Lo sport come modello ispiratore e sede di valori

“Sono il padrone del mio destino. Il capitano della mia anima”, così recitava Nelson Mandela citando “Invictus”, meravigliosa poesia composta dall’inglese William Ernest Henley. Quasi un mantra, durante i 27 anni di reclusione di Madiba, che hanno permesso all’attivista sudafricano di resistere ai soprusi, rappresentando quell’animo indomito capace di ispirare milioni di persone in tutto il mondo. Una frase ripresa anche da Clint Eastwood nell’omonimo lungometraggio, Invictus – L’invincibile (2009), in cui la storia di Mandela si intreccia con quella di François Pienaar, capitano della nazionale di rugby che vinse il Campionato Mondiale nel 1995.

Perché lo sport, ad ogni livello, è da sempre motivo di unione in grado di appianare contrasti, superare odio e bandiere e unire 43 milioni di persone per sospingere la propria squadra a battere gli “invincibili” All Blacks. Uno schema che si è ripetuto anche in occasione di EURO 2020, per noi italiani motivo di grande orgoglio grazie alla vittoria della nazionale allenata da Roberto Mancini che rappresenta l’ennesima conferma del potere dello sport, capace di unire Paesi diversi attraverso la prima competizione europea itinerante.

I 51 incontri previsti sono stati infatti organizzati in 11 città, promuovendo così uno spirito di condivisione che, quasi magicamente, hanno collegato Roma con Baku, Londra con Bucarest, San Pietroburgo con Amsterdam. Una opportunità, anche particolarmente critica data la situazione sanitaria, che però ha costituito un valore aggiunto sotto l’aspetto comunicativo, esportando (anche) esperienze architettoniche, ingegneristiche e gestionali grazie alla riconosciuta visibilità di un evento così seguito.

In tal senso, infrastrutture sportive iconiche come Hampden Park (Glasgow, 1903) hanno condiviso il palcoscenico con stadi di ultima generazione, sancendo un sodalizio tra memoria e innovazione, quest’ultima evidenziata da EURO 2020 per via di impianti di assoluto livello. Temi ormai fondamentali come la sostenibilità, considerata in senso tout court, hanno per esempio costituito la base del rinnovamento della Johan Cruijff Arena (Amsterdam, 1996), attualmente un autentico hub energetico per la propria città, oppure il leitmotiv dell’intera area in cui è localizzata l’Allianz Arena (Monaco di Baviera, 2005).

Per tale ragione, viene quasi spontaneo considerare vincitori di EURO 2020, al pari dell’Italia, anche i 60.000 spettatori che hanno colmato la Puskás Aréna (Budapest, 2019), le migliaia di persone che hanno percorso l’Olympic Way dirette al Wembley Stadium (Londra, 2007), oppure la spettacolare vitalità che ha illuminato fin dalla partita inaugurale il Foro Italico, in cui sventolavano infiniti tricolori poi identificati, in un’indimenticabile serata europea, nell’arco di Wembley, capace di irrompere nella notte londinese come un luminoso manifesto simbolico della tenacia dimostrata dal nostro Paese per uscire dalla crisi pandemica.

Perché in fondo, rammentando alcune frasi di Nelson Mandela, sono i valori, identificati nello spirito di squadra, nella volontà di rialzarsi dalle difficoltà, nell’ambizione di conquistare qualcosa e persino nell’adattarsi, a conferire allo sport il difficile ruolo di ispiratore. E questo indipendentemente dal talento dell’atleta, che dev’essere sempre spinto da “un desiderio, un sogno, una visione” come sosteneva il grande Muhammad Ali. Un uomo, al pari di Madiba, in grado di impersonificare l’essenza più profonda dell’essere sportivo, non soltanto per quegli indimenticabili incontri, ma anche – e direi soprattutto – per la forza dimostrata ad Atlanta ’96, quando ormai indebolito nel fisico, scovò la volontà per emozionare milioni di persone, come a ricordare una sua frase: “Impossibile non è una regola, è una sfida”.

Considerando ciò, il Master in Progettazione Costruzione Gestione delle Infrastrutture Sportive da me frequentato e organizzato da Politecnico di Milano e MIP, pone infatti lo sport al centro del proprio programma, reputando la pratica sportiva in qualità di espressione di questo valore aggiunto: la trasversalità della passione e dei valori sportivi uniti ad un alto livello di formazione scientifica e multidisciplinare che offre uno spettro formativo di elevato prestigio e, allo stesso tempo, di soddisfazione professionale e umana.

