Data-powered management: una sfida ambidestra

Dietro all’affermazione di necessità di un potenziamento della cultura dei dati in una impresa, risiede un bisogno profondo di consolidare, potenziare, far evolvere o modificare in modo consapevole il proprio modello di business o il modo di gestire l’impresa. Si tratta di un bisogno cogente e pervasivo, connesso alla constatazione di alcuni trend che modificano lo scenario competitivo.

 

Giuliano Noci, Professore di Strategy and Marketing e Prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano

 

E’ esperienza comune di chi interagisce con le imprese sentirsi dire “avremmo bisogno di potenziare la nostra cultura del dato”.

Il concetto di “cultura del dato” ha diverse sfumature: la presenza di competenze di analisi dei dati, la capacità di lettura e interpretazione delle analisi, la predisposizione di individui e gruppi di lavoro a poggiare le proprie decisioni su evidenze e dati piuttosto che su sensazioni e istinti, lo sforzo a raccogliere e condividere i dati giusti per supportare le decisioni proprie e altrui.

Evidentemente, la “cultura del dato” è l’insieme di queste dimensioni, e dietro all’affermazione di necessità di un potenziamento risiede un bisogno profondo di consolidare, potenziare, far evolvere o modificare in modo consapevole il proprio modello di business o il modo di gestire l’impresa. Si tratta di un bisogno cogente e pervasivo, connesso alla constatazione di alcuni trend che modificano lo scenario competitivo.

In primo luogo, le pressioni della concorrenza, in mercati sempre più saturi e al contempo sempre più interconnessi, forzano alla ricerca di modelli di business e innovazioni che abilitino funzionalità tanto utili quanto sofisticate. Ciò porta alla ricerca di un arricchimento del contenuto dell’offerta (anche) grazie al lavoro sui dati. A titolo d’esempio, se voglio differenziare radicalmente un elettrodomestico nel mercato occidentale, ragionevolmente dovrò renderlo connesso alla rete e utilizzare i dati che raccoglie per offrire servizi a valore aggiunto per il cliente (ad esempio, in un frigorifero, non solo segnalare anomalie per un intervento tecnico in tempo reale, ma essere in grado di verificare la presenza di un cartone di latte quasi vuoto, e magari, sulla base del tasso di suo utilizzo, stimare quando il latte finirà o con che frequenza suggerire di riacquistarlo). E’ peraltro evidente, che da questo tipo di innovazioni possono nascere evoluzioni del modello di business. Nel caso precedente, ad esempio, l’integrazione con sistemi di eCommerce per offrire refill tempestivi subscription-based.

In secondo luogo, la diversità nei mercati di destinazione sta chiedendo risposte sempre più differenziate a segmenti di mercato molto eterogenei per gusti, preferenze, abitudini di utilizzo del prodotto/servizio, comportamenti di utilizzo dei canali fisici e digitali per interagire con l’impres, implicando una capacità di risposta pressochè one-to-one da parte dell’impresa. Dalla marketing automation alla service automation, le imprese sono sempre più alla ricerca di modelli e algoritmi in grado di comprendere lo stato di salute della relazione con un cliente, la sua propensione a una nuova offerta o ad abbandonare l’impresa.

In terzo luogo, e, di fatto, conseguenza dei precedenti, il focus dell’azione manageriale è sempre più improntato sulla ricerca di precisione, puntualità, riduzione degli sprechi – tanto a livello produttivo quanto di marketing, vendita, customer service, ecc. Anche in questo caso, il dato e la capacità di leggerlo rappresentano leve fondamentali.

Quindi, al netto dell’efficacia comunicativa della locuzione “cultura del dato”, il tema che si pone è lo sviluppo della capacità di ibridare competenze analitiche avanzate con senso del business. Si tratta di una competenza nuova in impresa, e spesso di una competenza che difficilmente è riconducibile ad un profilo professionale, quanto piuttosto a un team. Infatti, spesso le imprese inseriscono figure di data scientist portatrici di grande competenza analitica e tecnica, ma non sempre hanno profili manageriali in grado di far da tramite tra i bisogni di business e le applicazioni tecnico-modellistiche e, di converso, di traduzione degli output analitici in piani di azione in grado di guidare il business.

La nostra Scuola ha recepito questa necessità nell’interazione con le imprese, e da questo ha fatto derivare un profondo potenziamento della propria offerta di corsi di machine learning, statistica applicata e corsi di analytics applicati a discipline manageriali (es. performance measurement, marketing, e anche public sector), con un Major del Master of Science a forte vocazione analitica.  Il notevole successo in termini di scelta di questi corsi da parte degli studenti testimonia una forte sensibilità dei nostri giovani allo sviluppo di una carriera e di una professionalità fortemente “data-powered”.

La sfida pedagogica, in questo contesto, è quella di compendiare una solida preparazione analitica e una altrettanto solida conoscenza degli impatti di business dei sistemi decisionali oggetto dell’analisi modellistica, con un approccio incentrato sulla contestualizzazione di tali modelli negli ambiti applicativi in cui sono utili e promuovendo una discussione ricca ed estensiva sulle ulteriori ricadute nei modelli di funzionamento delle organizzazioni.

