Metaverso: punto interrogativo o punto esclamativo?

Un tema sulla bocca di tutti, che divide il mondo in meta-ottimisti e meta-critici. Qualunque sia la risposta che il metaverso vuole fornire all’umanità, la discriminante per il suo successo sarà la domanda a cui risponde. E la sfida manageriale è epocale.

 

Lucio Lamberti, Professore di Marketing e Direttore Scientifico del Metaverse Marketing Lab, School of Management Politecnico di Milano

 

Il dibattito sul metaverso come fenomeno tecnologico, economico e sociale sta vivendo negli ultimi mesi un momento di fermento e dibattito. Da un lato, i fautori di una visione metaverso-centrica preconizzano un futuro in cui indosseremo per diverse ore al giorno visori per la realtà virtuale vivendo una sorta di esperienza parallela in uno più universi virtuali. Dall’altra, chi osserva i numeri che le piattaforme di metaverso come The Sandbox e Decentraland stanno muovendo (poche centinaia o migliaia di utenti unici ogni mese, dopo un periodo di enorme crescita anche dei costi per le land nei due anni precedenti) già prevede la terza bolla della realtà estesa dopo quella di Second Life e quella successiva all’annuncio del lancio dei Google Glass.

Probabilmente, come spesso capita in questo genere di dibattiti, entrambe le posizioni hanno elementi di verità ed elementi meno inattaccabili. E’ infatti vero che un’economia del metaverso (e una sua finanza) esiste, eccome: nel 2021 JPMorgan ha stimato un controvalore di 54 miliardi di dollari spesi in acquisti direct-to-avatar (skin, esperienze e simili) acquistate nelle piattaforme di gaming come Roblox o Fortnite da una popolazione di quasi mezzo miliardo di utenti regolari. Lo scorso anno non solo Facebook ha cambiato nome in Meta andando “all-in” rispetto al futuro del Metaverso, ma Microsoft ha avanzato una proposta di acquisto per Activision Blizzard pari a circa 69 miliardi di dollari, con l’intento dichiarato di rafforzare le skill di progettazione di esperienze digitali 3D in vista dello sviluppo di questo mercato, e in totale 80 miliardi sono stati investiti in realtà che si occupano di Web 3.0 e di metaverso.

Numerose imprese e gruppi industriali stanno acquisendo società che progettano videogame e assumendo programmatori 3D per sviluppare la propria capacità di offrire esperienze immersive ai propri clienti, ma anche ai propri futuri talenti (è infatti il mondo del recruiting e delle job interview uno di quelli che ha trovato nel web 3D un ambito di applicazione di maggior successo). D’altro canto, oltre ai già citati problemi di penetrazione delle piattaforme di seconda vita virtuale, si osserva una turbolenza tipica della speculazione finanziaria pura nel mondo degli NFT, del virtual real estate e delle criptovalute, e probabilmente si inizia a constatare che la produzione di contenuti per il web immersivo è attualmente molto impegnativa.   I parallelismi che qualcuno paventava tra lo sviluppo dei social network e quello del metaverso sono meno evidenti di quanto potesse sembrare: le piattaforme social hanno conosciuto lo sviluppo esponenziale e rapidissimo che abbiamo osservato grazie a un costo molto limitato di creazione del contenuto, che ha innestato un circolo virtuoso di produzione e presenza da parte degli utenti. Nel caso del metaverso, il costo di produzione di contenuto è (perlomeno al momento) molto più alto. I detrattori del metaverso, poi, tendono a sottolineare quanto gli abilitatori tecnologici alla base del presunto cambio di paradigma non siano di per sé nuovi (la realtà virtuale è un ambito consolidato da almeno 30 anni) e i precedenti tentativi di diffusione massiva di tecnologie 3D siano falliti (cinema e TV, in primis).

Insomma, le posizioni sono divergenti, l’hype è elevatissimo, e la confusione non è da meno, visto che la definizione stessa di metaverso, la sua differenza dal web 3.0, dalla realtà aumentata o dalla realtà mista (reale-virtuale) sono piuttosto fluide. Allora, per analizzare cosa potrà essere di questo interesse globale, vale la pena fare un passo indietro e condividere alcune riflessioni in merito al web 3D e alle esperienze digitali immersive applicate alla nostra vita.

Una visione sociologica della questione suggerirebbe di valutare se e in che misura esista un bisogno di queste applicazioni. E la risposta è che esistono degli ambiti che potrebbero ampiamente beneficiarne, come ad esempio il mondo dell’education, che negli anni pandemici ha visto una crescita esponenziale dell’online learning scoprendone il potenziale dirompente di abbattimento delle barriere di accesso, ma anche i limiti in termini esperienziali se limitato alla bidimensionalità dei sistemi di videoconference.  Oppure il mondo del turismo, che potrebbe far leva sull’immersività e i gemelli digitali delle città per favorire esperienze di anticipazione e di follow-up dell’esperienza di visita, estendendo il contatto con il visitatore. Oppure, in ambito B2B, la possibilità di sviluppare mondi virtuali che replichino fedelmente, anche grazie all’intelligenza artificiale, situazioni reali per simulare azioni (come ad esempio un’operazione chirurgica o un intervento di manutenzione particolarmente delicato) e valutarne gli effetti, o addirittura vederle replicate nella realtà da parte di robot o dispositivi connessi. O ancora, in ambito organizzativo o di R&D, la creazione di spazi di condivisione della conoscenza più user-friendly e “avvolgenti” in grado di massimizzare la creatività, la produttività o l’interattività tra i partecipanti.

