Borsa di studio Gianluca Spina

Anche quest’anno gli allievi dei master MSCPM, MEM, MPAM e  dell’International Full Time MBA hanno la possibilità di fare richiesta per la borsa di studio in memoria di Gianluca Spina, Dean del MIP e Full Professor in Business Management and Supply Chain Management del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, messa a disposizione dall’Associazione Gianluca Spina.
Scrivi a infomasters@mip.polimi.it per avere maggiori informazioni relativamente a scadenze e bandi.

Da capo contabile ad abilitatore strategico: l’evoluzione del CFO

«Se il pilota di un’azienda è il CEO, il ruolo di co-pilota spetta senz’altro al CFO». La dichiarazione di Matteo Rinaldi, CFO di Sandoz Italia e già allievo della Graduate School of Business del Politecnico di Milano, esprime bene il ruolo centrale che oggi rivestono i direttori finanziari negli organigrammi aziendali. Il Chief Financial Officer negli ultimi cinque-sei anni ha conosciuto un’evoluzione molto rapida, che l’ha portato a una sempre maggiore partecipazione ai processi decisionali. Matteo Rinaldi ne ha parlato recentemente nel corso di una presentazione online dell’International Part Time MBA del MIP Politecnico di Milano.

Le quattro funzioni principali della sezione finanziaria di un’azienda possono essere viste come una piramide con alla base l’elaborazione dati e, man mano che si sale, la rendicontazione e il controllo, fino al vertice che è costituito dal supporto al processo decisionale. «Fino a qualche anno fa le prime tre funzioni erano preponderanti. Negli ultimi tempi, invece, la partecipazione ai processi decisionali ha assunto un peso sempre maggiore, a discapito delle altre tre» ha spiegato Matteo Rinaldi. «Elaborazione dati, rendicontazione e controllo hanno perso peso non solo in proporzione alla ‘Business partnership’ ma anche in valori assoluti. Infatti, una buona parte di quelle attività è migrata verso servizi centralizzati a livello aziendale. Ciò fa sì che nelle aziende multinazionali i team finanziari di ciascun paese siano numericamente più snelli che in passato, e che le attività dei CFO siano ora molto più focalizzate sul business».

Oggi il Chief Financial Officer misura il proprio successo sulla base dell’impatto che la sua attività ha sul business, piuttosto che sulla semplice accuratezza delle cifre e della rendicontazione. Questa evoluzione non va però intesa come spostamento da un modello a un altro, ma come l’aggiungersi di nuove funzioni a quelle originarie. «In Sandoz abbiamo sintetizzato questo processo con la frase ‘We drive the business to create value’. La base del nostro lavoro resta la capacità di leggere i dati, ma oggi dobbiamo anche essere capaci di interpretarli per prendere decisioni strategiche. Il primo passo è l’accuratezza dei dati, aspetto non banale, se è vero che, secondo una ricerca dell’Harvard Business Review, circa il 47% delle raccolte di dati contiene almeno un errore critico. In secondo luogo dobbiamo ‘unire i puntini’ dell’organizzazione, approfittando della trasversalità del settore finanziario rispetto alle altre funzioni aziendali. Accanto alle hard skills, sono poi importantissime anche le soft skills, necessarie, oltre che per gestire le persone, anche per negoziare e per capire tutti gli aspetti della propria azienda».

In sintesi, nel passato il CFO era soprattutto un contabile: il suo approccio era descrittivo e guardava al passato. Oggi è diventato un business partner, che deve essere dotato di competenze analitiche e adottare un approccio predittivo, quindi rivolto al futuro. «Il prossimo passo è rappresentato dal diventare un abilitatore strategico. Abbiamo cioè bisogno di usare sempre più le tecnologie digitali, di adottare un modello operativo agile. E di trasformare l’azienda in una ‘data driven organization’: oggi abbiamo a che fare con un’enorme quantità di dati, ma molti non sanno come impiegarli. Sandoz, in collaborazione con il Politecnico di Milano, sta usando strumenti di Intelligenza Artificiale per costruire un modello previsionale che le consenta di produrre con maggiore precisione la giusta quantità di ciascuno dei suoi 800 prodotti».

 

 

GEMOS: ecco le novità della prossima edizione

GEMOS, l’executive master dedicato ai professionisti della supply chain sviluppato in partnership con EADA, si aggiorna con tanti nuovi contenuti e un formato ancora più flessibile!

A partire dalla prossima edizione, infatti, gli allievi affronteranno nel programma anche temi di grande attualità come la sostenibilità, l’innovazione e i big data e la data analysis.
Un’evoluzione che ci permette di rimanere al passo con un mondo del lavoro in costante cambiamento.

