possibili asset messi a disposizione dal network degli incubatori di eccellenza su scala mondiale.

Siamo certi che mettere a fattor comune queste capacità ci permetterà di fare davvero la differenza.

Il futuro delle Business School tra innovazione e imprenditorialità

Il contesto in cui competono le business school di tutto il mondo è oggetto di una profonda e rapida trasformazione. La necessità di formazione manageriale sempre più specialistica, la competizione da parte di nuovi attori e, non ultima, la necessità di ridefinire il proprio contributo per la costruzione di un futuro più inclusivo e sostenibile, obbligano un ripensamento dei propri modelli operativi e di business.
Quali sono le trasformazioni da mettere in atto nell’ottica di una maggiore imprenditorialità e capacità innovativa delle business school?

 

Federico Frattini, Dean MIP-Graduate School of Business, Politecnico di Milano

Il contesto in cui competono le business school di tutto il mondo è oggetto di una profonda e rapida trasformazione, che determina la necessità di ripensare profondamente la sostenibilità del modello di business e del modello operativo “classici” delle business school.

Alcuni dei trend che si sono manifestati con più forza nel corso degli ultimi anni sono lo spostamento della domanda di formazione manageriale da programmi di “general management” a programmi “specialistici”, e una competizione sul mercato della formazione manageriale che si sta enormemente accentuando come conseguenza dell’ingresso di nuovi player. Da un lato infatti, le società di consulenza e di executive search stanno espandendo la loro offerta includendo servizi di formazione a sviluppo del capitale umano. Dall’altro, nuovi player “edtech” si stanno prepotentemente affacciando sul mercato della formazione, e i colossi globali della tecnologia (si pensi ad esempio a Microsoft, Google, Amazon) stanno sempre più seriamente considerando il mondo della formazione come una possibile nuova frontiera per sostenere i loro tassi di crescita.
La domanda di servizi di life-long learning sta crescendo rapidamente, anche per effetto della sempre più rapida obsolescenza delle competenze che vengono apprese nei percorsi di formazione manageriale “classici”; le attività extra-curriculari e quella che possiamo chiamare “campus life” stanno assumendo una crescente rilevanza nelle scelte degli studenti; infine, si rileva una “crisi” del valore sociale attribuito alle istituzioni accademiche, che stanno rapidamente perdendo reputazione, specialmente agli occhi delle generazioni più giovani.

Oltre a queste trasformazioni, ve ne sono altre che sono state profondamente accelerate dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus. Da un lato, le business school dovranno ridefinire il loro “purpose” e chiarire il contributo che intendono e sono in grado di dare nella costruzione di un futuro più inclusivo e sostenibile. Dall’altro, non potranno più ritardare l’avvio di un profondo processo di digitalizzazione dei loro processi e delle loro modalità ed approcci didattici.

Rispondere a queste sfide richiede un profondo ripensamento del modello di business delle business school. Alcuni dei cambiamenti più rilevanti che dovrebbero essere attentamente considerati dalla leadership delle business school in tutto il mondo sono i seguenti: da un focus sul trasferimento di competenze “disciplinari” a competenze “trasversali”, tra cui l’imprenditorialità, le digital skills, la sostenibilità, il critical thinking; da modelli di formazione “separata dalla pratica” a formazione “hands-on” e basata su una crescente contaminazione con la pratica manageriale ed imprenditoriale; da approcci alla formazione “uniformi per popolazioni omogenee di studenti”, a formazione “personalizzata”, in ottica “one-to-one”; da formazione “intermittente” e concentrata nel tempo, a formazione “on demand”, e continuamente mescolata all’attività professionale ed alla vita privata degli studenti; da formazione face-to-face vs. digitale, a modelli di formazione “omnicanale”; dal focus sulla produzione di conoscenza attraverso la ricerca ed il suo trasferimento attraverso il proprio portafoglio di prodotti formativi, alla ricerca ed integrazione della conoscenza disponibile al di fuori dei confini della business school (si pensi ad esempio alla disponibilità di contenuti di formazione di alta qualità sulle piattaforme MOOCs – Massive Online Open Courses).

Queste trasformazioni hanno una portata ed un potenziale impatto che spesso si scontrano con la cultura “burocratica” delle business school, con i processi di creazione di consenso che le contraddistinguono, e con i meccanismi di governance che spesso richiedono tempi di approvazione delle decisioni che male si sposano con le condizioni di contesto identificate in precedenza. Diventa quindi fondamentale per la leadership delle business school di tutto il mondo promuovere una trasformazione della cultura organizzativa, dei processi, delle competenze dello staff, e delle strutture organizzative nell’ottica di una maggiore imprenditorialità e capacità innovativa. Questo significa mutuare le soluzioni e gli approcci manageriali che le business school insegnano ai propri allievi ed applicarli nei propri modelli di gestione. Ad esempio, per gestire progetti di innovazione “radicali”, che richiedono profondi cambiamenti alle routine ed ai modelli operativi consolidati (si pensi, ad esempio, al lancio di piattaforme per la formazione a distanza, oppure di servizi di life-long learning abilitati dalle tecnologie digitali), molte business school stanno dando vita a degli spin-off per collocare questi progetti in un contesto organizzativo più agile e imprenditoriale. Molte business school stanno creando delle posizioni all’interno del loro staff di Chief Innovation Officer (CIO), che ha il compito di promuovere un processo di innovazione e trasformazione digitale continuo delle operations e dell’offerta. Si stanno sempre più diffondendo modelli di coopetition tra business school, con l’obiettivo di raggiungere una superiore massa critica e condividere i rischi ed i costi che progetti di innovazione radicale comportano (come ad esempio la messa a punto di innovativi Learning Management Systems).

Molte di queste trasformazioni richiederanno tempo per manifestarsi nel mondo delle business school, ma saranno fondamentali per sostenere la loro competitività nel tempo e garantirne la sopravvivenza.