Machine Learning & Big Data Analytics

Le tecnologie digitali e gli algoritmi per analizzare i dati rappresentano l’evoluzione più recente delle tecnologie intellettuali. Grazie ad esse ci siano trasformati in quello che oggi siamo, in quello che sappiamo, nei nostri modi di pensare. Viviamo in stretta simbiosi con le tecnologie intellettuali e sarà sempre più così anche nei confronti degli algoritmi dell’intelligenza artificiale

 

Carlo Vercellis, Professore Ordinario di Machine Learning, School of Management, Politecnico di Milano

La maggior parte dei nostri gesti quotidiani, acquisti, spostamenti, decisioni personali o professionali sono orientati da un algoritmo di Machine Learning: è comodo ricevere suggerimenti circa prodotti da acquistare, di alberghi e mezzi di trasporto per i viaggi, le indicazioni di film o brani musicali che potrebbero piacerci.

Molte aziende da decine di anni raccolgono grandi moli di dati nei loro sistemi informativi. Gestori di carte di credito, che nel corso di un weekend registrano quasi due miliardi di transazioni, grandi retailer, operatori delle Telco e delle Utility.

Tuttavia, la vera rivoluzione che ha portato ai Big Data coincide con l’avvento dei social network, fenomeno indicato con il termine Internet of People. Ognuno di noi si è trasformato da lettore di informazioni in autore di contenuti. La necessità di immagazzinare questa mole di dati immensa e in rapida crescita ha indotto le grandi aziende del web a creare un nuovo tipo di database basato su architetture a rete distribuite e di fatto a dare vita al cloud.

Accanto alle persone, ormai in Internet ci sono anche le “cose”: si tratta della Internet of Things, costituita da innumerevoli oggetti dotati di sensori e spesso capaci di comportamenti intelligenti e autonomi. Siamo in grado di accendere le luci di casa a km di distanza, di regolare il termostato e di osservare attraverso l’impianto di videosorveglianza. L’automobile potrà guidare in modalità autonoma senza il nostro intervento. Si tratta di un universo composto da quasi 30 trilioni di sensori che registrano valori numerici con altissima frequenza temporale (un trilione è pari a “uno” seguito da 18 “zero”!). Abbiamo inoltre i contatori digitali per gas e power, capaci di registrare puntualmente i nostri consumi e di suggerire comportamenti che rendano più efficiente e sostenibile il nostro utilizzo dell’energia. Indossiamo dispositivi di fitness e smart watch al polso, che registrano la nostra attività fisica, i principali parametri vitali, le nostre abitudini alimentari, la qualità del sonno, e ci forniscono suggerimenti utili a migliorare le nostre condizioni fisiche. Oggetti intelligenti che contribuiranno a rendere sempre più comoda la nostra vita.

Da quanto abbiamo detto finora, è chiaro che il valore predittivo e il valore applicativo contribuiscono a generare un grande valore economico, per le imprese, per la pubblica amministrazione, per i cittadini nel loro complesso.

Tuttavia, i dati di per sé non servono a nulla se non vengono analizzati automaticamente da algoritmi intelligenti. In particolare, gli algoritmi di machine learning nell’ambito dell’intelligenza artificiale vengono applicati a grandi moli di dati per riconoscere regolarità ricorrenti e per estrarre conoscenze utili che permettono di prevedere con notevole accuratezza eventi futuri. Si tratta di una logica induttiva, un po’ come il meccanismo di apprendimento di un bimbo, cui la mamma indica alcuni esempi di lettere dell’alfabeto ponendolo in breve tempo in grado di identificarle autonomamente e quindi di imparare a leggere.

Ad esempio, gli algoritmi sono in grado di interpretare l’umore, il cosiddetto “sentiment”, di post testuali sulle reti sociali con accuratezze del 95-98%, maggiore di quella che potrebbe ottenere un lettore umano. Analogamente, oggi gli algoritmi sono in grado di effettuare con grande precisione il riconoscimento automatico dei contenuti e del contesto delle immagini analizzate.

Le tecnologie digitali e gli algoritmi per analizzare i dati rappresentano l’evoluzione più recente delle tecnologie intellettuali e ci aiuteranno a vivere meglio. Pensiamo infatti che lungo il corso della storia, dai primi strumenti preistorici all’invenzione della scrittura, dall’invenzione della stampa all’ideazione dei computer, le tecnologie intellettuali sono state il motore dell’evoluzione umana. Grazie ad esse noi ci siano trasformati in quello che oggi siamo, in quello che sappiamo, nei nostri modi di pensare. Viviamo in stretta simbiosi con le tecnologie intellettuali e sarà sempre più così anche nei confronti degli algoritmi dell’intelligenza artificiale.

Sul versante economico, osserviamo che le imprese più mature nell’analisi dei dati hanno una maggiore capacità di competere e continuano a rafforzarsi nei confronti delle imprese meno evolute e meno tempestive nell’adozione di strategie di innovazione digitale. Da anni si parla di digital divide in riferimento alle diverse opportunità di accesso alle risorse digitali da parte dei cittadini. Nell’ambito dell’Osservatorio Big Data Analytics che abbiamo avviato al Politecnico di Milano sin dal 2008, abbiamo introdotto dallo scorso anno il termine Analytics Divide per indicare il gap che si è venuto a creare e che purtroppo si sta ampliando tra le imprese virtuose nell’impiego di big data e intelligenza artificiale e quelle meno innovative, che faticheranno di più a uscire dalla palude in cui il virus ci ha spinti.

