Intelligenza artificiale, scelte umane

“Non esistono cattivi studenti, solo cattivi maestri”. Massima forse non sempre vera, ma perfetta per capire come funziona quello che per il grande pubblico è ancora un oggetto misterioso e (per alcuni) un po’ inquietante: l’Intelligenza Artificiale. «Temere l’IA e il machine learning di per sé sarebbe un errore – sostiene Fabio Moioli, direttore della Divisione Enterprise Services di Microsoft Italia –. Se le intelligenze artificiali a volte commettono degli errori clamorosi, ad esempio quando analizzano i curricula adottando criteri non inclusivi, la colpa non è loro, ma dei programmatori che si sono occupati del loro training e che probabilmente non hanno tenuto conto di certe variabili. Un errore umano, quindi, come succede in tanti altri settori fondamentali».

Non una IA razzista, dunque, né tantomeno dotata di un subconscio e di un volere proprio, ma uno strumento che invece va utilizzato tenendo conto del suo immenso potenziale. «Per questo è bene –spiega Moioli – interrogarsi sui possibili rischi connessi agli usi impropri dell’IA, come fa ad esempio Elon Musk. Pensiamo all’impatto che hanno avuto sul mondo la fissione atomica o la polvere da sparo: ci sono aspetti cui dobbiamo prestare la massima attenzione, come la privacy, la trasparenza, la sicurezza, l’inclusività».

Le aziende sanno bene che la maggior parte delle persone, quando pensa all’IA, spesso si basa su narrazioni fantasiose, quasi “apocalittiche”. Anche per combattere questa tendenza, sono molte le imprese direttamente coinvolte nel settore dell’IA, Microsoft in testa, «ad aver dato vita al proprio interno a veri e propri comitati etici, slegati da qualsiasi valutazione di profitto o di marketing, che analizzano criticamente e in molti casi bocciano dei progetti considerati a rischio. Un tema che interessa molto anche le aziende nostre clienti», racconta ancora Moioli.

E proprio le aziende sono chiamate a confrontarsi in prima persona con le potenzialità offerte dall’IA: «Si tratta di una tecnologia pervasiva, che definirei general purpose, alla pari dell’elettricità –spiega Moioli –. Si può usare in qualsiasi processo: nell’interazione con i clienti, nella personalizzazione dei servizi, nella trasformazione dei prodotti. Ma può rivoluzionare anche le strategie produttive, aiutando le persone a lavorare meglio. Vantaggi che valgono per l’operaio così come per l’ingegnere».

Vantaggi, soprattutto, che grazie ai nuovi sviluppi possono essere sfruttati anche da piccole e medie imprese. Solitamente queste ultime non possono permettersi una squadra di data scientist, né hanno a disposizione le immense quantità di informazioni come le aziende più grandi. La situazione sta però mutando rapidamente: «Il trend in maggiore crescita è quello delle IA capaci di imparare di più, ma usando meno dati. Inoltre, sono sempre più diffuse librerie di cognitive services preconfigurati, servizi pronti all’uso basati sull’IA (per fare alcuni esempi: traduzioni automatiche, riconoscimento facciale, chatbot, ndr) che sono altamente personalizzabili in base alle esigenze di ogni singolo imprenditore. L’altro grande vantaggio è che in questo caso non servono dei veri e propri esperti di data science che programmino tutto da zero, ma sono sufficienti professionalità più diffuse e meno specializzate, come ad esempio gli sviluppatori software».

I tecnici, quindi, servono, non c’è dubbio. Ma Moioli offre un suggerimento anche a chi lavora o lavorerà in funzioni aziendali in apparenza non coinvolte in questo processo di cambiamento: «Che si occupi di marketing, risorse umane o altro, un manager dovrà sempre conoscere le potenzialità offerte dall’IA. Deve sapere che determinati strumenti esistono, e deve sapere che possono migliorare il suo lavoro».

Una consapevolezza diffusa che dunque non può prescindere dalla formazione e dall’educazione, a tutti i livelli. «In Italia ci sono diverse eccellenze di settore. La stessa FLEXA, piattaforma digitale di personalised e continuous learning della School of Management del Politecnico di Milano, è stata premiata da Microsoft come uno dei progetti più innovativi al mondo. Ora, però, bisogna lavorare molto anche nelle scuole primarie e secondarie: in futuro avremo bisogno di figure che parlino con sempre maggiore dimestichezza il linguaggio dell’IA. Questa è la vera priorità».