Così, se da una parte lo studio della teoria è importante, mettere in pratica le nozioni apprese lo è ancora di più. Ecco perché in tutti i moduli svolti al MIP gli allievi avranno sia la possibilità di mettersi alla prova con un Business Game nel quale supply chain e finance si intersecano, che di conoscere da vicino l’ecosistema delle aziende italiane attraverso varie company visit.

Infine, anche il formato cambia, aggiungendo una componente in distance learning. Alle lezioni in aula – un long weekend ogni due mesi – si aggiungeranno infatti delle sessioni serali live in digital learning, per rispondere maggiormente alle necessità familiari e professionali dei nostri allievi, che provengono da tutto il mondo.

Il Project Manager oggi tra tecnologia, esperienza, rapidità

Nuove tecnologie, Big Data e dimensione internazionale sono alcuni dei fattori con cui oggi si deve misurare il Project Manager, figura spesso sottovalutata che, in virtù di scenari sempre più complessi e fluidi, assume crescente importanza. Ne abbiamo parlato con Mauro Mancini, professore di Project and Programme Management alla School of Management del Politecnico di Milano.

«È bene aver chiaro che la gestione di un progetto è la gestione di persone e di informazioni, e l’era della digitalizzazione che stiamo attraversando sta cambiando approcci e metodi di interazione e comunicazione tra le persone – precisa il professor Mancini –. Quanto più un’azienda riesce a dotarsi di strumenti di gestione dei progetti che possano beneficiare di tutto questo, tanto più riuscirà a cavalcare efficacemente i continui cambiamenti del contesto in cui opera».

In questo senso, l’Intelligenza Artificiale (AI), più che una minaccia, va considerata un’alleata. «La quantità di dati che dobbiamo gestire oggi è nettamente superiore al passato. Un Project Manager deve riuscire a capire in tempi molto rapidi la situazione, recuperare il maggior numero possibile di dati, verificarne la qualità ed elaborarli per definire un piano tattico o strategico – in funzione del contesto. L’Intelligenza Artificiale sarà sempre più importante per un Project Manager, perché sempre più quest’ultimo si troverà di fronte a situazioni non previste». Ma secondo Mauro Mancini, la parte più qualitativa del lavoro resterà appannaggio dell’uomo: «L’Intelligenza Artificiale compie delle simulazioni sulla base di regole fornite dall’uomo, ma non può prevedere il futuro. Chi deve gestire un progetto ha bisogno che tutto ciò che rispetta le regole del passato venga gestito ‘in automatico’, e in questo l’AI è molto utile, ma lo spunto vincente da punto di vista innovativo o della creatività sarà, a mio modo di vedere, sempre in mano all’intelligenza umana».

L’accento posto dalla società in cui viviamo sulla rapidità, e la possibilità, spesso offerta dalla tecnologia, di sperimentare soluzioni velocemente, sta portando alla diffusione dell’approccio noto come “cultura del fallimento”, il cui senso è racchiuso nell’espressione inglese “Fast fail, cheap fail”. «È un approccio che mi trova totalmente d’accordo – afferma Mancini –. In alcune culture, in particolare quella americana, se non hai mai sbagliato, non sei adatto a guidare dei processi particolarmente complessi e innovativi, perché non avere mai sbagliato vuol dire non avere mai rischiato. Ovviamente un progetto ha bisogno di tutti: persone che rischiano come di conservatori. E il Project Manager deve avere la capacità di capire quali sono le aree in cui è giusto sbagliare per imparare velocemente dall’errore e quali aree in cui muoversi con maggior attenzione».

Alla questione della velocità si lega in parte anche un altro tema molto dibattuto in questo periodo, quello della giusta proporzione fra soft skills e hard skills nelle professioni manageriali. In questo senso, a essere rapidi sono da un lato i mutamenti di scenario – nel mercato o in un singolo progetto – che richiedono capacità di adattamento e apprendimento, dall’altro il cambiamento delle competenze specialistiche richieste a chi lavora (soprattutto nell’hi-tech). «Uno dei compiti del Project Manager – spiega Mancini – è proprio quello di capire in tempi molto rapidi le competenze tecniche richieste per un determinato progetto (hard skill). Quanto alle soft skill, che io preferisco chiamare competenze comportamentali, sono in questo periodo oggetto di grande attenzione in Europa. Anche in questo caso c’entra il fattore tempo: sono competenze che, proprio in quanto ‘soft’, vengono sollecitate quotidianamente fin da piccoli. I settori industriali sono caratterizzati da diversi gradi di complessità tecnica, ma affinché un Project Manager sappia valutare la correttezza di una risposta alla fondamentale domanda ‘quanto tempo ci vuole a svolgere questa attività?’ indipendentemente dal fatto che sia posta ad una risorsa interna o esterna alla propria organizzazione, è necessario che quell’attività l’abbia svolta anche lui o, quantomeno, abbiamo tutti gli elementi per verificarne in tempi rapidi (spesso in tempo reale) la correttezza della valutazione. Avere competenza tecnica per un Project Manager non significa saper progettare un componente, un sistema o un’organizzazione, ma conoscere e/o acquisire in tempi rapidi le regole del gioco del contesto in cui ci si deve muovere».