Per poter progredire come azienda data driven occorre tuttavia disporre di talenti e competenze adeguate, che possono essere ottenute mediante l’acquisizione di nuove risorse o il reskilling di risorse già disponibili in azienda. In questa prospettiva, presso il MIP-Politecnico di Milano abbiamo avviato diverse attività formative su temi di Machine Learning, Artificial Intelligence, Big Data Analytics, Data Science, quali il master internazionale in Business Analytics & Big Data e il percorso executive in Data Science & Business Analytics.

Gli Hub di quartiere contro lo spreco alimentare hanno vinto l’Earthshot Prize

Il premio è dedicato alle azioni per proteggere l’ambiente e il progetto di Milano contro lo spreco alimentare ha vinto un milione di sterline e il supporto della Royal Foundation per i prossimi anni

 

Milano, 18 ottobre 2021 – Nella notte di domenica 17 ottobre 2021 il Principe William ha annunciato che la Città di Milano, con il progetto della Food policy degli Hub di quartiere contro lo spreco alimentare, è vincitrice della prima edizione del prestigioso premio internazionale Earthshot Prize sulle migliori soluzioni per proteggere l’ambiente.

Un mese fa era arrivato l’annuncio di essere tra i 15 finalisti nella sezione “un mondo senza sprechi” e ieri in collegamento su BBC e Discovery Channel il Principe William ha svelato i vincitori, dopo la valutazione di un comitato di esperti internazionale che ha scelto Milano tra 750 iniziative candidate da tutto il mondo.

Insieme a Milano nelle altre quattro categorie del premio sono risultati vincitori: dalla Repubblica della Costa Rica per la protezione delle foreste, dall’India per la riduzione delle emissioni dei fumi in aria, da Berlino per lo sviluppo di tecnologie ad idrogeno per la produzione energetica e dalle Bahamas per la difesa delle barriere coralline.

A Milano la BBC ha preparato un collegamento con Londra da una terrazza con vista Duomo, al quale ha preso parte la Vicesindaco Anna Scavuzzo, con rappresentanti di tutti i partner che rendono vivo questo progetto.

Il premio di un milione di sterline verrà utilizzato per potenziare sempre più questi Hub, aprirne di nuovi, garantendone la sostenibilità sul lungo periodo e replicare questa virtuosa buona pratica nella rete delle città che lavorano con Milano sulle food policy, partendo dalla rete delle città di C40 e del Milan Urban Food Policy Pact.

Vincere l’Earthshot prize è il riconoscimento di un grande lavoro di squadra che ha coinvolto l’intera città: grazie al Comune e a tante realtà del Terzo settore, delle università, della Grande Distribuzione e della filantropia operative sul territorio, oggi Milano ha 3 Hub di quartiere a Isola (2019), Lambrate (2020) e al Gallaratese (2021).

Il progetto è nato nel 2017 da un’alleanza  tra Comune di Milano, Politecnico di Milano con il gruppo di ricerca del Dipartimento di Ingegneria Gestionale Food Sustainability Lab di cui fa parte l’Osservatorio Food Sustainability, Assolombarda, Fondazione Cariplo e il Programma QuBì.
La realizzazione del primo Hub ha poi coinvolto Banco alimentare della Lombardia e ha permesso di salvare oltre 10 tonnellate di cibo al mese, assicurando in un anno un flusso di 260.000 pasti equivalenti, che hanno raggiunto 3.800 persone, grazie al contributo di 20 supermercati, 4 mense aziendali e 24 enti del Terzo settore.

In particolare, il ruolo dell’Osservatorio Food Sustainability, è stato quello di elaborare lo studio di fattibilità della rete e di monitorare l’operatività degli hub e gli impatti generati dal progetto, che ha permesso di costruire un modello logistico estendibile e replicabile in altri quartieri della città.

A seguire, è stato infatti avviato l’Hub di Lambrate, subito dopo il primo lockdown nella primavera 2020, gestito sempre da Banco alimentare della Lombardia in uno spazio messo a disposizione da AVIS Milano e con il contributo di BCC Milano. Il terzo Hub, al Gallaratese, è gestito da Terre des Hommes con il contributo di Fondazione Milan.

Il prossimo, in fase di progettazione, sarà l’Hub di quartiere di Corvetto, con la gestione del Banco Alimentare della Lombardia e il contributo della Fondazione SNAM; mentre per aprirne un quinto il Comune di Milano ha recentemente avviato il tavolo di coprogettazione per l’Hub del Centro con l’Associazione IBVA e con il contributo di BCC Milano.

 

Il team del Dipartimento di Ingegneria Gestionale:
Alessandro Perego, Marco Melacini, Giulia Bartezzaghi, Annalaura Silvestro e Andrea Rizzuni del gruppo di ricerca Food Sustainability.