Programmi MBA: ecco le novità delle nuove edizioni

Il 2019 si preannuncia ricco di novità per quanto riguarda i programmi MBA ed Executive MBA. L’intera offerta è stata infatti rivoluzionata seguendo cinque filoni principali: innovazione, personalizzazione, digitalizzazione, soft skills ed ecosistema.

Con l’obiettivo di dare maggiore rilevanza a temi come l’innovazione e la trasformazione digitale, il curriculum dei programmi MBA è stato totalmente ridisegnato, aggiungendo nuovi corsi come Design Thinking, Corporate Entrepreneurship, Lean Start-Up ed Entrepreneurial Finance.
L’offerta si amplia anche per quanto riguarda i corsi Elective, con una crescita del 30% del numero di corsi offerti rispetto alle passate edizioni. Questo rende il percorso ancora più personalizzabile e adattabile alle aspirazioni ed esigenze professionali dei nostri allievi.
Ottime notizie anche per chi è interessato alla Digital Transformation: è infatti possibile ottenere questa specializzazione partecipando allo study tour in Silicon Valley, a un Management Boot Camp o ad una Major di Elective a scelta sul tema.

Tuttavia, non è solo la varietà di contenuti a essere innovativa, ma anche la modalità di fruizione. Dal lancio del primo Flex EMBA, il digital learning è diventato sempre più presente nell’offerta MIP. Le nuove edizioni dell’MBA e dell’Executive MBA si appoggiano su una piattaforma di digital learning rinnovata e rivoluzionaria.

Inoltre, gli allievi hanno accesso – anche dopo la conclusione del percorso –  a una nuova libreria di clip multimediali con 100 ore di lezione e 850 video pillole prodotte dalla faculty MIP.
Un ottimo strumento da sfruttare durante il Master e negli anni successivi per riprendere i concetti chiave o per rivedere alcune nozioni alla luce delle nuove esperienze lavorative.
Inoltre, per continuare a crescere anche dopo l’MBA, gli allievi e Alumni delle nuove edizioni hanno la possibilità di accedere a FLEXA, la nuova piattaforma di continuous learning basata sull’Intelligenza Artificiale sviluppata in partnership con Microsoft.

In un’offerta ampia come questa, non poteva mancare l’attenzione alle soft skill. Infatti, con la nuova edizione, viene dato più spazio al Leadership Program, che, attraverso la testimonianza di manager di grandi aziende come Moleskine e Groupe Edmond de Rothschild, porta in aula diversi esempi di leadership dalla prospettiva di leader, top manager ed imprenditori.

Infine, oltre al programma, è importante anche il contesto in cui ci si trova. Il MIP, infatti, vanta un duplice legame da una parte con il Politecnico di Milano e dall’altro con il tessuto imprenditoriale costituito innanzitutto dai soci del MIP. Questo permette di integrare il know-how accademico e tutto il sistema di laboratori, centri di ricerca e Osservatori dell’Ateneo, al forte coinvolgimento delle aziende, che intervengono estensivamente nel programma attraverso testimonianze in aula o accogliendo direttamente gli allievi nelle proprie sedi.

 

Pronti per il Global Talent Recruiting Day?

Il Global Talent Recruiting Day è alle porte e presto gli studenti dei Master Internazionali avranno la possibilità di incontrare 50 Aziende e circa 130 tra Manager e Recruiter.
Una grande opportunità per iniziare a gettare le basi del loro futuro percorso professionale. Tuttavia rimane un ultimo scoglio da superare: il colloquio.

Proprio come nelle partite – dopo tutto saremo allo Stadio di San Siro quel giorno – anche nei colloqui di selezione è l’allenamento a fare la differenza.
Un allenamento che è iniziato vari mesi fa grazie al supporto del Career Development Center, che ha organizzato attività, workshop, incontri e lezioni volti a preparare al meglio i candidati.

Scrivere un CV convincente e una cover letter efficace sono dei passi imprescindibili, ma non sono che l’inizio! Infatti, grazie al workshop “Job Interview Preparation”, gli studenti dei Master Internazionali hanno imparato a costruire il proprio storytelling, mentre durante l’Assessment Center Simulation, hanno potuto allenarsi alla soluzione dei business case.