Ma il fatto che questi bisogni esistano non è una condizione sufficiente, per quanto sia necessaria, perché effettivamente le soluzioni sviluppate possano avere reale applicazione. Affinché ciò accada è necessario che le esperienze vissute dagli individui in questi contesti siano in grado di portare a risultati migliori delle alternative fisiche o digitali bidimensionali, in termini di efficienza, efficacia, piacevolezza, sicurezza, ecc. Anche su questo fronte, le risposte sono in fieri, e se è vero che un’ampia letteratura evidenzia che l’immersività potrebbe favorire lo sviluppo di esperienze di flusso, ovvero esperienze in grado di massimizzare l’apprendimento a fronte di una percezione di assenza di sforzo, è altrettanto vero che tale potenziale effetto dipende fortemente dalle modalità di realizzazione e di proposizione delle esperienze stesse.

Per questo motivo, con riferimento alle applicazioni di marketing, la School of Management del Politecnico di Milano ha lanciato un’iniziativa chiamata Metaverse Marketing Lab che mira a studiare due elementi: da un lato, lo stato dell’arte dell’offerta di questo tipo di esperienze nelle attività di marketing a livello nazionale e internazionale, al fine di comprendere cosa effettivamente è proposto e che risultati sta ottenendo. Dall’altro, lo studio delle reazioni degli utenti a queste esperienze anche attraverso le competenze di applied neuroscience del Physiology, Emotion and Experience Lab (PhEEL), che analizza attraverso la misurazione oggettiva dei segnali biologici l’esperienza di fruizione degli individui.

In conclusione, pur nello sviluppo ancora embrionale del tema, è possibile mettere sul tavolo alcune considerazioni.

In primo luogo, vi è un ampio dibattito in merito al tema delle piattaforme e dei possibili metaversi, e mentre molte realtà si rifanno alle piattaforme centralizzate e decentralizzate per intercettare i pubblici che già le frequentano, molte altre sviluppano un proprio metaverso.

E’ perlomeno auspicabile che, a tendere, il tema dell’interoperabilità tra questi mondi – perlomeno a livello di abilitatori tecnologici e protocolli di comunicazione –assuma un ruolo centrale.

In secondo luogo, pur avendo affermato che esistono vari casi in cui esiste un potenziale bisogno, ciò non è sufficiente a identificare un profilo di utilità delle soluzioni già sviluppate; ciò significa che il successo e, ancor prima, la ragion stessa dell’esistenza di una soluzione sviluppata da un’organizzazione sul metaverso dipenda dal tipo e dalla rilevanza di problema che essa miri a risolvere. Molto spesso gli abilitatori tecnologici portano gli agenti economici a sviluppare soluzioni senza specificare il problema che risolvono, e questa rappresenta da sempre la principale causa di fallimento delle iniziative di innovazione.

Infine, focalizzandosi sulle applicazioni di marketing, si evidenzia come la persistenza della presenza di un brand su un metaverso, quale che esso sia, richiede una capacità ancora maggiore di quanto non avvenuto con il web 1.0 e il web 2.0 di creazione continua di contenuti. Non a caso, le realtà che stanno cavalcando l’onda del metaverso con consistenza e continuità, sono spesso società di creazione di contenuti ed entertainment con iniziative legate al lancio di nuovi film o serie. Le imprese sono strutturalmente preposte alla creazione di prodotti e servizi, e non alla creazione di contenuti e per questo motivo hanno demandato nel tempo questa attività a un sistema sempre più ampio di agenzie e terze parti.

Molto probabilmente, una delle grandi sfide del metaverso per le imprese riguarderà la capacità di sviluppo di processi di creazione di contenuti in house, e questa sarebbe a tutti gli effetti una rivoluzione nei modelli di business, modificando il sistema di relazione con il mercato, gli asset e le risorse chiave in house e il sistema dei partner-chiave per lo sviluppo della value proposition.

Come educare alle competenze future per un manifatturiero avanzato e sostenibile?

 

IoT, stampa 3D, Realtà Virtuale, Realtà Aumentata e robot collaborativi sono oggi presenti in molte realtà produttive e stanno trasformando rapidamente l’industria manifatturiera. Nonostante questo,  lavorare in fabbrica rimane intrinsecamente una questione di persone, le cui competenze devono evolvere di pari passo con le innovazioni tecnologiche introdotte.