 

Partner coinvolti:
Il progetto coinvolge importanti insegne della grande distribuzione tra cui Lidl Italia, Esselunga, Carrefour, NaturaSi, Erbert, Coop Lombardia, Il Gigante, Bennet, Penny Market con il supporto di Number1 Logistics Group che ha fornito i furgoni per gli Hub di Isola e Lambrate. Sono state coinvolte inoltre le mense di Pirelli, Siemens, Deutsche Bank e Maire Tecnimont coordinate dal Gruppo Pellegrini per l’Hub Isola.
Con Fondazione Cariplo e SogeMi il Comune di Milano ha inoltre lanciato l’iniziativa Foody zero sprechi per replicare il modello degli hub anche all’Ortomercato e recuperare il cibo fresco insieme a Banco alimentare della Lombardia, Recup, Croce rossa sud milanese, Università degli studi di Milano e molti altri partner in supporto..

 

Cultura del dato e modello di leadership: due facce della stessa medaglia

Gli esperti dei dati diventano nodi fondamentali delle relazioni all’interno di un’organizzazione. Per questo la cultura del dato si porta dietro la necessità di rivedere i modelli organizzativi e di leadership

 

Filomena Canterino, Ricercatrice in People Management & Organization, School of Management, Politecnico di Milano

Gli esperti di data analytics, i cosiddetti data scientist e data analyst, sono da qualche anno tra le figure più ricercate dalle aziende, in tutti i settori, dalla manifattura all’education all’editoria. Il loro lavoro è raccogliere, strutturare, analizzare, interpretare e sintetizzare i dati, per trasformarli in informazioni utili per gli altri attori e decisori di un’organizzazione.

Molto spesso, questi ruoli sono nodi fondamentali all’interno dell’organizzazione, perché interagiscono con diverse funzioni e livelli, diventando un punto di riferimento che scavalca e in alcuni casi addirittura ribalta le gerarchie tradizionali. Gli esperti di dati infatti possono portare grande valore aggiunto in quasi tutte le diverse aree aziendali, dalla manutenzione alla strategia alla gestione delle risorse passando per il marketing. E nel farlo, si interfacciano con una moltitudine di diversi attori aziendali.
Pensiamo al tipico esempio di datification di un impianto produttivo, in cui un sistema di sensori è in grado di raccogliere in tempo reale e continuativo i dati relativi alle performance di produzione (ad esempio numero di pezzi prodotti, numero di scarti, durata degli stop, numero di guasti). Tramite l’analisi e l’elaborazione dei dati, e le informazioni che riesce ad estrapolare da essi, un data scientist o un data expert è in grado di dialogare in modo efficace sia con gli operatori, sia con i team leader, sia con i top manager. E’ in grado di dare voce alle macchine, ma anche alle persone che, avendo un’idea più completa e dettagliata delle performance e delle possibili aree di miglioramento, possono proporre nuove soluzioni e idee.

Altrettanto spesso, purtroppo, le persone che ricoprono questi ruoli vengono superficialmente etichettati come “nerd”, “geek”, o altri termini che alludono ad una certa confidenza ed interesse per le questioni analitiche e tecniche, e meno interesse o spigliatezza negli aspetti relazionali, interpersonali e di leadership.
Questa visione, oltre che essere limitata – pensiamo a quanti “nerd” possiamo enunciare tra i CEO e leader di grandi aziende di successo – è estremamente limitante.

Innanzitutto, perché fa riferimento ad una visione ormai obsoleta del concetto di leadership, ossia la leadership innata, eroica, che pone le sue fondamenta sul carisma “naturale”. Gli esperti di leadership e le aziende più all’avanguardia su questi temi sanno bene che leader non necessariamente si nasce, ma si può diventare – per alcuni con più fatica che per altri certo – semplicemente perché la leadership è caratterizzata da comportamenti, ossia da azioni che si possono praticare, allenare e migliorare, e non da tratti. Quindi, anche una persona con una spiccata predisposizione tecnica e analitica può certamente identificare e mettere in campo i comportamenti per interagire con gli altri e per guidare efficacemente un gruppo di lavoro.
Per di più, nel campo della ricerca accademica, in cui la rilevanza dei comportamenti più che dei tratti è cosa nota da svariati decenni, i più recenti studi ci mostrano come la leadership sia in realtà nella maggior parte dei casi un processo complesso, dinamico e condiviso, che nasce dall’interazione tra i diversi attori di un sistema. Se concepita in questo modo, si potrebbe quasi dire che possa essere più facilmente capita da chi si occupa di intercettare e interpretare flussi di dati, che da altri.

In secondo luogo, questo tipo di visione rende poco efficace la gestione dello sviluppo di queste figure all’interno delle organizzazioni, proprio perché accende i riflettori sulla parte sbagliata della scena, ossia sulle caratteristiche personali di chi ricopre uno specifico ruolo, piuttosto che sul modello di leadership dell’organizzazione.

Cosa fare quindi per mettere questi ruoli nelle condizioni di esprimere al meglio il loro potenziale e sviluppare le loro doti di leadership di contenuto e di processo?

Certamente diffondere un modello culturale che guardi alla leadership come qualcosa di condiviso e diffuso, che si basa su azioni e comportamenti, e sul concetto di accountability – per cui ogni singola persona o piccolo gruppo di lavoro è responsabile di una piccola parte del risultato. Tutto ciò può essere reso possibile sia da piani di formazione e sviluppo coerenti, che riguardino tutta l’organizzazione, sia dalle tecnologie digitali, che facilitano l’acquisizione e la condivisione di dati per informare le decisioni e accorciare di conseguenza le catene gerarchiche. Dati, accountability e leadership condivisa: un circolo virtuoso in cui i data expert possono essere veri protagonisti.