Tuttavia non basta conoscere bene sé stessi e le proprie potenzialità per colpire i recruiter: è importante anche essere ben informati sull’azienda, sulla mission, sugli obiettivi e sulle soft skill richieste ai candidati.

Qui entra in campo il forte legame che il MIP ha da sempre con le imprese: HR e manager vengono spesso in aula per presentare i valori aziendali e illustrare il tipo di profilo ricercato agli studenti, anche grazie al supporto del team Partner Care e Company Engagement, che dialoga con le aziende mostrando loro le opportunità di collaborazione in termini di Talent Acquisition, Employer Branding e Networking.

 

 

Una nuova stagione di politiche dell’innovazione più inclusive e basate sulle imprese sociali per combattere le disuguaglianze

Incoraggianti i dati 2018 del Centro di ricerca Tiresia della School of Management  del Politecnico di Milano. Di un’imprenditoria attenta ai bisogni del territorio si è discusso a un convegno con Joan Rosés della London School of Economics, docenti, amministratori locali ed esponenti del Terzo Settore

Imprese sociali attente ai bisogni del territorio e alla necessità di impattare positivamente sul benessere delle comunità di riferimento, ma anche economicamente sostenibili, strutturate managerialmente e capaci di usare le migliori tecnologie. È questa, secondo il Centro di ricerca sull’innovazione e l’impatto sociale Tiresia della School of Management del Politecnico di Milano, una delle risposte possibili alle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza che stanno affliggendo anche il nostro Paese, portando alla povertà e allo spopolamento vaste aree marginali persino del Nord, zone interne che pagano la loro lontananza, o i difficili collegamenti, con i centri maggiori dove invece si concentrano ricchezza, benessere e competenze.

Oasi urbane di prosperità in una provincia sempre più povera, create dalla nuova economia della conoscenza. Un fenomeno diffuso in Europa, negli Stati Uniti, in Sud America che purtroppo non ha risparmiato l’Italia, dove invece il boom economico aveva visto il fiorire dei distretti industriali. “Ma invertire la rotta si può – commenta Mario Calderini, docente di Social Innovation e direttore di Tiresia – e i dati che abbiamo raccolto nel 2018 (nei prossimi mesi uscirà il nuovo report) lo dimostrano. La disponibilità di capitali per lo sviluppo di imprese a impatto sociale è in costante aumento: parliamo di capitali pronti a essere investiti per oltre 210 milioni di euro, ma se si guarda a tutti i finanziamenti riconducibili in qualche modo a un modello di finanza sostenibile raggiungiamo i 6,5 miliardi”.

E ancora: nonostante le imprese a impatto sociale mostrino in genere un’intensità tecnologica bassa (76%), quasi il 10% di esse può vantarne una medio-alta, cioè utilizza tecnologie innovative per risolvere sfide e problemi sociali in un settore tradizionalmente ‘labour intensive’. “In Italia – spiega Calderini – le start-up innovative a vocazione sociale, le cosiddette Siav, e le società benefit fanno un uso maggiore delle nuove tecnologie rispetto al resto d’Europa: circa due quinti delle Siav intervistate e quasi un terzo delle benefit rientrano infatti nelle organizzazioni a intensità tecnologica alta o media”.

Delle origini delle disuguaglianze e del ruolo di una nuova generazione di imprese sociali si è parlato il 1 aprile alla School of Management del Politecnico di Milano durante un incontro con il professor Joan. R. Rosés, docente alla London School of Economics and Political Science e autore con  Nikolaus Wolf del volume “The economic development of Europe’s regions. A quantitative history since 1900”. Un’occasione per economisti, docenti, amministratori locali ed esponenti del Terzo Settore di discutere con Rosés non solo delle tesi contenute nel libro, ma anche dei nuovi dati che illustrerà, frutto dell’algoritmo messo a punto con Wolf per definire dove si sta accumulando la ricchezza.

L’introduzione è affidata ad Alessandro Perego, Direttore Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano. Segue una tavola rotonda moderata da Francesco Antonioli, Contributor de la Repubblica, a cui partecipano: Raffaella Cagliano, Politecnico di Milano, School of Management; Claudia Fiaschi, Portavoce del Forum del Terzo Settore; Stefano Granata, Presidente Gruppo cooperativo CGM; Lorenzo Sacconi, Forum Disuguaglianze Diversità e Università degli Studi di Milano; Cristina Tajani, Assessore a Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane, Comune di Milano.