 

Sergio Terzi, Professore di Industrial Technologies, School of Management Politecnico di Milano

 

Il comparto manifatturiero – la classica fabbrica – è un contesto in forte trasformazione. I mercati sono sempre più competitivi e complessi, chiedono tempi più stretti, più varietà, più innovazione. Molti consumatori sono diventati – finalmente – attenti anche a nuovi stili di consumo, più sostenibili e meno impattanti per l’ambiente e la società. E le fabbriche devono trovare il modo di soddisfare tali richieste. O meglio, i responsabili di fabbrica (le macchine da sole non fanno ancora nulla, per fortuna) devono trasformarle, creando ambienti e spazi di lavoro agili, efficienti, moderni, puliti, sostenibili, sicuri.

Inoltre, alle porte delle fabbriche preme – come dappertutto – la continua spinta dell’innovazione tecnologica, soprattutto quella digitale. Computer, tablet, smartphone sono oggi oggetti di uso comune, anche nei reparti di produzione, che devono trovare il modo di usarli in modi intelligenti ed efficaci, oltre che sicuri ed affidabili.

Insomma, le fabbriche devono cambiare. O meglio, le fabbriche stanno già cambiando. Non a caso da oltre una decina d’anni si parla – non solo tra addetti ai lavori, ma anche nei media e nella politica – ampiamente di nuova rivoluzione industriale (3,4 5…), di rinascita manifatturiera, di potenziamento degli investimenti industriali, ecc. E la rivoluzione, un passo alla volta, un progetto alla volta, un’azienda alla volta, sta effettivamente accadendo.

Anche vicino a noi, nella produttiva Lombardia, le fabbriche in fase di trasformazione sono molte. Una grande spinta all’ammodernamento è certamente stata data da una serie di incentivi pubblici (Piano Nazionale Industria 4.0, Impresa 4.0, Transizione 4.0 e il più recente PNRR), oltre che da una grande disponibilità di soluzioni tecnologiche. IoT, stampa 3D, Realtà Virtuale, Realtà Aumentata, robot collaborativi (che lavorano fianco a fianco con gli uomini, non al posto di) sono oggi presenti in molte realtà produttive a noi prossime, in cui i nostri laureati si inseriscono proficuamente. E parimenti sta accadendo anche più lontano, in tutti quei territori a vocazione industriale, nazionali ed internazionali. La fabbrica sta davvero cambiando, e pure in fretta!

La fabbrica però prima di essere fatta di macchine, robot e pezzi da produrre, è fatta da persone. Operatori, tecnici, ingegneri, responsabili di reparto, di linea, di impianto, ecc. Una fabbrica è tale proprio per questa sua organizzazione “industriale”, in cui le diverse competenze si uniscono efficacemente per produrre beni e servizi da portare al mercato. L’industria manifatturiera – da “manu facere”, “fatto con le mani” – è intrinsecamente una questione di persone, delle lore abilità e delle loro intelligenze. Non tutti nasciamo con tutte le competenze necessarie a muoverci in ambienti complessi. Anzi, la maggior parte di noi ne deve acquisire di esperienza e conoscenza per essere in grado di relazionarsi con organizzazioni sofisticate. Anche i nativi “digitali” non nascono con i chip inclusi, ma apprendono le tecnologie digitali dalla loro esperienza quotidiana. Insomma, le competenze si acquisiscono. Il contesto della fabbrica moderna richiede competenze che tradizionalmente non erano considerate rilevanti nella formazione tradizionale del tecnico ed ingegnere industriale (dalla capacità negoziale, alle tecnologie informatiche). Occorre quindi fornire queste competenze, sia alle nuove che alla “vecchie” generazioni. La moderna università tecnica – quale siamo noi – non può esimersi da questa richiesta e deve giocoforza divenire un contesto molto più “multidisciplinare” di quanto siamo stati abituati in passato.

La situazione attuale chiede competenze tecniche “fresche”, da manutenere costantemente (l’informatica, ma non solo, evolve velocemente). Chiede inoltre di affrontare spesso contesti multivariati, nei quali è opportuno disporre di una buona capacità di vedere le connessioni tra aspetti diversi (es. tecnologia, processi, business, bisogni, ecc.) e anche una certa predisposizione all’adattamento continuo. Richiede poi una certa pragmaticità e anche una certa attitudine a “sporcarsi le mani” (sperimentare, modellizzare, simulare, prototipare, programmare, ecc.). Per fornire queste competenze, i metodi e i mezzi educativi devono essi stessi cambiare.

Nella nostra Scuola abbiamo raccolto la sfida di fornire competenze nuove per un mondo nuovo già da un po’. Sono tanti gli esempi nei nostri corsi e nei nostri programmi, ma qui pensiamo sia interessante riportare l’esperienza della nostra Teaching Factory Industry 4.0, che dal 2017 è presente nella nostra Scuola con uno spazio fisico, di fronte al nostro Dipartimento di Ingegneria Gestionale, in cui abbiamo installato una piccola fabbrica digitale e connessa. Vi è una linea semi-automatizzata di assemblaggio, due robot collaborativi, due postazioni di lavoro indipendenti, un AGV, diversi dispositivi per il monitoraggio della produzione, un simulatore 3D completo (digital twin).