Dall’online a l’on campus: gli i-Flex EMBA al MIP per una settimana residenziale

Il 2020 è stato l’anno in cui la nostra routine si è spostata online.

Eppure, al MIP, il distance learning era una realtà consolidata già prima della pandemia. Risale infatti al 2014 il lancio della prima edizione del FLEX EMBA, il primo Executive MBA online, presto raggiunto anche da una versione internazionale in lingua inglese – l’International Flex EMBA.
Anche se questi due Executive MBA sono nati per essere svolti interamente online, per favorire il networking sono previste anche due settimane intensive in presenza – all’inizio del percorso e nella seconda metà.
Un momento importante per conoscere i compagni di viaggio e poi rafforzare il legame formatosi giorno dopo giorno grazie alle esperienze condivise.
Due momenti di cui non volevamo – nonostante tutto – privare i nostri studenti.
Così a settembre, quando le condizioni di mobilità internazionale ce lo hanno permesso – siamo stati felici di accogliere al MIP, le due classi dell’International Flex EMBA che non avevano potuto godere della residential week nei tempi previsti dal curriculum.
Team building, lezioni focalizzate sulle soft skill, visite ai laboratori e testimonial aziendali: ecco alcune delle attività organizzate nelle settimane del 13 e del 20 settembre per i nostri allievi, culminate per classe del 2019 con la cerimonia di Graduation del 24 settembre.

In un’esperienze digitale, il tocco umano che fa la differenza.

Tempo di saluti e di benvenuti al MIP

Al MIP, l’autunno è la stagione degli arrivederci e dei benvenuti!

Nei mesi di settembre e ottobre, infatti, mentre chi è ormai arrivato al culmine del percorso e festeggia la tanto attesa Graduation ci saluta, centinaia di nuovi studenti entrano – anche virtualmente – nelle aule del MIP per dare il via al loro programma di formazione.

È quindi l’occasione per fare i nostri migliori auguri ai partecipanti del Master in Management dei Beni e delle Istituzioni Culturali (MABIC), del Master in Management of Research (MIT) e dell’Executive Master in Management Pubblico per il Federalismo (EMMPF) che hanno festeggiato la loro Graduation alla presenza di ospiti come il Dott. Fabio Schiavolin, Amministratore Delegato Snaitech, Mauro Bonaretti, Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile, Andrea Ferri, Responsabile della Finanza locale presso Anci e Giuseppe Conte, Direttore Risorse Umane INPS.

Un grande augurio anche ai partecipanti delle aule MBA ed Executive MBA che il 24 settembre, nello splendido contesto del Teatro degli Arcimboldi, vestiti con toga e tocco, hanno potuto stringere tra le mani il proprio diploma.
Un momento emozionante che ha visto, tra gli altri, anche l’intervento del Prof. Federico Frattini, Dean del MIP, della Prof. Antonella Moretto, Associate Dean for Open Programs,  di Dennis de Munk, Head of Employer Branding and University partnerships di Ferrari, e del nostro Alumnus Roberto Marani.

Per ogni fine, c’è un nuovo inzio. Ed ecco che appena tre giorni dopo abbiamo accolto una nuova classe del Full Time MBA, ma anche i partecipanti degli International Masters in Business Analytics and Big Data e dell’International Master in Media and Communication Management.

Ma non solo. Nel giro di pochi giorni hanno preso il via anche International Master in Digital Supply Chain Management – Operations, Procurement and Logistics (iMSCPM), l’International Master in Innovation and Entrepreneurship (IMIE), l’International Master in Marketing Management, Omnichannel and Consumer Analytics (IM4), l’International Master in Project Management (iMPM), i cinque International Masters in Sustainability, l’International Master in Cybersecurity Management, l’International Master in Digital Transformation (IMDT), il Master in Energy Management (MEM), l’International Master in Fintech, Finance and Digital Innovation e il Master in Financial Risk Management (MIFRIM).

Un grazie a chi ha fatto un tratto di strada con noi e un benvenuto a chi inizia ora la sua #MIPexperience!

Research Impact Assessment: un modello in continua evoluzione

Dal 2016 la School of Management (SoM) del Politecnico di Milano promuove la cultura della valutazione e del miglioramento dell’impatto della ricerca su istituzioni, aziende, studenti e docenti, cittadini e comunità accademica

 

Federico Caniato, Professore Ordinario di Supply Chain & Procurement Management, School of Management, Politecnico di Milano
Stefano Magistretti, Assistant Professor di Innovation & Design Management, School of Management, Politecnico di Milano

Sempre più spesso oggi viene messo in discussione il contributo che le università forniscono alla società, per cui sempre più spesso si richiede loro di misurare e dimostrare tale contributo, spesso definito “impatto”. L’approccio tradizionale è stato quello di identificare tre grandi missioni: ricerca, formazione e la cosiddetta “terza missione”, termine ampio che include le interazioni con la società in generale, ad esempio il trasferimento tecnologico, la promozione culturale, la comunicazione esterna. Vi è però un limite in questo approccio, in quanto rischia di vedere le tre missioni come attività separate, ognuna con le proprie regole e metriche.