Fra le competenze comportamentali, sono destinate a rivestire sempre maggiore importanza quelle interculturali. «Sempre più ci scontriamo con progetti in cui i soggetti in gioco provengono da culture completamente diverse. Nei vari paesi le capacità relazionali fanno leva su strumenti tecnici diametralmente opposti a quelli tipici della propria cultura di appartenenza. Dovremmo quindi esser sempre più capaci di interagire con modalità di pensiero e comportamenti molto diversi dai nostri, che possono nascondere valori altrettanto diversi».

 

 

Pronti, partenza, via: che il colloquio abbia inizio!

Un processo di selezione è un po’ come una maratona. Difficilmente riesci ad arrivare in fondo se non hai alle spalle le qualità e l’allenamento giusti. Così se i nostri studenti costruiscono durante l’MBA il bagaglio di conoscenze che farà risaltare il loro CV, le simulazioni e i workshop organizzati dal Career Development Center rappresentano l’allenamento ideale per il colloquio in sé.
L’asticella poi si alza quando parliamo delle società di consulenza, che spesso propongono ai candidati dei “case interviews”. Infatti, in un processo di selezione già impegnativo di per sé, i business case rappresentano per i candidati un’ulteriore sfida.
Ecco perché il Career Development Center fornisce fin dall’inizio dell’MBA consigli e materiali utili alla preparazione per questo tipo di colloqui. Tuttavia, cosa c’è di meglio di un’esercitazione guidata?
Per l’occasione è tornato in aula il nostro Alumnus Maurizio Paolella, Senior Vice President at AlixPartners London, pronto a mettere la propria esperienza a servizio degli studenti.

“Durante la selezione, uno dei principali obiettivi comuni di Intervistatore e Candidato è di far emergere le qualità di quest’ultimo” – spiega Maurizio. –“ Nella consulenza, il business case è senz’altro uno strumento utile per la ricerca delle competenze. Dal momento che “non c’è mai una seconda occasione per fare una buona prima impressione”, diventano fondamentali la preparazione ed imparare a sentirsi a proprio agio in una situazione di stress: in questo modo si riuscirà a dare il meglio sé, ampliando a piccoli passi la propria comfort zone.”

Grazie a questo workshop, gli allievi MBA hanno scoperto un modo interattivo e divertente di migliorare le proprie competenze di gestione dei colloqui. La lezione si è divisa in due parti. Una con attività di ice-breaking, durante la quale hanno imparato a presentare il proprio percorso professionale in modo efficace e conciso, e una seconda con un role play volto a simulare i principali errori fatti dai candidati durante la discussione di business case.

Smart Working: il punto di vista del Direttore HR

Con circa 480 000 smart worker in Italia, il lavoro agile è un tema che interessa moltissime aziende. Il MIP non fa eccezione e, infatti, da qualche mese ha dato il via a un progetto di Lavoro Agile aperto a tutti i dipendenti. Ne abbiamo parlato con il responsabile delle Risorse Umane Gianvincenzo Scarpa.  

 

Che cos’è per te lo smartworking?

Per me non si tratta “solo” di lavorare da casa, ma piuttosto del primo passo di una rivoluzione che sta interessando ormai da anni la concezione tradizionale del posto di lavoro.
Per tanto tempo, ci si è recati in fabbrica cinque giorni alla settimana: la presenza sul luogo di lavoro era una necessità, la gerarchia regnava sovrana e tutti i dipendenti erano costretti a timbrare il cartellino.