Mappando la popolazione delle imprese sociali italiane, la loro densità non si differenzia molto tra grandi centri (1,55 ogni 100.000 abitanti) e aree interne (1,36 ogni 100.000 abitanti), così come non varia il livello di istruzione degli imprenditori, che nel 55% dei casi (appena un punto in più nelle città)  è in possesso di una laurea di primo o di secondo livello. Un dato che insieme a quelli dello sviluppo tecnologico e della disponibilità di capitali restituisce un quadro incoraggiante di strumenti e competenze diffuse in grado di fare la differenza. “Sono organizzazioni che possono intervenire sul territorio in maniera capillare – conclude Mario Calderini – e farsi promotrici di un nuovo sviluppo industriale maggiormente inclusivo, non dimentico dei bisogni sociali e territoriali e capace di arginare le conseguenze delle disuguaglianze”.

“Non solo le imprese sociali possono avere un ruolo importante in questa direzione – aggiunge Raffaella Cagliano,  professore di People management & organization alla School of Management del Politecnico di Milano -. Infatti un numero crescente di imprese for profit sta abbracciando un approccio strategico alla responsabilità sociale di impresa, integrando l’impatto sociale tra le dimensioni chiave della gestione del core business. E questo avviene molto spesso attraverso partnership con imprese sociali o organizzazioni no profit, instaurando circoli virtuosi di crescita e sostenibilità”.

 

 

 

 

 

Master MIDIS: l’incontro di due edizioni

C’è chi festeggia la conclusione del proprio percorso e chi invece inizia proprio in quel giorno una nuova avventura. Gli allievi della I edizione del “Master in Management dell’innovazione digitale nelle istituzioni scolastiche” incontrano quelli della nuova edizione del programma in occasione della tavola rotonda “L’innovazione digitale nella scuola: sfide e opportunità per valorizzare le competenze e sviluppare una scuola innovativa”.

In cattedra per delineare la situazione della scuola e gli scenari relativi all’innovazione digitale nel settore dell’istruzione, insieme a Tommaso Agasisti e Nicoletta Di Blas, Direttori del Master MIDIS e docenti del Politecnico di Milano, anche Licia Cianfriglia, Dirigente ANP, Gianna Barbieri, Direzione generale per i contratti, gli acquisti e per i sistemi informativi e la statistica, MIUR  e  l’Alumnus della I edizione Guido Boschini, IC “Alto Verbano”.

Congratulazioni ai partecipanti della I edizione che hanno ricevuto il diploma a valle dell’evento e un caloroso benvenuto ai nuovi allievi.

 

 

Manufacturing 4.0. Il futuro è adesso

Se c’è un errore di percezione più o meno diffuso sull’Industria 4.0, è quello di considerarla come una rivoluzione imminente, ma ancora di là da venire. Niente di più sbagliato: l’Industria 4.0 è adesso. Le trasformazioni sono già in atto, e se da una parte sono molte le aziende che stanno adottando le tecnologie più innovative e ripensando i confini e le forme del proprio business, c’è chi ancora resiste al cambiamento.

“Non si può non intraprendere questa trasformazione”, ha spiegato il professor Sergio Terzi, Direttore della Management Academy del MIP e Co-direttore dell’Osservatorio di Industry 4.0, introducendo la tavola rotonda Industry 4.0: How companies are evolving, tenutasi presso il MIP Politecnico di Milano nel corso dell’MBA Day del 9 marzo.

L’evento, durante il quale sono stati approfonditi i diversi formati MBA del MIP (International Full Time MBA, International Part Time MBA, Distance Learning MBA), ha visto gli interventi di Antonio Bosio, Head of Product and Solutions presso Samsung, e Ilker Ahmet Kalali, Head of Industrial Engineering and Smart Manufacturing presso Pirelli Tyre.

Entrambi hanno spiegato come queste due aziende di primaria importanza stanno rimodellando le proprie strategie, e quali nuove opportunità e sfide offre l’Industria 4.0. Samsung, ad esempio, sta puntando molto sul B2B2C (business to business to consumer). Siamo abituati a pensare alla multinazionale coreana come un’azienda che produce smartphone ed elettrodomestici per un mercato consumer. “In realtà collaboriamo molto con le aziende”, ha spiegato Bosio. “Sviluppiamo tecnologie che nascono sì per l’ambito domestico, ma che poi possono essere adottate in business molto diversi tra loro. È la consumerization. Pensiamo, ad esempio, ai wearable come gli smartwatch, che oggi percepiamo come dei gadget, ma che in realtà hanno già delle applicazioni importanti nel settore industriale, semplificando i processi produttivi e contribuendo all’incremento della produttività”.