Dal 2016 la School of Management (SoM) del Politecnico di Milano sta lavorando su questo tema con un approccio più integrato, che non vede le tre missioni come separate, ma piuttosto la ricerca come motore che può generare impatto su molteplici domini, non solo la comunità accademica e gli studenti, ma la società in generale. Per questo motivo promuoviamo la cultura della valutazione e del miglioramento dell’impatto della ricerca, in linea con la nostra mission:

contribuire al bene collettivo attraverso una comprensione critica delle opportunità offerte dall’innovazione. Questa missione si realizza creando e condividendo la conoscenza attraverso un’istruzione di alta qualità, una ricerca di alta qualità e un impegno attivo con la comunità“.

Quando abbiamo iniziato questo cammino, abbiamo prima di tutto voluto incoraggiare tutti i colleghi a riflettere sull’impatto dei loro progetti di ricerca a 360 gradi. Nei primi anni, ci siamo occupati di stimolare il pensiero critico e la creazione di una cultura della misura dell’impatto. Inizialmente non era scontato che ogni progetto, dal più semplice al più complesso, dal più breve al più lungo potesse avere un impatto su diverse aree della mission della nostra scuola. Questa cultura della misura era ed è tutt’oggi però fondamentale per valutare e dimostrare l’impatto su molti domini e non solo sugli indicatori più tradizionali (e.g., numero di pubblicazioni academiche, numero di pubblicazioni su testate giornalistiche).

Per questo motivo abbiamo sentito la necessità di sviluppare un nostro modello per guidare la valutazione dell’impatto all’interno di tutta la SoM, che ci permettesse di perseguire i seguenti obiettivi:

  • Aumentare la consapevolezza di tutta la nostra comunità
  • Imparare a valutare l’impatto della ricerca
  • Incoraggiare tutti i colleghi a progettare, condurre e diffondere ricerche volte ad avere un impatto misurabile
  • Migliorare la capacità di rendere conto dell’impatto generato
  • Riconoscere i risultati della ricerca della SoM
  • Diffondere i risultati della ricerca sia all’interno della SoM sia all’esterno

Per raggiungere questi obiettivi, abbiamo costruito un modello, ispirato alla letteratura scientifica, che identifica 5 domini e 3 livelli di maturità di impatto della ricerca.
I 5 domini rispetto ai quali viene misurato l’impatto sono:

  1. Le istituzioni
  2. Le imprese
  3. Gli studenti e i docenti
  4. I cittadini
  5. La comunità accademica

L’impatto su ciascun dominio è poi misurato su una scala di maturità crescente a 3 livelli:

  • Comunicazione dei risultati della ricerca
  • Adozione dei risultati della ricerca
  • Benefici ottenuti tramite l’adozione

Questo modello è volutamente generale, affinché possa essere adattato ai diversi temi e tipologie di ricerca della SoM. Per ciascun dominio e ciascun livello di maturità, è necessario identificare precisi indicatori, possibilmente quantitativi (e.g., numero di partecipanti a eventi, numero di articoli in rivista pubblicati, numero di conferenze academiche organizzate), che permettano di misurare e dimostrare l’impatto. Tali indicatori devono essere scelti coerentemente con la natura di ciascun progetto di ricerca.

Il modello è stato dapprima testato da alcuni colleghi che nel 2019 hanno valutato 16 progetti su queste dimensioni. Questo ha permesso di comprendere la solidità e validità del modello e identificare numerose metriche utili per i diversi domini e i diversi livelli di maturità.

Nel 2020 abbiamo investito nel coinvolgimento di tutta la SoM nel compiere questo importante esercizio, allargando così la partecipazione, arrivando a raccogliere il Research Impact Assessment per 42 diversi progetti condotti all’interno della SoM, di cui almeno uno per ciascuna linea di ricerca della Scuola.
E’ stata prima di tutto un’occasione formativa e di riflessione sul tema per tutta la scuola, per cui sono stati organizzati momenti di confronto e discussione. La sintesi e le evidenze principali sono state raccolte in un Booklet, che presenta una grande ricchezza e varietà di impatti e che servirà inizialmente come strumento di comunicazione interna per creare consapevolezza e raccogliere best practice.

Il lavoro continua, è già partita la raccolta per il 2021, con l’obiettivo di aggiornare le informazioni sui 42 progetti e ampliare ulteriormente la partecipazione.
La speranza e l’augurio è che questo esercizio permetta sempre più non solo di misurare a posteriori, ma anche di pianificare sin dall’inizio l’impatto dei progetti di ricerca, e spinga a coprire tutti i domini e a raggiungere il massimo livello di maturità possibile, ovvero quello dei benefici concreti.

Career Action plan: strategia, pianificazione e flessibilità di pensiero

Per anni mi sono occupata di pianificazione, considerando un bel piano organizzato e strutturato come una specie di coperta di Linus. Quando ho iniziato ad occuparmi di contenuti HR, ho avuto un momento di dubbio: la pianificazione e il recruiting vanno davvero d’accordo? Sì, certo, se pensiamo al completamento di singoli compiti lavorativi, ma nel complesso – se non utilizzata con un fine specifico – ho pensato che saper pianificare fosse una competenza come un’altra, anzi, qualche volta, la rigidità di un buon planning poteva risultare anche piuttosto fastidiosa/inutile/controproducente.