La Teaching Factory è stata pensata per fare formazione ed applicazione nello stesso spazio, oltre che per essere utilizzata per sperimentare nuovi modelli operativi (simulazione di impianto). È un ambiente popolato da studenti e ricercatori ed è usato anche nei corsi fondamentali di impianti di produzione ai primi anni del corso di laurea. Nel 2018 abbiamo intitolato la Teaching Factory al nostro compianto mentore, prof. Marco Garetti, che fu tra i fondatori del gruppo di ingegneria industriale del nostro Dipartimento e appassionato educatore.

Grazie alla Teaching Factory Industry 4.0 siamo in grado di aiutare i nostri allievi nell’apprendimento pragmatico delle tecnologie, in un contesto che simula in modo molto spinto la realtà delle imprese industriali moderne. L’esperienza maturata con la Teaching Factory Industry 4.0 è stata inoltre molto utile nel momento in cui l’ateneo ha realizzato il più ampio progetto del Made – Competence Center Industria 4.0, che si trova presso il Campus di Bovisa di Milano, non lontano dalla nostra Scuola.

Come Dipartimento, abbiamo fortemente contribuito alla realizzazione di questo più ampio progetto, che si sta rilevando utile mezzo per la divulgazione delle competenze richieste dalla nuova evoluzione industriale anche presso le imprese e non solo i nostri studenti.

Ranking Financial Times 2022 – Masters in Management

Il Master of Science in Management Engineering del Politecnico di Milano sale al 77esimo posto nel Ranking Masters in Management 2022 del Financial Times, migliorando di 8 posizioni rispetto al 2021.

 

Il Master of Science in Management Engineering, erogato dalla Scuola di Ingegneria Industriale e dell’informazione del Politecnico di Milano, ottiene un prestigioso riconoscimento dal Financial Times, confermando la propria presenza nel Ranking “Masters in Management 2022” dove migliora di 8 posizioni rispetto al 2021 e sale al 77esimo posto, nonostante il ranking abbia visto l’ingresso di 13 nuove Scuole che lo scorso anno non avevano partecipato.

A livello europeo, il programma si colloca tra i primi 15 tra quelli erogati da Università tecniche.
Tra i criteri che hanno consentito questo avanzamento ci sono il Salary increase, il Career progress – che considera le variazioni del livello di seniority e della dimensione dell’organizzazione in cui lavorano gli alumni – e la International course experience – che considera la partecipazione degli studenti a scambi e internships all’estero.

Questo risultato arriva a un anno dalla modifica della struttura del Master of Science, che oggi prevede un primo anno comune e un secondo anno articolato in quattordici diverse specializzazioni, denominate “Major”. Un’offerta didattica molto ricca che mira a fornire agli studenti e alle studentesse del Master of Science, competenze e strumenti per poter rivestire un ruolo di primo piano nella gestione di sfide economiche, industriali e sociali del Paese.

Il corso di laurea magistrale, erogato in lingua inglese, attualmente conta più di 2000 iscritti, di cui il 23% internazionali, e ogni anno vede circa 900 nuovi ingressi.
Il tasso di occupazione entro un anno dalla laurea è del 94% (fonte: indagine occupazionale Career Service Politecnico di Milano 2021) a testimonianza del grande apprezzamento da parte delle imprese per questa figura professionale con una trasversalità di competenze particolarmente ricercata.

 

Talents and the challenges for education: pubblicato il nuovo numero di SOMe Magazine

Il mondo della formazione sta evolvendo molto velocemente: cambiano le modalità di relazione tra docenti e studenti, le piattaforme per l’apprendimento, l’esperienza in aula e online, grazie anche alle innovazioni offerte dal digitale.

Di questo e di cosa possiamo aspettarci per il futuro parliamo nel nuovo numero di SOMe: dall’evoluzione della didattica nei corsi undergraduate e negli open programs, alla necessità di nuove competenze dei docenti, all’efficacia dell’insegnamento, le sfide del settore sono presentate da Marika Arena, Antonella Moretto, Tommaso Buganza, Mara Soncin e Tommaso Agasisti.

In “Stories” raccontiamo due progetti di ricerca volti rispettivamente al miglioramento delle condizioni di vita di soggetti non vedenti e al monitoraggio del benessere dei giovani durante lo sport, per terminare con una esperienza di networking internazionale tra giovani ricercatori europei.

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I numeri precedenti:

  • #8 “The challenge of pursuing impact in research”
  • #7 “From data science to data culture: the emergence of analytics-powered managers”
  • #6 “Innovation with a human touch”
  • #5 “Inclusion: shaping a better society for all”
  • #4 “Multidisciplinarity: a new discipline”
  • #3 “New connections in the post-covid era”
  • #2 “Being entrepreneurial in a high-tech world”
  • Special Issue Covid-19 – “Global transformation, ubiquitous responses”
  • # 1 “Sustainability – Beyond good deeds, a good deal?”