Spazio anche alla realtà aumentata: “Stiamo sperimentando una tecnologia che permette ai clienti di sfogliare cataloghi virtualmente infiniti e di provare diversi modelli senza indossarli fisicamente”.

Una tecnologia che, però, è utile anche negli impianti produttivi, come ha spiegato Kalali: “La realtà aumentata offre una vera e propria guida in tempo reale agli operai, mostrando loro in diretta gli output dei vari passaggi da compiere”.

L’idea di personalizzazione, altro pilastro dell’Industria 4.0, è poi cruciale anche per Pirelli Tyre: “Oggi i clienti esigono sempre più dei prodotti concepiti sulle loro specifiche esigenze, estremamente personalizzati. Questo è ancora più vero, anche per Pirelli, quando ci si rivolge ai segmenti di mercato di fascia alta. L’azienda deve dimostrarsi predittiva prima ancora che reattiva, e per farlo deve puntare su due aspetti: la connettività e l’analisi dei dati. Due strumenti che, insieme a un approccio scientifico di analisi comportamentale, possono portare a grandi risultati. E, soprattutto, alla creazione di valore aggiunto”.

La sfida è grande, anche perché, come spiega sempre Kalali, non si può prescindere dalla sostenibilità, di cui le aziende devono essere le prime promotrici.

L’Industria 4.0, per conciliare tutti questi aspetti, deve “capire, innovare e ottenere risultati”, come sintetizza Bosio. L’ingegneria da sola non basta più, ma deve essere accompagnata dalla creatività e dalla grinta. O, per usare le parole di Kalali, “ha sempre più bisogno di cervelli, e non solo di muscoli”.

 

Bip e MIP presentano la XIV edizione del Master in Energy Management

“Il Piano Energia Clima: la transizione energetica al 2030”

  • 75% di aumento complessivo della potenza da fonti rinnovabili installata
  • Mercato eolico: potenza installata raddoppiata rispetto al 2017
  • Mercato fotovoltaico: si punta a raggiungere 2,5 volte l’installato attuale

 

Bip – Business Integration Partners, multinazionale di consulenza, e MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business, hanno presentato la XIV edizione del Master in Energy Management (MEM), iniziativa di alta formazione che si propone di avviare la preparazione di futuri manager nel settore dei servizi di pubblica utilità (energia, gas, etc.) e di consentire alle aziende sponsor dell’iniziativa di inserire nel proprio organico professionalità con competenze e potenzialità di particolare interesse.

Carlo Capè, co-fondatore e Amministratore Delegato di Bip, nonché membro del CdA del MIP, e Vittorio Chiesa, Direttore del MEM, hanno presentato i contenuti e gli obiettivi del Master nel corso della Tavola Rotonda “Il Piano Energia Clima: la transizione energetica al 2030”, un’occasione di confronto sul futuro del settore tra manager e studenti sul tema delle strategie dell’Italia al 2030 in merito a efficienza energetica, autoconsumo e generazione distribuita, sicurezza energetica ed elettrificazione dei consumi.

Tema infatti della Tavola Rotonda è il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima pubblicato dal MISE a Dicembre 2018, che determina le strategie dell’Italia per il periodo 2021‐2030 in merito a decarbonizzazione, efficienza energetica, autoconsumo e generazione distribuita, sicurezza energetica ed elettrificazione dei consumi.

L’analisi presentata, che ha evidenziato gli obiettivi di potenza installata per le diverse fonti rinnovabili al 2030, ha mostrato chiaramente come si punti fortemente su eolico – quasi il doppio rispetto al 2017 – e su fotovoltaico – 2,5 volte l’installato attuale -, con un aumento complessivo della potenza da fonti rinnovabili installata pari al 75%.

Per quanto riguarda la generazione elettrica si prevede che un aumento del 65% rispetto ad oggi, arrivando a coprire oltre il 55% dei consumi nazionali.