Poi la scoperta. Iniziando a lavorare come career advisor ho incontrato moltissime persone e per tutti – attraverso le domande sui loro obiettivi e la costruzione dei loro percorsi – mi si è proposta la stessa sfida: imparare e insegnare a conciliare la pianificazione di un piano di carriera con la flessibilità che la ricerca attiva del lavoro richiede.

Questo perché non basta desiderare qualcosa e chiamarlo obiettivo professionale: l’attenta analisi individuale che porta alla definizione di un cosa ci attiva immediatamente nell’identificazione del come ed è fondamentale non perdersi in questo percorso piuttosto articolato.

Chi sono quindi i migliori alleati che ci supportano nella creazione di un career action plan efficace?

Sicuramente l’informazione è il nostro primo importante amico. Conoscere, approfondire, raccogliere dati è la prima attività che permette di indagare la concretezza del nostro interesse: possiamo evidenziare e raccogliere tutti quei punti di forza che ci potranno rendere interessanti agli occhi di chi ci intervisterà.
La raccolta dei dati è facilitata dal web che, attraverso network più o meno professionali, ci fornisce una vastità di elementi utili (dall’analisi dei profili di chi occupa già il ruolo che desideriamo, alla raccolta di informazioni di dettaglio sul nostro target), ma è fondamentale che sia svolta con cura e attenzione perché possa portare a risultati utili e di apertura verso il nuovo. La tastiera e il pc infatti sono uno strumento importante solo se uniti alla testa e ad una strategia di ricerca!

Tra le attività più efficaci e anche più difficili, c’è poi anche una buona capacità di networking, che ci consente il confronto diretto con persone che lavorano o hanno lavorato in aziende o posizioni professionali che sono il nostro target, raccogliendo preziose informazioni che nessun sito web può offrirci.

Dalla nostra mappatura è importante che risulti una chiara e reale sintesi dei classici cosa, come, dove e perché.

Ecco perché il secondo step è la scelta di ciò ci interessa davvero. Anche se abbiamo le competenze per svolgere un certo ruolo, serve filtrare le opportunità di lavoro e le aziende che intercettiamo, per sondare le caratteristiche che contribuiranno a renderci soddisfatti della scelta finale.

Leggere annunci e consultare bacheche alimenta infatti  l’istinto diffuso del “provarci”, inviando cv nella speranza che qualcuno chiami. Tuttavia – soprattutto per coloro che sono mossi da una motivazione stringente perché sono disoccupati o molto insoddisfatti del lavoro che stanno facendo – il rischio è non ritrovarsi soddisfatti accettando la prima offerta che arriva.

Se invece usiamo i dati della nostra ricerca per fermarci a ragionare e scegliamo di candidarci verso opportunità e aziende in coerenza con quelli che sono i cardini del nostro obiettivo, ci concediamo l’opportunità di un miglioramento professionale e non solo un cambiamento.

Ed è qui che compare il nostro terzo alleato: la flessibilità. L’idea originaria potrebbe infatti cambiare, arricchirsi di dettagli o evolvere in altri progetti. Come saggiamente consiglia Chiara Girola, nel suo articolo sulla definizione dell’obiettivo di carriera, è importante che l’obiettivo mantenga sufficiente astrazione per concederci di essere creativi.

Il processo di raccolta delle informazioni e di scelta dei nostri passi sono momenti importanti, ma che non devono produrre un risultato cristallizzato nel tempo.

Dal mettersi in gioco nella ricerca di un nuovo lavoro possono nascere molte idee che creano obiettivi diversi da quelli iniziali. Possono nascere i piani B o C oppure, in certi casi, possono crearsi le evoluzioni, il piano A.0 o A.1 a cui non avevamo pensato, ma da cui possiamo farci coinvolgere tanto da farli diventare la meta del nostro nuovo percorso.

Possiamo – e dobbiamo! – concederci il lusso di cambiare idea e di aprire la mente a strade e opzioni meno evidenti o più creative, che possono sollecitarci verso una sfida e attivare le nostre risorse più nascoste. Raccogliendo elementi e mettendo alla prova il nostro piano originario, apriamo la strada a progetti paralleli e ugualmente possibili che possono portarci ottime opportunità

Quale che sia il vostro obiettivo è fondamentale, a mio parere, che il piano di azione costruito per perseguirlo sia cucito sui vostri desideri e sulle vostre inclinazioni più che sul nome altisonante di una società di grido. Noi possiamo scegliere di dare il nostro meglio in qualsiasi ambiente, ma sappiamo scegliere l’ambiente che ci offrirà le condizioni per sostenere il desiderio di fare del nostro meglio?

 

Gli Hub di Quartiere contro lo spreco alimentare tra i finalisti dell’Earthshot Prize

Il premio è dedicato alle azioni per proteggere l’ambiente e il progetto di Milano contro lo spreco alimentare è tra i 3 finalisti della sezione “Un mondo senza sprechi”

 

Il 17 settembre scorso il Principe William ha annunciato che la Città di Milano con il progetto degli Hub di quartiere contro lo spreco alimentare, parte della Milano Food Policy, è tra i 15 finalisti della prima edizione dell’Earthshot prize, prestigioso premio internazionale sulle migliori soluzioni innovative per proteggere l’ambiente.