Gli studenti del Lab “Invest in Foreign Markets” tra i migliori nella competizione internazionale “X-Culture”

 

X Culture, la challenge a tema business internazionale, quest’anno ha visto la partecipazione di 6.188 studenti provenienti da 171 università e 53 paesi diversi, suddivisi in 1032 teams misti. Come in ogni edizione, agli studenti viene richiesto di collaborare a distanza per 8 settimane alla realizzazione di un vero e proprio progetto di internazionalizzazione per una delle quattro imprese italiane selezionate da Alibaba.com che hanno aderito a X-Culture.

Alla competizione hanno partecipato i 44 studenti del Lab “Invest in foreign markets” del corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale che sono stati distribuiti nei team internazionali lavorando a distanza con i colleghi delle università estere. Alla fine della competizione, 12 studenti del Politecnico di Milano  distribuiti in 3 gruppi hanno vinto il premio “Best Team”, conferito sia per le ottime valutazioni peer-to-peer da loro ricevute, sia per la qualità dei report finali da loro realizzati, che rappresentano dei veri e propri business plan a supporto dell’internazionalizzazione delle imprese coinvolte.

Oltre a questo, il Politecnico di Milano si è distinto anche per il premio “Best Instructor”, che è stato conferito al prof. Stefano Elia, supportato da Alessio Di Marco e Ludovico Benetel, per l’impegno e la professionalità con cui sono stati coordinati gli studenti nello svolgimento del loro progetto, consentendo loro di ottenere anche i premi per il “Best Team”.

Studenti premiati:

Gabriele Capobianco
Giuseppe Carrabino
Andrea Cigognini
Federico De Cosmo
Sofia Monica Di Vincenzo
Emma Maria Antonietta Rosa
Francesco Faugno
Alessandro Gastaldo
Simone Gianotti
Martina Mauri
Beatrice Raimondi
Mercedes Maria Ugarte Herrero

Per maggiori dettagli:

Premi, sui progetti e sugli studenti vincitori
Best educators

Train the trainers

Le tecnologie digitali stanno cambiando profondamente le dinamiche dell’insegnamento: è necessaria una riprogettazione dell’intera esperienza formativa che richiede ai formatori lo sviluppo di nuove competenze non solo digitali ma anche pedagogiche.

Tommaso Buganza, Professore di Leadership & Innovation, School of Management Politecnico di Milano

 

La pandemia ci ha resto tutti cintura nera di Teams, Zoom, Webex, ecc.
Ci ha catapultati in un mondo digitale e ci ha obbligati a sviluppare competenze digitali in tempi brevi e senza possibilità di sottrarci. In alcuni casi questo ha funzionato molto bene (ci dicono gli studenti) in altri casi meno.

Ora non siamo sicuri che la pandemia sia solo un ricordo del passato, ma possiamo essere almeno sicuri che non torneremo mai indietro per molti aspetti delle nostre vite, e la formazione è sicuramente uno di questi. Queste competenze digitali ci sono costate fatica e ora le terremo con noi.

Forse è arrivato un momento in cui abbiamo la maturità per cominciare a chiederci come è cambiato (o deve ancora cambiare?) il nostro set di competenze come formatori.

Possiamo partire da una considerazione semplice sul concetto di digitale: l’equazione

digitale = online a distanza

si è dimostrata falsa.

Infatti, dobbiamo distinguere la natura e le funzionalità dei molti strumenti che abbiamo imparato ad usare. Da un lato, come detto, Zoom, Teams, Webex, ecc, sono strumenti che ci permettono di interagire a distanza. Ma la pandemia ha portato anche strumenti per l’interazione che abilitano attività innovative e che possono essere fruiti tranquillamente anche in una situazione di aula fisica.

Pensiamo a software di instant polling come Socrative, Kahoot! o Poll Everywhere. Oggi possiamo allargare l’interazione anche a centinaia di studenti in pochi secondi. Avere il polso delle emozioni puntuali con tag cloud o di quanto abbiano capito un concetto con risposte multiple in tempo reale.

Ma possiamo anche fare di più; possiamo innescare dinamiche di interazione interne all’aula. Per esempio chiedendo di scrivere pareri e poi di votare quelli scritti da altri in una sorta di semplice ma rapido ed interessante brainstorming.

Poi esistono altri strumenti, come MIRO, Mural o Jamboard, che invece permettono di creare uno spazio condiviso per permettere a team di studenti di interagire in modo più profondo, agendo un artefatto virtuale in modo coordinato e contemporaneo, mantenendo traccia di ciò che è stato fatto anche nelle lezioni passate, se necessario, e guidandoli con template e passi di processo che una volta avrebbero richiesto carta, stampe, gestione logistica, perdita di informazioni, ecc.