Oggi, questo modello “tradizionale”, in gran parte dei contesti aziendali, può essere superato grazie alla tecnologia digitale, che è diventata regina di una nuova idea di ufficio e permette di gestire in modo ottimale sia le attività che rapporti con i colleghi.
Smart working per me è anche una sfida: è compito della Direzione HR, insieme ai responsabili d’area, aiutare i dipendenti a superare alcune criticità che comunque esistono, come per esempio la sensazione di isolamento rispetto ai colleghi, alle attività e alla vita d’ufficio, incentivando le persone a sfruttare appieno tutte le opportunità che la tecnologia offre e che una società mette a disposizione.

 

Puoi spiegarci come mai il MIP ha intrapreso la strada del Lavoro Agile?

I motivi che ci hanno spinti verso lo smart working sono tre: un migliore work-life balance, un impatto positivo in termini di sostenibilità ambientale e anche una maggiore responsabilizzazione delle persone verso i risultati.

Al MIP c’era già un’attenzione verso il work-life balance, declinata in termini di una flessibilità di orario molto estesa. A questa abbiamo deciso di unire anche una flessibilità di luogo.
Prima di imboccare questa strada abbiamo fatto un’analisi dalla quale è emerso che il 70% dei dipendenti raggiunge il luogo di lavoro con i mezzi pubblici e che il 40% impiega in media 45 minuti per arrivare al MIP.
Abbiamo ritenuto che guadagnare complessivamente tra i 60 e i 90 minuti del proprio tempo potesse avere degli effetti molto positivi anche sulla produttività. Peraltro, secondo le ultime ricerche una gran parte dei lavoratori – soprattutto tra i più giovani – è disposta ad accettare una retribuzione minore in cambio di politiche di lavoro agile. Sostanzialmente, torniamo al tema che la felicità non è tanto una questione di denaro, quanto di tempo a disposizione.

 

Hai già menzionato l’influsso positivo su retention e soddisfazione dei dipendenti. Quali sono gli altri vantaggi per l’azienda?

Lo smart working incrementa la fiducia delle persone, incidendo positivamente sia sull’engagement che sulla motivazione. Queste sono anche le basi per una buona performance da parte dei dipendenti e, quindi, di riflesso, anche dell’azienda.
Migliore motivazione significa anche maggiore retention, diminuzione dell’assenteismo ed aumento della produttività. Questo perché le risorse, grazie alla fiducia avvertita e che viene riposta, si sentono maggiormente responsabili del raggiungimento dei risultati.

 

Qual è invece la tua esperienza di smart worker?

Sicuramente ne apprezzo i reali vantaggi: abitando a 30 km da Milano ne sperimento la sostenibilità a livello ambientale e il risparmio di tempo. Guadagno infatti quasi due ore, che vanno a vantaggio della mia vita familiare.
Per molte persone – al MIP ci sono tante mamme – poter avere il tempo di accompagnare i figli a scuola anche solo una volta alla settimana fa la differenza.

L’impatto positivo non è solo nella sfera privata, ma anche in quella professionale. Organizzo il lavoro in modo da dedicare la giornata di smart working a quelle attività che richiedono molta concentrazione e/o sono particolarmente time-consuming. Si sa, in ufficio il tempo si dilata, a causa di quelle normalissime interruzioni da parte dei colleghi che fanno parte del lavoro quotidiano… A casa, invece, è più facile che il tempo stimato per completare un’attività diventi quello effettivo.
Tutto questo è possibile perché c’è una pianificazione a monte. Altrimenti, c’è il rischio di vivere la giornata di smart working come un impedimento, concentrando negli altri giorni tutte le attività che richiedono la presenza in sede.
L’esperienza è positiva, in linea con le nostre prime survey, che mostrano grande soddisfazione sia da parte degli smart worker che da parte dei responsabili.

 

Fino ad ora abbiamo parlato delle opportunità, ma tornando anche a quello che hai detto in apertura, ci sono delle sfide da affrontare. In particolare cosa cambia nella gestione delle risorse umane e nel rapporto con i responsabili d’area?

Effettivamente, cambia tanto. La direzione HR ed i cosiddetti manager gestori di risorse devono essere allineati e condividere una visione strategica. Sono i responsabili d’area infatti ad essere coinvolti in prima persona nella buona riuscita del progetto e sta alle Risorse Umane supportarli nella modifica dei propri stili di leadership.
L’obiettivo è quello di passare da un modello costruito sul controllo e la supervisione ad uno basato sul raggiungimento – anche in autonomia – dei risultati. Nei posti di lavoro di nuova generazione i risultati sono più importanti delle apparenze.
Un altro degli aspetti fondamentali è l’empowerment delle risorse. È importante coinvolgere i collaboratori nelle decisioni, responsabilizzandoli e stimolandoli a proporre miglioramenti delle modalità di organizzazione del lavoro.
Perché questo accada, HR e responsabili d’area devono lavorare insieme, in modo che ci siano allineamento e coerenza a livello di visione e strategia.