In particolare, Milano si contenderà il premio dedicato alla sezione “Build a Waste Free World” (Un mondo senza sprechi) con altri due progetti: uno di conversione di rifiuti in prodotti sicuri per l’agricoltura (Kenya) e uno che riguarda un impianto di trattamento che trasforma il 98% delle acque reflue in acqua pulita (Giappone). Il progetto degli Hub di quartiere, selezionato tra 750 iniziative candidate da tutto il mondo, propone un modello innovativo di distribuzione di eccedenze e aiuti alimentari per le persone vulnerabili, facendo leva su reti di collaborazione locali. Il progetto permette quindi di ridurre lo spreco di cibo e il suo impatto negativo sull’ambiente, recuperando e distribuendo cibo a chi ha più bisogno nella città.

Essere arrivati alla finale dell’Earthshot prize è il riconoscimento di un grande lavoro di squadra che ha coinvolto l’intera città: grazie al Comune e a tante realtà private e del Terzo settore operative sul territorio, oggi Milano ha 3 Hub di quartiere a Isola (2019), Lambrate (2020) e al Gallaratese (2021).

Il progetto è nato da un protocollo d’intesa siglato nel 2016 tra Comune di Milano, Politecnico di Milano e Assolombarda, in stretta sinergia con il Programma QuBì coordinato da Fondazione Cariplo.

In particolare, il ruolo della School of Management del Politecnico di Milano, attraverso il gruppo di ricerca dell’Osservatorio Food Sustainability, è stato quello di elaborare lo studio di fattibilità della rete e di monitorare l’operatività degli hub e gli impatti generati dal progetto, che ha permesso di costruire un modello logistico estendibile e replicabile in altri quartieri della città.

Ad oggi sono stati coinvolti nel progetto diversi attori privati e la rete è in continua espansione: Banca di Credito Cooperativo di Milano e Fondazione Milan che, insieme a Fondazione Cariplo, hanno finanziato i tre hub attivi, le aziende della rete Assolombarda, tra cui Pellegrini, Siemens, Pirelli, Deutsche Bank, Maire Tecnimont, Samsung e Armando Testa, che partecipano con donazioni di cibo e sponsorizzazioni, l’operatore logistico Number1, che ha messo a disposizione i furgoni refrigerati, e importanti insegne della grande distribuzione organizzata, in qualità di donatori di cibo, tra cui Lidl Italia, Esselunga, Carrefour, NaturaSi, Erbert, Coop Lombardia, Il Gigante, Bennet e Penny market.
Una cordata di associazioni del Terzo Settore dà un contributo fondamentale al funzionamento e alla replicabilità del sistema degli hub: Banco Alimentare della Lombardia, che gestisce gli hub di Isola e Lambrate, Terre des Hommes, gestore dell’hub nel Gallaratese, insieme a Croce Rossa Italiana – Comitato Milano, IBVA – Solidando, Mitades, STAG, Mamme a Scuola, Global Thinking Foundation e Rimaflow – Fuori Mercato.

Con Fondazione Cariplo e SogeMi il Comune di Milano ha inoltre lanciato l’iniziativa Foody Zero Sprechi per recuperare il cibo fresco rimasto invenduto dall’Ortomercato insieme a Banco alimentare della Lombardia, Recup, Croce Rossa, Università degli Studi di Milano e molti altri partner in supporto.

Per saperne di più:
Comunicato Food Policy
Annuncio finalisti

 

Al via l’Executive PhD in Innovation in collaborazione con Tsinghua University

Al via in questi giorni un nuovo progetto che rafforza la presenza della School of Management in Cina; si tratta dell’Executive PhD in Innovation,  programma che si inserisce all’interno del China-Italy Design Innovation Hub, il più grande polo dell’innovazione europeo, che vede come protagonisti il Politecnico di Milano e Tsinghua University, nella ricerca e formazione di talenti e di innovative leaders del futuro.

Una collaborazione quella tra il Politecnico di Milano e Tsinghua University che, dopo l’avvio ufficiale a febbraio 2017 con l’istituzione del China-Italy Design Innovation Hub alla presenza di Sergio Mattarella e di Xi Jinping, è maturata negli anni, fino a portare oggi all’avvio di questo Executive PhD.

Questo Executive PhD è capace di riunire le eccellenze accademiche di Cina e Italia in un programma innovativo, pensato per insegnare ai profili senior a unire in modo creativo l’esperienza maturata negli anni con la ricerca applicata per generare idee e soluzioni innovative, ma anche per far crescere imprenditori e manager che promuovono l’innovazione integrando competenze manageriali e pensiero scientifico.

Il 10 settembre, alla presenza del Prof. Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano, del Prof. Giuliano Noci, Pro-Rettore per la Cina e del Prof. Paolo Trucco, Direttore del progetto, si è tenuta la cerimonia di apertura.
Un’occasione per sottolineare l’importanza della collaborazione tra i due Atenei e ricordare i momenti salienti delle relazioni tra Italia e Cina.