 

L’autore
Luca Filidei

Architetto, laureato al Politecnico di Milano, ho conseguito presso lo stesso Ateneo il Master Universitario di II livello in Progettazione Costruzione Gestione delle Infrastrutture Sportive. Ho svolto attività di ricerca e collaborato con il Comune di Milano in occasione del bilancio partecipativo. Da febbraio scrivo articoli riguardanti le infrastrutture sportive sul web magazine Calcio e Finanza.

 

 

SOM per gli SDGs: premi di laurea per tesi con impatti connessi ai Sustainable Development Goals

E’ aperto il bando per 2 premi di laurea: SOM per gli SDGs: Tesi con impatti connessi ai Sustainable Development Goals.

La School of Management del Politecnico di Milano promuove i principi di una gestione responsabile e sostenibile in tutti i suoi programmi e sostiene attività di apprendimento e ricerca coerenti con i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile/ Sustainable Development Goals (SDG) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (https://unric.org/it/agenda-2030).

I premi di laurea, del valore di € 1.000,00 ciascuno, sono destinati a laureati/e al corso di Laurea Magistrale o Laurea Specialistica o V.O in Ingegneria Gestionale che abbiano conseguito il relativo titolo nel periodo novembre 2020 – ottobre 2021.

I lavori (tesi o tesine) dovranno dimostrare di avere ricadute su uno o più SDGs (es. sviluppo di ricerche in ambito di progetti, prodotti o servizi alla persona per la promozione della salute e del benessere, parità di genere, sicurezza, protezione dell’ambiente, conservazione del patrimonio culturale, miglioramento delle condizioni di vita delle fasce deboli).

Per maggiori informazioni, si prega di consultare il bando disponibile alla pagina: https://www.som.polimi.it/albo-e-bandi/

 

 

Cybersecurity: in azienda arriva l’esperto!

Dall’home banking, agli acquisti online, fino alla gestione di interi processi industriali: oggi l’accesso alla rete è fondamentale, sia in ambito personale che professionale. Tuttavia, questo strumento così potente, oltre ad avere grandissime potenzialità, nasconde anche dei rischi. Quali? Ne abbiamo parlato con il Prof. Paolo Maccarrone, direttore dell’International Master in Cybersecurity Management.

Volendo riassumere i tipi di rischi che corrono oggi le aziende, possiamo dire che sono tipicamente tre: confidenzialità, integrità e disponibilità del dato.

Gli “attacker”, infatti possono avere interesse a impossessarsi dei dati non solo per comunicarli a soggetti terzi (confidenzialità), ma anche a comprometterli o distruggerli (integrità), o a renderli irraggiungibili (disponibilità), tipicamente chiedendo un riscatto in cambio.

Tutti questi rischi sono enormemente cresciuti negli ultimi anni a causa della digitalizzazione, che ha fatto crescere in modo esponenziale il quantitativo di dati scambiati nonché,  della crescente interconnessione, dovuta principalmente a Internet. Basti pensare a un ambito, come quello dei processi operativi di un’azienda, dove l’automazione era gestita da server stand alone. Nessuna connessione, praticamente nessun rischio. Oggi, invece macchinari e impianti di varia natura scambiano continuamente informazioni.  Dati preziosi, che permettono, per esempio, di fare manutenzione predittiva o di riorganizzare i flussi produttivi in tempo reale, ma il cui scambio apre la porta a nuove vulnerabilità che prima non esistevano.

C’è poi un altro aspetto da segnalare. La situazione che stiamo vivendo ha aumentato in modo esponenziale il numero di lavoratori che si connettono ai server aziendali da remoto.
In passato, chi lo faceva non accedeva a dati sensibili, o, se lo faceva, riceveva un minimo di formazione su questi aspetti e spesso utilizzava device aziendali opportunamente configurati.

Nell’ultimo anno e mezzo, tuttavia, a causa della pandemia sempre più lavoratori si trovano a lavorare in remoto, magari spesso su pc personali, non di rado condivisi anche da familiari. L’uso promiscuo dei device personali e una scarsa sensibilizzazione sul tema ha esposto, ed espone tuttora, lavoratori e organizzazioni a notevoli rischi.

Rischi di cui però le aziende sembrano essere ora consapevoli. Questa percezione quali effetti sta avendo sul mercato del lavoro?