Dobbiamo riconoscere però che tutti questi strumenti, e la nostra capacità di usarli, si incrociano con un cambio nel modo in cui la società interagisce con il concetto di apprendimento. Grosse piattaforme digitali, come YouTube o Instagram, hanno rivoluzionato il modo di interagire con la conoscenza. Lo hanno reso più rapido, frazionato, interattivo e a richiesta. Il micro-learning, lo spacchettamento della parte pratica in piccoli pezzi più facilmente digeribili, la multimodalità della comunicazione (slide, parlato, filmati etc.) sono esperienza di molti noi, sia come utenti che come formatori. Soprattutto la dinamicità dell’azione formativa si è modificata. Non possiamo più pensare di avere lunghi periodi di trasferimento frontale e poi lunghi periodi di applicazione. Il paradigma dello studio di caso da 20 pagine da leggere per poi discuterne non è tramontato (ancora) ma inizia a sembrare in alcuni casi lento e un po’ datato.

In questo scenario non è rilevante se la formazione avviene in presenza o online tramite una piattaforma di comunicazione, quello che dobbiamo fare è cambiare il flusso logico esperienziale delle nostre lezioni.

Ma quali sono le competenze che dobbiamo sviluppare perché ciò accada?

In che modo, per cambiare quello che facciamo in aula, dobbiamo cambiare ciò che facciamo prima di andare in aula?

Io credo che ci siano 3 cose fondamentali che dobbiamo apprendere sempre meglio.

La prima è concepire (e quindi progettare) una lezione come un servizio da erogare. Dobbiamo progettare non solo i contenuti (che sono e rimangono il punto centrale ovviamente) ma anche come saranno fruiti. Dove vogliamo mettere una interazione, dove vogliamo mettere un controllo, dove vogliamo mettere una attività di gruppo per rinforzare un concetto. Tutto questo richiede una progettazione, e non può essere gestito in modo estemporaneo una volta in aula. Progettare un lavoro di gruppo in 4 passi richiede di progettare una board di MIRO specifica, fare un brainstorming, richiede di preparare la slide interattiva, ecc. In moltissimi casi scopriremo che la risorsa scarsa sarà il tempo e dovremo scegliere cosa e come farlo per massimizzare l’efficacia formativa. Il contenuto è condizione necessaria ma non più sufficiente, dobbiamo immaginarci come dei progettisti di processi di formazione.

Ovviamente esiste un dark side di questo approccio ed è quello di mettere l’enfasi sul così detto infotainment e di perdere di vista la centralità del contenuto. L’esperienza formativa significativa ed appagante è un mezzo e non il fine. Dobbiamo però accettare che oggi non dedicare la giusta attenzione alla progettazione della fruizione rischia di ridurre drasticamente l’efficacia formativa.

La seconda cosa che dobbiamo imparare a fare sempre più e meglio è esplorare lo spazio digitale. Tutti gli strumenti che abbiamo nominato prima aggiungono continuamente funzionalità e dettagli. Ognuna di esse abilita nuove interazioni o attività. Non potremo mai utilizzarle se non le conosciamo, dobbiamo essere curiosi per avere nuove idee. Per esempio, quado Miro ha introdotto la possibilità di nascondere alcuni contenuti e mostrarli solo al momento opportuno sono nate idee di come strutturare processi complessi con più passaggi; o quando Poll Everywhere ha inserito la possibilità di votare le idee di altri si sono aperti spazi per brainstorming collettivi che prima sarebbero stati impossibili (o avrebbero richiesto troppo tempo).

Anche in questo caso esiste un possibile dark side, quello di innamorarsi dello strumento e di aggiungere attività per utilizzarlo e non per il loro reale impatto sul processo formativo. Dobbiamo ricordarci anche in questo caso che lo strumento è un mezzo e non un fine.

Infine, personalmente, ho aggiunto una attività che una volta non facevo. Nel progettare nuove lezioni con interazioni digitali di varia natura e durata e mischiando strumenti differenti ho dovuto iniziare ad aggiungere una fase di test. Una volta creavo le slide, pesavo come raccontarle e andavo in aula. Oggi testo tutti gli strumenti e le interazioni come se fossi un partecipante. Infatti, la nostra capacità di gestire la situazione sul momento con creatività è ridotta in modo drastico dall’utilizzo di sistemi ricchi ma rigidi. Se manca un link, se la pagina non si aggiorna, se non riesco a entrare in Mural, la gestione del problema è lunga e il tempo perso senza che accada nulla riduce drasticamente l’esperienza formativa rischiando di vanificare tutto il lavoro svolto.

Progettare l’esperienza formativa, esplorare costantemente le potenzialità degli spazi digitali e inserire una fase di test sono nuove competenze ed attività che dobbiamo aggiungere a ciò che già facciamo. Non vi è una sostituzione o l’eliminazione di vecchie attività. Sono semplici e pure aggiunte. Il nostro lavoro, come tutti i lavori, sta diventando più complicato e richiede livelli di specializzazione crescente. Personalmente non credo che questo sia stato innescato dalla pandemia. Questo cambiamento era già in atto, la pandemia ha agito come catalizzatore e lo ha solo reso più veloce dandoci minor tempo di reazione.

European Microfinance Research Award a un team della School of Management

Il premio per uno studio sull’impatto sociale positivo delle fintech.