Un’altra sfida è invece a livello di cultura aziendale. Questo progetto, infatti, coinvolge persone con seniority diverse, appartenenti a generazioni diverse con idee differenti sul modo di lavorare e con una percezione diversa della tecnologia e delle sue potenzialità. Se per un Millennial è naturale sfruttare appieno la tecnologia anche sul luogo di lavoro, esattamente come fa al di fuori dell’ufficio, per una persona abituata a muoversi in un mondo analogico, può essere meno immediato abbracciare un nuovo modo di lavorare basato sulla condivisione e sugli obiettivi.

Ecco perché i modelli di funzionamento basati su comando e controllo devono lasciare il campo a forme di collaborazione più condivise e digitali.

 

Come hai sottolineato, gli attori coinvolti in questo progetto sono sia i responsabili che lo staff. Che consigli ti sentiresti di dare agli uni e agli altri per cogliere tutte le opportunità dello smartworking?

Secondo me l’unica strada per vivere tutte le dimensioni dello smart working – non solo quella del lavoro da casa – è rimettersi in gioco.
Spero che le persone sentano la necessità di mettere in discussione i canovacci del lavoro tradizionale, anche se sono abituati a lavorare in un certo modo da dieci o quindici anni.
Per apprezzare a pieno le potenzialità del lavoro agile non basta un pc: bisogna sfruttare tutte le piattaforme messe a disposizione dell’azienda, in modo da essere il più possibile integrati nelle attività dell’ufficio.

Ai responsabili più scettici che faticano a pensare che una propria risorsa stia lavorando proficuamente in una location diversa dall’ufficio, ricordo che a valle di una corretta pianificazione e condivisione degli obiettivi, i dipendenti sanno cosa stanno facendo e dovranno rispondere in caso di scadenze non rispettate o peggio ancora obiettivi non raggiunti. È evidente che in questi casi il problema non è la flessibilità che permette di lavorare da remoto, bensì il dipendente stesso che non soddisfa le aspettative dell’azienda.

 

Per concludere, guardando al futuro cosa vedi?

Lo smart working non deve essere un punto di arrivo, ma il primo passo di una rivoluzione, il punto di partenza per altre trasformazioni del workplace.
Tante aziende, per esempio, hanno rivoluzionato gli spazi, rendendoli più aperti e condivisibili. Oggi infatti il lavoro per “compartimenti stagni” è superato e molte persone di differenti team lavorano insieme su progetti in modo trasversale.
In questo momento al MIP non siamo ancora a buon punto di quel cambiamento culturale: per esempio, la zona ricreativa che abbiamo creato per i dipendenti, non è molto sfruttata. Non c’è ancora l’idea che una breve partita a ping pong possa risolvere un momento di empasse lavorativa. Non è vista come l’occasione per recuperare magari concentrazione, e quindi produttività, ma come una distrazione dalle proprie mansioni. Così come, dalle ultime analisi, ancora non stiamo sfruttando a pieno regime tutte la tecnologia digitale che abbiamo a disposizione.
Oggi sarebbe azzardato portare avanti dei nuovi cambiamenti ai quali non siamo ancora pronti. Lo smartworking è il primo passo: in caso di riscontri positivi potremo continuare a cavalcare l’onda di cambiamento che sta investendo il cosiddetto workplace.

IL POLITECNICO TRA LE PRIME 20 UNIVERSITÀ AL MONDO PER IL QS BY SUBJECT 2019

NELL’AUTOREVOLE CLASSIFICA, POLITECNICO CONFERMA ECCELLENZA IN INGEGNERIA, ARCHITETTURA E DESIGN

Per il QS World University Rankings 2019, il Politecnico di Milano è il 16° ateneo al mondo nella categoria Engineering & Technology – guadagnando una posizione rispetto allo storico risultato dell’anno scorso – l’11° in Architettura e il 6° in Design.

L’eccezionale risultato dell’Ateneo, in particolare nell’area dell’Ingegneria, se analizzato in dettaglio rivela un altro primato: in Civil & Structural Engineering è 7° al mondo (guadagnando due posizioni rispetto al 2018), così come in Mechanical, Aeronautical & Manufacturing Engineering (17° lo scorso anno).