Per molti anni abbiamo assistito a una situazione a doppio binario, dove a organizzazioni molto attente al tema, come le grandi imprese – in particolare quelle operanti in alcuni settori, quali quello delle telecomunicazioni e quello dell’energia, le banche e le assicurazioni, se ne contrapponevano altre meno consapevoli dei rischi o comunque meno attive su questo fronte.
Nel corso degli ultimi 2-3 anni la situazione è però cambiata: tutti si sono resi conto della rilevanza della cybersecurity, tanto che il tema è nella top agenda della maggioranza degli amministratori delegati e dei loro stretti collaboratori.
Questo è legato sia all’aumento della frequenza di attacchi di varia natura – dal social engineering alla criptazione dei dati con richiesta di riscatto, al furto di proprietà intellettuale – che al fatto che tali attacchi , come già accennato in precedenza, colpiscono anche i processi operativi “core”, comportando spesso interruzioni delle attività produttive o dell’erogazione dei servizi.
Questa nuova attenzione si riflette, da un lato, in un aumento degli investimenti su questo fronte, dall’altro in alcuni cambiamenti organizzativi, che hanno portato per esempio a far sì che in diverse grandi realtà l’Head of Cybersecurity adesso risponderà direttamente al vertice aziendale, e non più al Chief Information Officer.

Questa crescente importanza e “pervasività” della cybersecurity porta con sé inevitabilmente una ricerca di profili professionali con specifiche competenze sia da parte delle imprese, per potenziare le unità organizzative interne, sia da parte delle società di consulenza, che rivestono spesso un ruolo chiave sia nell’impostazione del sistema di governance della sicurezza, sia nell’implementazione delle contromisure tecnologiche e organizzative. Una crescente domanda che non trova riscontro nell’offerta di mercato, come sottolineato da diversi responsabili delle risorse umane e da diverse società specializzate nel recruiting.

In che modo il MIP sta cercando di colmare questo gap?

L’impegno della nostra Business School su questo fronte non è una novità. Abbiamo infatti già lanciato l’anno scorso un Percorso Executive dedicato a chi ha già maturato dell’esperienza nel settore della cybersecurity e vuole aggiornare e ampliare le proprie competenze per dare un’accelerazione alla propria carriera.

Quest’anno abbiamo però voluto ampliare la nostra offerta formativa con un Master – l’International Master in Cybersecurity Management – pensato per un pubblico junior, appena uscito dall’università.
Il nostro Master nasce ascoltando i bisogni delle aziende, primi tra tutti i nostri educational partner – BIP e SETA – e le società che hanno collaborato in modo stretto alla progettazione come membri dell’advisory board, come Accenture, PwC e Intesa-IBM.
Abbiamo quindi deciso di creare un programma in grado di dare ai partecipanti gli strumenti per poter avere una visione olistica della cybersecurity.
Quello che è infatti emerso dal continuo confronto con le aziende è che una conoscenza tecnica delle vulnerabilità e di come risolverle non è sufficiente. È importante essere consapevoli dell’impatto che queste possono avere sull’intera organizzazione. Ci rivolgiamo quindi a giovani che desiderano una carriera non puramente tecnica, ma che aspirano a ricoprire presto ruoli di responsabilità. Ecco perché nel Master si affrontano anche temi di natura organizzativa e gestionale, e si dedica attenzione anche allo sviluppo delle soft skill.
Alla luce di questo, non dovrebbe quindi stupire che il Master sia aperto anche a profili meno “convenzionali”, come per esempio gli ingegneri gestionali, i laureati in economia aziendale o in discipline scientifiche. O ancora avvocati che si sono specializzati nelle normative relative alla sicurezza informatica e che desiderano approfondire il tema per inserirsi in importanti studi professionali o negli staff legali delle grandi organizzazioni.

Come in molti dei programmi del MIP, la componente esperienziale è fondamentale. Questo si riflette nella composizione della Faculty, caratterizzata dalla presenza di numerosi professionisti che affiancano i docenti di estrazione accademica, nonché nelle metodologie didattiche impiegate. Inoltre, il master prevede un project work finale che sarà svolto in una delle tante imprese che hanno dato la loro disponibilità, durante il quale gli allievi potranno mettere in pratica quanto appreso in aula.

Per concludere, quale consiglio vorrebbe dare ai giovani interessati al mondo della cybersecurity?

Uno molto semplice – almeno in apparenza. Di avere le idee chiare su cosa vogliono fare “da grandi”. Dipingere nella loro mente il percorso che si immaginano per i prossimi 5 o 10 anni. Se il tema li appassiona e hanno aspirazioni manageriali, questo è il percorso giusto per loro.

Career Leader: Strategia e atteggiamento imprenditoriale

“Un buon giocatore di hockey gioca là dove sta il disco. Il miglior giocatore di hockey gioca là dove il disco sta per andare” Wayne Gretzky

Nello scorso editoriale Chiara Girola ha approfondito l’importanza di saper costruire un “buon” obiettivo di carriera. Per il Career Leader l’obiettivo è il faro che guida costantemente la nave della nostra carriera. È il miglioramento continuo a cui aspirare e non, ci ricorda Chiara, il vantaggio concreto che da questo miglioramento otteniamo (stipendio, riconoscimento, cambi di ruolo..).