Il MEM ha negli anni formato oltre 250 studenti, con un placement vicino al 100%. La quasi totalità degli allievi è stata inoltre assunta dall’azienda in cui ha svolto il periodo di stage. Ad approfondire inoltre il tema degli sviluppi occupazionali del settore, sono intervenuti alcuni dei principali player del settore energetico, quali Stefania Battaglino, Head of Employer Branding and Young Generation di Edison e Alessandro Camilleri, Direttore Sviluppo, Formazione e Organizzazione del Gruppo Hera.

Il Master, in partenza il prossimo mese di ottobre, è un percorso di 12 mesi, full time, e prevede 6 mesi d’aula e fino a 6 mesi di stage presso una delle aziende partner o presso Bip – Business Integration Partners per acquisire esperienza all’interno delle società del settore, dimostrando allo stesso tempo il proprio talento e capacità.

“Il grande successo finora raggiunto dal MEM – commenta Carlo Capè, Amministratore Delegato di Bip – attraverso la formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro di ormai centinaia di giovani professionisti, è la conferma della validità della scelta di collaborare con un partner autorevole e strategico come il MIP.
Siamo riusciti nell’intento di innescare una rivoluzione nel settore che ci rende orgogliosi e ci stimola a continuare a lavorare in questa direzione, con l’obiettivo di consolidare un settore – quello energetico – che necessita di competenze valide e complete.”

Nel 2018 si è aggiudicato il primo posto nella classifica stilata da EdUniversal Best Masters Ranking nella nuova categoria “Energy and natural resources” nella regione Western Europe. – commenta Vittorio Chiesa, Direttore del MEM.
La nuova edizione del MEM è stata profondamente innovata con l’inserimento di nuovi corsi e contenuti per fornire competenze sulla digital transformation, le ultime tecnologie e i trend che stanno cambiando anche il settore Energy.
Gli studenti acquisiranno non solo competenze manageriali volte a gestire il cambiamento, ma sapranno cogliere criticità e opportunità dal mercato di riferimento conoscendone le ultime tendenze in ambito Blockchain, Big Data, Intelligenza Artificiale, Smart Houses, e-mobility.”

 

Il lusso ai tempi di Instagram

C’erano una volta le riviste patinate. Oggi c’è Instagram. E i brand del lusso ne approfittano. Con le dovute cautele, però, perché se da una parte l’opportunità di rivolgersi direttamente ai potenziali clienti è immensa, dall’altra stiamo parlando di un mondo le cui regole cambiano in continuazione.

Trovare un equilibrio nel coinvolgimento della community e nella conservazione del proprio status non è affatto semplice. «Il lusso ha sempre lavorato su un’idea di distribuzione esclusiva e su una comunicazione conseguente», spiega il professor Fabrizio Maria Pini, Direttore dell’International Master in Luxury Management della School of Management del Politecnico di Milano. «I media digitali, invece, all’inizio venivano percepiti come qualcosa di indefinito e massificato. In un contesto in cui tutti potevano creare tutto, la messa in scena di un prodotto di lusso, che si distingue per il suo alto contenuto simbolico e narrativo, sembrava perdere la sua fascinazione. C’è una bella differenza tra una vetrina digitale e una boutique».

Il panorama social è così variegato e cangiante che diventa impossibile identificare un modello strategico univoco: «Le aziende del lusso possono adottare strategie estremamente innovative, con le quali si inseriscono in tutto e per tutto nel flusso comunicativo dei social, interagendo direttamente con gli utenti e potenziali clienti, o al contrario rimanere ancorati a modelli che, esagerando, sono ancora molto vicini alla pubblicazione delle campagne sulle riviste».

Di certo, però, negli anni i marchi di lusso non sono rimasti a guardare. «Sono partiti in ritardo, ma ora stanno bruciando le tappe» racconta Pini. E i numeri lo confermano. Instagram in particolare si dimostra il social network più appetibile per i brand fashion. Nel 2017 uno studio condotto da L2, azienda specializzata nelle metriche sulle performance digitali, rilevava una crescita del 53% nel numero di followers. Complici anche i fashion blogger: il professor Pini li definisce dei «traduttori del lusso, che all’inizio hanno saputo approfittare di vere e proprie praterie social. Mentre dapprima venivano percepiti quasi come delle groupies entusiaste, oggi sono forse l’incarnazione concreta del cambiamento dei rapporti di forza subentrati nel mondo del fashion. A discapito, ad esempio, di attori più istituzionali e percepiti come maggiormente qualificati, come i giornalisti».