L’ottimo piazzamento internazionale premia l’impegno dell’ateneo nel confermarsi polo d’attrazione per studenti, ricercatori e docenti qualificati da tutto il mondo. In una categoria estremamente competitiva come quella di “Engineering & Technology”, il Politecnico di Milano sta avvicinandosi a piccoli passi alla top 10 mondiale dove regnano realtà del calibro di MIT, Stanford e Cambridge e gli agguerriti poli tecnologici dell’estremo oriente.

Nel panorama italiano, il Politecnico di Milano si conferma primo assoluto sia in Ingegneria che in Architettura e Design.

QS World University Rankings è una delle più citate e autorevoli classifiche di università internazionali, progettata principalmente per i futuri studenti stranieri e pubblicata annualmente.

Per produrre la classifica 2019, QS ha preso in considerazione 1.222 università analizzando 48 materie divise in 5 macro aree.

Manifattura 4.0: al centro c’è l’uomo

Il futuro del manifatturiero è digitale e passa dalla Quarta Rivoluzione Industriale. Le piccole e medie imprese, al pari delle grandi, devono attrezzarsi per non restare irrimediabilmente indietro. Eppure, in modo solo all’apparenza paradossale, l’Industria 4.0 rilancia la centralità dell’uomo e di temi quali la formazione e l’inclusione sociale.

Non è esagerato dire che proprio dal settore manifatturiero passano i futuri equilibri del mondo. Ne è convinto Marco Taisch, docente di Advanced and Sustainable Manufacturing presso la School of Management del Politecnico di Milano: «Il manifatturiero avrà in futuro un vero e proprio ruolo di peacekeeper. Grazie alla sua evoluzione e alla sua diffusione, assisteremo a una diminuzione dei fenomeni migratori e all’aumento dei livelli di benessere. In altri termini, godremo di una maggiore stabilità sociale, che deriva anche dalla ricaduta indotta che il manifatturiero ha su altri settori dell’economia; ad esempio, per ogni euro generato dal manifatturiero se ne generano circa almeno due nel settore dei servizi a esso correlato. A patto, ovviamente, di introdurre gradualmente le competenze necessarie, senza le quali è impensabile una sostenibilità a tutti i livelli».

Nel corso del World Manufacturing Forum 2018, Marco Taisch, chairman scientifico, ha presentato un report contenente dieci raccomandazioni per il futuro del manifatturiero. Il tema delle competenze e della formazione è uno di quelli ritenuti più importanti: «Bisogna investire nelle persone, oltre che nelle tecnologie. La formazione ha un impatto più che lineare: senza di essa le tecnologie non possono dispiegare il loro pieno potenziale». Attenzione, però. A differenza di altri settori il manifatturiero ha bisogno soprattutto di skill specifiche: «La trasversalità delle competenze è sempre utile, ma in questo caso le skill digital e hard pesano di più rispetto a quanto accade in altri settori».

Proprio per questo c’è bisogno di un cambio di passo nel mondo della formazione. Se da una parte gli analisti sono concordi nel prevedere che la Quarta Rivoluzione Industriale determinerà un saldo occupazionale negativo nel breve periodo, dall’altra il professor Taisch afferma che la situazione si ribalterà in positivo a medio-lungo termine: «A patto, però, che cambi anche il modo di comunicare il manifatturiero, un settore ancora associato a un’immagine ‘sporca’, che spaventa le famiglie e spinge i giovani a intraprendere percorsi di studio che poi non trovano sbocco nel mercato».

Gli atenei si stanno attrezzando. La School of Management del Politecnico di Milano, ad esempio, offre un percorso executive in Manufacturing Management che ha l’obiettivo di far comprendere meglio le potenzialità di un manufacturing del futuro nuovo, avanzato, intelligente e sostenibile e introdurre gli elementi costituenti della moderna rivoluzione industriale.

Un’opportunità da cogliere, dunque. Anche adottando l’ottica dell’inclusività e della diversity: «Per lungo tempo il manifatturiero è stato appannaggio del genere maschile, per banali questioni di forza fisica – prosegue Taisch –. Le tecnologie 4.0 spostano il baricentro dal muscolo al cervello, e quindi maggiormente verso la donna. Sono poi personalmente convinto, e con me tanti altri esperti, che l’impresa possa trarre un grande vantaggio dall’assunzione di individualità diverse per genere, religione, etnia. È una questione di competitività, oltre che di etica».

I timori, d’altra parte, non mancano, e spesso sono espressi proprio dalle aziende e da chi è già inserito nel circuito lavorativo, spaventato dall’idea che una macchina possa estrometterlo dal processo produttivo: «In realtà non è così. Le tecnologie 4.0 sono abilitanti. Non sono alternative all’uomo, ma ne aumentano le capacità e la produttività, valorizzandolo ulteriormente», spiega il professor Taisch.