 

Un team del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano ha vinto l’European Microfinance Research Award 2022 con il paper “FinTech for Good: unveiling social value creation in the fintech sector”. Il premio è stato assegnato dall’European Microfinance Network (EMN), organizzazione no-profit che promuove la microfinanza come strumento per combattere l’esclusione sociale e finanziaria in Europa attraverso l’indipendenza lavorativa e la creazione di microimprese.

Lo studio elaborato da Federico Bartolomucci, dottorando, Veronica Chiodo, docente di Social Entrepreneurship, e Andrea Petrolati, Junior Project Manager presso Fintech District, indaga il mondo FinTech, con l’obiettivo di capire se e come l’innovazione tecnologica contribuisca a generare impatto nel settore finanziario e quale ruolo giochi la tecnologia nel processo di creazione di valore sociale. I risultati mostrano che le FinTech, operando in mercati poco serviti e combinando la componente di innovazione tecnologica con l’intenzionalità di generare un impatto sociale positivo, sono in grado di generare valore sociale sia nelle economie più sviluppate che in quelle emergenti. I risultati chiamano dunque gli attori finanziari tradizionali, le istituzioni e gli attori dell’economia sociale a ripensare il loro rapporto con esse.

Giovani e ricerca: sempre più internazionali con la European Talent Academy

Intervista a Arianna Seghezzi, Assistant Professor, School of Management Politecnico di Milano

 

Arianna, sei appena rientrata da una esperienza di networking internazionale organizzata dalla European Talent Academy, puoi dirci qualcosa sul programma e su come sei stata coinvolta?

La European Talent Academy è un’iniziativa nata da una partnership tra Imperial College e TUM (Technical University of Munich), che a partire dall’anno accademico 2021-2022 ha coinvolto anche il Politecnico di Milano. L’obiettivo principale è quello di formare e creare occasioni di networking per giovani ricercatori delle tre università, accomunate da una forte vocazione tecnologica e dalla vicinanza al mondo dell’industria, per stimolare collaborazioni tra le parti. Il mio coinvolgimento è avvenuto su invito del “Talent Development”, un programma del Politecnico di Milano dedito a supportare la carriera di alcuni ricercatori del nostro ateneo, a cui ho aderito con piacere lo scorso anno.

E’ stato organizzato un evento a Bruxelles, dal tema “Artificial Intelligence as a key enabling technology to empower society: A European approach on excellence and trust to boost research”. Ci racconti come si è svolto?

L’evento di Bruxelles si è configurato come un workshop di due giorni, in occasione del quale ho avuto la possibilità, insieme ai miei colleghi, di partecipare a interventi e seminari di diversa natura. In particolare, distinguerei due principali tipologie di eventi, che hanno affiancato le molteplici occasioni di networking con i ricercatori degli altri atenei: incontri con esponenti della Commissione Europea e seminari tenuti da ricercatori ed esperti su diversi temi.

Da un lato, abbiamo avuto la possibilità di conoscere e confrontarci con due esponenti della Commissione Europea: l’Europarlamentare Patrizia Toia, Vicepresidente della Commissione per l’industria, la ricerca e l’energia (ITRE), e con Evangelia Markidou, Officer dell’unità Robotics & AI Excellence and Innovation della Commissione Europea. Con loro abbiamo discusso dei nostri temi di lavoro, e del ruolo che la Commissione Europea ha nel promuovere e sostenere la ricerca in questi ambiti.

A seguire, abbiamo partecipato a seminari formativi e informativi, tenuti da esperti operanti in diversi domini, tutti in qualche modo legati al tema dei progetti di ricerca internazionali nel settore dell’Artificial Intelligence. Alcuni seminari sono stati più “verticali” (volti ad approfondire aspetti legati all’intelligenza artificiale e innovazione digitale), altri più “orizzontali” (incentrati sulla corretta impostazione di richieste di partecipazione a bandi di progetti europei, indipendentemente dalle tematiche specifiche).

Qual è stato lo spirito di questa iniziativa di networking per “giovani ricercatori promettenti”?

Direi che le parole chiave con cui descriverei lo spirito di questa iniziativa sono due.

Primo, internazionalizzazione. Abbiamo avuto la possibilità di conoscere e confrontarci con colleghi che lavorano in due università non italiane, creando terreno fertile per potenziali future collaborazioni con ricercatori internazionali.

Secondo, multidisciplinarietà. Nonostante il fil rouge dell’Artificial Intelligence, gli ambiti di ricerca dei partecipanti erano molto diversi tra loro, attinenti ai potenziali ambiti di applicazione. Da ricercatori in ambito biomedico, a esperti in temi legali e di privacy, l’idea di fondo era provare a mettere a fattor comune background, esperienze e impostazioni diverse.

Ritengo che lavorare congiuntamente abbattendo le barriere geografiche e tematiche sia fondamentale in molti contesti, e che lo sia in modo particolare nel mondo della ricerca. Questa occasione mi ha permesso di vivere in prima persona questi elementi, di conoscere ricercatori dall’Imperial College e dalla TUM, che appartengono a diversi ambiti di ricerca, interessati a temi affini a quelli su cui lavoro io, e spero che questo ponga le basi per un percorso proficuo, efficace (e “promettente”!) verso la creazione di una rete di ricerca sempre più internazionale e multidisciplinare.