«Sono proprio gli influencer, ora, ad agire come filtro e anello di collegamento tra la marca e i suoi potenziali consumatori» prosegue Pini. «Mentre in precedenza erano i clienti a inseguire il brand, ora è quest’ultimo che deve cercare di inserirsi nelle conversazioni, perché farsi trovare è diventato più problematico».

L’attuale fase di transizione lascia spazio anche alla sperimentazione di nuove strategie produttive, magari passando per i nuovi strumenti di profilazione degli utenti. Anche in questo caso il leitmotiv non cambia: «Alcune aziende continuano a pensare collezioni e linee in maniera tradizionale, brand più giovani invece partono proprio dal coinvolgimento della comunità».

Osare, però, significa anche rischiare. Basta un passo falso per generare una crisi di reputazione, che è molto più difficile da gestire rispetto al passato: «Le regole della conversazione sono diverse da quelle della comunicazione, e le icone, di solito, comunicano, non conversano» riflette Fabrizio Maria Pini. «Inoltre le conversazioni social sono scandite da tempistiche rapidissime, mentre aziende grandi e strutturate sono per forza di cose più lente nel reagire. Per reperire le informazioni necessarie a una risposta, a volte è necessario coinvolgere diverse funzioni aziendali. Nel frattempo, però, sui social network le altre conversazioni e le altre storie prendono piede e diventano sovrastanti. Così si ha una lotta tra narrazioni e miti. A volte, però, non c’è altro da fare che chiedere scusa e ammettere le proprie colpe. Anche questa è una grande differenza rispetto al passato: in altri tempi i brand non prendevano in considerazione l’idea di dichiararsi in torto».

 

Amazon Innovation Award: a Milano la vittoria va agli studenti della School of Management

 

Robot che comunicano tra loro come se fossero un corpo solo per rendere più sicuro lo spostamento e il sollevamento di carichi pesanti tra gli scaffali e in magazzino: è il progetto che ha vinto l’Amazon Innovation Award nella sfida di Milano che ha visto protagonisti gli studenti di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano.

Giulia Merati, Giorgio Manenti, Sofia Lamperti e Filippo Pennati Belluschi hanno vinto la tappa milanese della competizione lanciata da Amazon per stimolare gli studenti universitari a formulare progetti innovativi mirati a ottimizzare la consegna dei prodotti acquistati online.
Giunta alla sua terza edizione, ha coinvolto il Politecnico di Milano, il primo ateneo a dar vita al contest tre anni fa, il Politecnico di Torino e l’Università di Roma Tor Vergata.

Complessivamente sono 200 gli studenti del Politecnico di Milano che hanno partecipato alla sfida, divisi in gruppi di 4-5 persone, e 43 i progetti presentati.

Incuriositi dal progetto abbiamo chiesto ai nostri studenti di raccontare la loro esperienza.

Come mai avete deciso di partecipare all’Amazon Innovation Award?

Il corso di Logistics tenuto dal Professor Perego e il Professor Mangiaracina al Politecnico di Milano ci ha dato l’opportunità di partecipare all’Amazon Innovation Award. La motivazione principale è stata la nostra volontà di metterci in gioco: siamo infatti un gruppo molto affiatato e amante delle sfide, ed è bastato un piccolo confronto iniziale per dare subito inizio ai lavori. Inoltre, essendo comunque studenti impegnati con molti altri corsi, siamo stati incoraggiati anche dalla possibilità di alzare il voto finale di qualche punto, così come dall’occasione di mettere in pratica quanto studiato sui libri.

Uniti da tutto ciò, abbiamo dunque deciso di partecipare insieme come team e sfruttare le conoscenze dei nostri diversi percorsi universitari, così da beneficiare di molteplici punti di vista.

Inizialmente le idee sono state molte, ma abbiamo deciso di sviluppare quella che ci sembrava essere la più fattibile sia in termini di costo che di tempi di implementazione, risultando infine anche la soluzione vincente.

Di preciso, in che cosa consiste il vostro progetto?

Il progetto si basa sulla realizzazione di un sistema di robotica distribuita applicato ai robot Kiva, già presenti nei fulfillment center di Amazon per il trasporto di scaffali.