Un altro elemento che determina diffidenza, soprattutto nelle PMI, è la cybersecurity: «Il cloud spaventa. Molte aziende si chiedono: ‘Dove sono i miei dati?’. Il timore nasce prima di tutto da una mancanza di comprensione, e in seconda battuta dalla sovrastima di alcuni rischi che le tecnologie in effetti comportano. Le aziende perdono dati molto più spesso per un backup errato, che per colpa del cloud. La verità è che un’azienda che si pone al di fuori della Rete è destinata a sparire nel giro di pochi anni, e che oggi i dati vanno considerati a tutti gli effetti come una materia prima».

Quali lavori sopravviveranno all’Intelligenza Artificiale

Vogliamo portare l’intelligenza in ogni cosa, dappertutto, e per chiunque”. L’ha detto Satya Nadella, Ceo di Microsoft, azienda che ha recentemente lanciato la chatbot “Zo” in grado di costruire sofisticati colloqui uomo-macchina. Ed è proprio attraverso strumenti di intelligenza artificiale (IA) di Microsoft che la School of Management del Politecnico di Milano ha sviluppato FLEXA, innovativa e rivoluzionaria piattaforma digitale di personalised e continuous learning, un digital mentor in grado di individuare e selezionare specifici contenuti, utili per il percorso di studi di ciascun utente.

«Questo progetto, ma il discorso vale in generale per l’Intelligenza Artificiale, è partito da una consapevolezza: avevamo individuato determinate necessità e la tecnologia poteva aiutarci a soddisfarle – racconta Federico Frattini, Associate Dean of Digital Transformation di MIP Politecnico di Milano nonché ideatore di FLEXA –. Nello specifico, gli studenti dei nostri master volevano conoscersi meglio, anche in un’ottica comparativa, per poi intraprendere percorsi di formazione ad hoc, mentre i nostri Alumni, gli ex studenti, ci chiedevano soluzioni efficaci di continuous learning. Abbiamo ragionato sulla base di questi input e il risultato è stato FLEXA: su questa piattaforma è possibile effettuare un assessment delle proprie soft, hard e digital skill e dichiarare le proprie ambizioni di carriera; una volta elaborate queste informazioni, FLEXA fornisce tutte le indicazioni per colmare questi skill gap attraverso eventi, corsi e percorsi di formazione individuati sulla base delle necessità indicate. E non si tratta solo di contenuti del Politecnico di Milano: abbiamo accordi con Gartner, New York Times, Financial Times, MIT e tante altre realtà prestigiose. Con FLEXA, inoltre, sarà possibile farsi raccomandare un mentor, creare un sistema di matching con il mondo delle startup e con quello delle imprese, creare nuovi contenuti».

È comprensibilmente acceso il dibattito sull’impatto che l’intelligenza artificiale avrà sull’occupazione. Oltre che nei lavori più meccanici e ripetitivi, come quelli svolti dagli operai alla catena di montaggio e alla guida delle auto, e ad alcune attività nella ristorazione e nei supermercati, l’automazione sta entrando anche nel campo dei servizi. Secondo alcuni studi, per esempio, entro il 2030 non ci saranno più call center “umani”, mentre in Giappone molti robot sono già operativi nell’assistenza agli anziani.

Per contro, l’intelligenza artificiale ha dei limiti che in molti casi le impediscono di sostituirsi al lavoro umano, e al contempo è ancora forse sottovalutato il ruolo che la tecnologia può avere per affiancare e rafforzare l’uomo nell’esercizio di alcune delle sue attività più qualificate. Il cinese Kai-Fu Lee, noto esperto di intelligenza artificiale, imprenditore proprio in questo settore e autore del recente volume AI Superpowers: China, Silicon Valley, and the New World Order, individua quattro debolezze dell’IA nella performance lavorativa:

  1. l’IA non può creare, concettualizzare o gestire una pianificazione strategica complessa;
  2. l’IA non può svolgere lavori complessi che richiedono una precisa coordinazione di mani e occhi;
  3.  l’IA non può far fronte a spazi sconosciuti e non strutturati, specialmente quelli che non ha precedentemente osservato;
  4.  l’IA, diversamente dagli umani, non può interagire con empatia e compassione (intesa come sensibilità), e quindi è improbabile che gli umani optino di interagire con un robot apatico per i tradizionali servizi di comunicazione.