T.I.M.E. Association finanzia ricerca sulla transizione circolare dell’industria

Due progetti di ricerca del Politecnico di Milano hanno vinto un grant di 10.000 euro ciascuno nell’ambito dei progetti T.I.M.E. di cui uno coordinato dal Dipartimento di Ingegneria Gestionale della School of Management con la dottoressa Alessandra Neri come principal investigator.

“Il ruolo della digitalizzazione a supporto della transizione circolare dell’industria” è  il tema del progetto chesi propone di indagare la relazione tra l’adozione delle tecnologie digitali e l’implementazione di pratiche di economia circolare all’interno del settore industriale.  L’obiettivo è comprendere il ruolo di supporto offerto dalle tecnologie digitali, passando dalla valorizzazione e generazione di capacità dinamiche. Ciò verrà fatto conducendo un sondaggio internazionale che fornirà approfondimenti empirici.

KTH Royal Institute of Technology (Svezia) e Universidad Politecnica de Madrid (Spagna) sono partner del progetto e membri di T.I.M.E. Association. University of the West of England e Aston University (Regno Unito) partecipano al progetto come membri esterni.

L’Associazione T.I.M.E. (Top International Managers in Engineering), fondata nel 1989, è una rete di importanti università tecniche e scuole di ingegneria in Europa e in tutto il mondo, con una forte dimensione internazionale nell’insegnamento, nella ricerca e nelle relazioni industriali. L’associazione è attualmente composta da 57 membri di 25 paesi e il Politecnico di Milano è membro del Comitato Consultivo.

Oltre alle attività di doppia laurea, T.I.M.E. promuove una serie di altre iniziative, tra cui i progetti T.I.M.E., attraverso i quali l’associazione cofinanzia iniziative nuove o esistenti tra università associate, in cui T.I.M.E. può rappresentare un valore aggiunto.

Per saperne di più:
https://www.polimi.it/articoli/due-progetti-polimi-finanziati-da-time-association/

 

 

Inaugurati i nuovi spazi del Dipartimento di Ingegneria Gestionale

Dopo 9 mesi di lavori di ristrutturazione, l’edificio di via Lambruschini a Milano è pronto ad accogliere di nuovo la comunità della School of Management con spazi completamente rinnovati.
Al taglio del nastro, insieme al Direttore di Dipartimento prof. Alessandro Perego, hanno partecipato la prof.ssa Donatella Sciuto, Prorettrice Vicaria, il prof. Emilio Faroldi, Prorettore Delegato del Politecnico di Milano.

 

Sono stati inaugurati qualche giorno fa i nuovi spazi del Dipartimento di Ingegneria Gestionale nel Campus Bovisa del Politecnico di Milano.

Progettati sulla base di concetti d’uso innovativi, i nuovi ambienti sono caratterizzati da migliore illuminazione, risparmio energetico e un ambiente biofilico. In particolare, sono stati concepiti per stimolare lo scambio e la condivisione, grazie ad una maggiore disponibilità di aree comuni con diverse funzionalità e da una componente tecnologica fortemente integrata. Il tutto all’insegna di una grande flessibilità di utilizzo, volta tanto al benessere individuale quanto a favorire l’incontro.

Il Dipartimento di Ingegneria Gestionale si è trasferito nel campus Bovisa del Politecnico di Milano nel 2009, anno in cui l’ateneo ha messo a disposizione alcuni nuovi edifici realizzati a seguito della riqualificazione della zona dei gasometri, con lo scopo di “alleggerire” il campus storico di piazza Leonardo da Vinci in carenza di spazi dovuto all’incremento del numero degli studenti, nonché di personale docente e amministrativo.

Dopo più di 10 anni di residenza in Bovisa, i lavori di ristrutturazione presso il Dipartimento si sono resi necessari per adeguarsi non solo all’aumento del numero dei dipendenti, ma anche ad un modo di lavorare che negli ultimi anni è diventato più digitale, flessibile e collaborativo.

L’area di Bovisa, conosciuta per la presenza degli ex-gasometri, era stata recuperata e ampliata in seguito a un concorso internazionale, bandito nel 1998 dal Politecnico di Milano in collaborazione con gli enti locali (Comune e Regione).
Ora l’attesa è di vedere completata, dopo 30 anni, la riqualificazione dell’intera area con il progetto di cittadella universitaria il cui cantiere dovrebbe partire entro la fine del 2022: quarantamila metri quadrati che diventeranno spazi verdi, i due gasometri trasformati in un centro dell’innovazione che ospiterà aziende e duecento start up, e in un polo del benessere e dello sport di quattro piani aperto a tutta la città.

 

Foto gallery evento di inaugurazione

Foto di Matteo Bergamini, © Lab Immagine Design POLIMI (progettazione, produzione e gestione di prodotti comunicativi)
Dipartimento di DESIGN, Politecnico di Milano
labimmagine-design@polimi.it

Gli spazi rinnovati