Dato l’obiettivo di migliorare le attività più gravose e rischiose attualmente svolte dagli operatori, il progetto si focalizza sui flussi in entrata quindi le attività di scarico merci e stoccaggio, ma anche sulla fase di picking, ovvero di preparazione dell’ordine del cliente.
Il concetto di robotica distribuita rende possibile la comunicazione e lo scambio di informazioni tra robot che collaborano permettendo di trasportare anche pesanti unità di carico in maniera autonoma ed intelligente. Da un punto di vista tecnologico, ciò richiede l’installazione di microcontrollori che connettono via Wi-Fi i robot a una piattaforma centrale per la gestione dei flussi.
Tuttavia, l’estensione nell’uso dei Kiva richiede una riprogettazione in termini di layout del centro distributivo. Infatti, il secondo tipo di intervento consiste in un sistema parts-to-picker per la preparazione dell’ordine. Si tratta di un sistema in cui, durante l’attività di picking, sono i prodotti a muoversi verso l’operatore e non viceversa come avviene nella logistica tradizionale.

La movimentazione delle merci viene automatizzata, mentre l’operatore, incaricato di preparare il collo in uscita, lavora in un’area predisposta senza la necessità di effettuare spostamenti. In questo modo è possibile ridurre il numero di incidenti relativi alla movimentazione di transpallet e carrelli elevatori all’interno del magazzino.

Un’idea interessante! Secondo voi, cosa l’ha resa vincente?

La nostra soluzione applica tecnologie già esistenti combinandole in maniera innovativa. Partendo da una tecnologia già in possesso della stessa Amazon, ovvero i robot Kiva, abbiamo applicato una disciplina oggetto di grande interesse per la comunità tech ovvero la robotica distribuita. Le caratteristiche vincenti della nostra soluzione sono che richiede cambiamenti minimi nella struttura dei Kiva stessi e nel meccanismo di comunicazione dei Kiva, il quale avverrebbe sempre via WiFi basandosi sull’infrastruttura esistente.
Questa possibilità di cambiamento non invasiva unita ad un costo di investimento estremamente basso, meno di 20$ a Kiva rende possibile l’applicazione immediata della soluzione, su grossa scala e a costi contenuti.

Combinando basso costo e facile implementazione, con i numerosi benefici in termini di sicurezza, efficienza e riduzione dei costi operativi dei FC Amazon ha reso la nostra soluzione vincente. Minimo costo di realizzazione e tempo di implementazione uniti a massima scalabilità e altissimo rendimento sono le parole chiave di questo progetto.

Oltre alla vittoria, che cosa vi ha dato questa esperienza?

Da questa esperienza abbiamo imparato che per ottenere un successo non è necessario solamente l’impegno e il sudore, ma anche e soprattutto un sinergico lavoro di squadra che derivi dalla complicità fra i suoi componenti: un team vincente non è a nostro avviso quello che ha i componenti più geniali o l’idea più complessa, ma quello che riesce a superare le barriere interne e a trasmettere con efficacia un messaggio ai destinatari finali, in questo caso i nostri professori e i manager di Amazon. Pensiamo infatti di aver trasmesso la nostra passione e la nostra dedizione attraverso le poche pagine di questo progetto.

Inoltre, abbiamo anche toccato con mano cosa significhi lavorare per una realtà immensa come quella di Amazon: in un mondo dove milioni di idee vengono generate ogni giorno, e dove la competizione è alle stelle, l’unico modo per distinguersi è creare qualcosa di qualità ma anche semplice e chiaro, che sia sì innovativo ma anche facilmente implementabile nell’immediato.

Prima di salutarci, una domanda che guarda al futuro: quali sono i prossimi passi?

Il futuro, lo ammettiamo, ci spaventa ma non necessariamente in modo negativo. Come avvenuto con questo progetto, affronteremo ciò che ci aspetta come una sfida e daremo il massimo per concludere in modo eccellente i nostri studi. Successivamente tenteremo di inserirci in un mondo che cambia ogni giorno di più, sia tecnologicamente che culturalmente. Questo ci scoraggia e ci incuriosisce allo stesso tempo, perché significa che per andare avanti dovremmo affidarci esclusivamente alle nostre qualità. Siamo comunque tranquilli poiché abbiamo in tasca un titolo di studio molto richiesto e estremamente professionalizzante, che tuttavia richiede una buona dose di personalità e voglia di fare: nessuna laurea infatti potrà mai sostituire queste qualità fondamentali.