Data questa premessa, Kai-Fu Lee stila una lista di dieci professioni che saranno immuni dall’invasione robotica, almeno nei prossimi 15 anni: psichiatria, terapia fisica, medicina, ricerca e ingegneristica nel campo dell’intelligenza artificiale, scrittura di fiction, insegnamento, avvocatura, scienza e ingegneristica nel campo dei computer, scienza, management. In tutte queste professioni l’IA potrà essere di aiuto, ma solo in senso collaborativo per la gestione di certi dettagli tecnici.

“Non vi è alcun dubbio che la rivoluzione dell’intelligenza artificiale richiederà aggiustamenti e una grande dose di sacrifici” afferma Kai-Fu Lee, “ma disperarsi invece che prepararsi per ciò che è in arrivo è improduttivo e, forse, pure incauto”. E poi aggiunge: “Dobbiamo ricordarci che la nostra capacità umana di avere compassione ed empatia sarà un bene prezioso per la forza lavoro del futuro, e che le attività che dipendono dalla cura, dalla creatività e dall’istruzione rimarranno vitali per la nostra società”.

«Io credo che il miglior modo per avvicinarsi all’intelligenza artificiale sia ricondurla alle teorie che spiegano l’innovazione e l’imprenditorialità – conclude Federico Frattini –. Possiamo definirla come un acceleratore dei processi di distruzione creatrice determinati dall’innovazione digitale, prendendo spunto da ciò che sosteneva l’economista austriaco Joseph Schumpeter quasi un secolo fa a proposito dei grandi cambiamenti che hanno avuto un impatto sull’economia e sulla società: si creano nuove opportunità, nascono nuove aziende e nuove professionalità, altre evolvono e altre ancora, inevitabilmente, spariscono. Non possiamo certo opporci alle forze creative che hanno cambiato la società nel corso dei secoli».

Il Politecnico si aggiudica la vittoria della CFA Research Challenge

Il Politecnico ha vinto la finale italiana della CFA Research Challenge 2019, la competizione mondiale di finanza targata CFA Institute e promossa da FactSet, Fidelity International e PwC.
Gli studenti di Ingegneria Gestionale Paolo Farfalletti Casati, Valentina Zanni, Giovanni Righi, Giacomo Ferrari e Andrea Monteduro, sotto la guida dei docenti Marco Giorgino e Laura Grassi e del mentor CFA Daniele Zujani, hanno presentato il loro studio a una giuria di sei esperti del settore finanziario: Domenico Ghilotti (Equita Sim), Marco Greco (Value Track), Nicola Madureri (PwC Italy), Angelo Meda, CFA (CIPM Banor Sim), Marco Mossetti, CFA (Eurizon Capital SGR), Pinuccia Parini (AIFO Advisory).

Alla fase italiana, coordinata da CFA Society Italy, oltre al Politecnico di Milano hanno partecipato i team rappresentanti di Università Cattolica, Ca’ Foscari di Venezia, Università di Modena e Reggio Emilia, Libera Università di Bolzano, Università di Pavia, Università Politecnica delle Marche e Università di Napoli Federico II.

“Attraverso lavoro, dedizione e tanto impegno abbiamo raggiunto questo incredibile risultato”. Queste le prime dichiarazioni a caldo del team dopo la proclamazione. “In questi mesi, il consiglio migliore che abbiamo ricevuto è stato “divertitevi” da parte della nostra professoressa Laura Grassi. In effetti, sempre con il sorriso abbiamo affrontato questa sfida e siamo arrivati alla vittoria che ci ha reso estremamente fieri e felici”.

Questo è un riconoscimento che ci rende molto orgogliosi. La competizione organizzata da CFA Institute è un ottimo modo per avvicinare gli studenti a un’esperienza lavorativa sfidante, in un contesto avvincente dove determinazione, passione e divertimento sono stati la chiave di un successo più che meritato per i nostri ragazzi”. Ha dichiarato Marco Giorgino, Professore Ordinario di finanza e di risk management della School of Management del Politecnico di Milano. “Ancora una volta il Politecnico di Milano si aggiudica, a livello nazionale, la CFA Research Challenge a conferma di come sia elevato il livello di preparazione che è possibile raggiungere, su temi di finanza aziendale e di finanza dei mercati, studiando Ingegneria Gestionale al Politecnico di Milano”.

Il team proseguirà direttamente per la finale regionale EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa), che si terrà il prossimo 10 e 11 aprile 2019 a Zurigo. La finale mondiale, invece, si disputerà il 25 aprile 2019 a New York, mettendo a confronto i vincitori di EMEA, America e Asia Pacifico.