Ma, una volta fatto il settaggio della nostra nave e definito l’obiettivo di miglioramento, qual è l’atteggiamento giusto con cui affrontare il mare, ovvero, fuor di metafora, le strategie attraverso cui perseguire il nostro obiettivo?

Vediamo le principali secche in cui la nostra nave potrebbe arenarsi e le strategie da mettere in campo per governare l’incertezza che ogni processo di cambiamento comporta.

Affrontare il mare senza conoscere il mare

Tra gli errori più ingenui, ma anche più impattanti rispetto allo sviluppo di carriera, annoveriamo la mancanza di approfondimento circa i segmenti di mercato o i ruoli a cui aspiriamo. L’interesse o la passione personale talvolta rappresentano, in modo del tutto autoreferenziale, i riferimenti che vengono utilizzati dai Career Leader per gestire e orientare la navigazione. Questo atteggiamento comporta l’aumento della dose di incertezza in quanto al navigante sfuggono esigenze, criticità, regole, riferimenti culturali ed organizzativi dell’assetto in cui aspirerebbe ad inserirsi. Inoltre, non secondario, rischia di minare la credibilità del Career Leader agli occhi di potenziali interlocutori esperti che già conoscono il mare.

Cosa serve dunque? Fare ricerca. Ovvero incrementare una conoscenza prospettica e multidimensionale dell’ambito o del ruolo di interesse, facendosi guidare dalle domande: cosa può servire a questo contesto lavorativo? Quale contributo potrei dare io, ora e in prospettiva futura, per migliorarne competitività e capacità di innovazione?

Affrontare il mare ritenendo di conoscere il mare

Può sembrare una contraddizione rispetto al punto precedente ma, da un punto di vista metodologico si tratta del medesimo errore, ovvero basarsi su criteri autoreferenziali per costruire delle valutazioni e delle scelte d’azione conseguenti. Infatti l’esperienza, anche pluriennale in un certo settore, rischia di esporci a fare delle previsioni invece che delle anticipazioni. Qual è la differenza? Nel primo caso la forma mentis è quella del “so già tutto di come funziona quel settore, quindi andrà sicuramente così anche nella prossima azienda in cui mi candiderò”. Paradossalmente il massimo della certezza rappresenta il più grosso punto debole per un Career Leader. La logica del “già visto” e del “prevedibile” fa perdere di vista il processo, ovvero la necessità di contestualizzare e valutare ogni specifico assetto a cui ci si approccia, decentrandosi dalla propria personale esperienza e mettendola alla prova attraverso la strategia del “fare ricerca” illustrata al punto 1. Questo consente di allenare l’anticipazione, ovvero la competenza di prefigurarsi scenari possibili (e non un unico film) a partire dai dati raccolti. Anticipare ci mette in condizione di prepararci piani diversi, riducendo lo spiazzamento e la delusione se quello che pensavamo maggiormente probabile non si realizzasse e potendo effettivamente mettere a frutto il considerevole bagaglio della propria pluriennale esperienza.

Pensare che il mare si divida in due per farci passare, forti dell’innovativa idea che portiamo

Immaginiamo un Career Leader che si mette in gioco in un percorso di crescita animato dall’intenzione di contribuire all’innovazione dell’azienda in cui già lavora. Spesso si è posto le domande che abbiamo visto al punto 1 e ritiene anche di aver fatto le anticipazioni di scenari a partire dagli elementi raccolti, come suggerito nel punto 2. Compiute queste due tappe si può vedere chiaramente cosa può essere utile ad un certo contesto e, in alcuni casi, anche a costruire delle idee progettuali ad alto tasso di innovazione. Ma arrivati a questo punto spesso accade si scontrino con le resistenze al cambiamento dei vertici aziendali.

Qual è in questo caso la specifica criticità in cui un Career Leader può cadere?

Si tratta della confusione tra hard e soft skills. La competenza tecnica, per quanto implementata, raffinata e orientata all’innovazione non è sufficiente a sostenere il perseguimento di obiettivi di sviluppo. In questo caso sono due le indicazioni strategiche:

  • imparare sia ad osservare gli aspetti hard del lavoro, che (e soprattutto) gli aspetti soft, legati alle interazioni tra i diversi ruoli, alle modalità con cui si usano, in un certo contesto lavorativo, i contributi dei collaboratori per perseguire lo sviluppo d’impresa.
  • curare lo sviluppo di competenze di comunicazione efficace e di promozione di una visione comune, consapevoli che il valore attribuito alla propria idea sarà direttamente proporzionale alle soft skills che si saprà mettere in campo per renderla comprensibile, condivisibile e sostenibile…

Andar per mare da soli

È facile pensare che la navigazione di un Career Leader sia un viaggio in solitaria. Un “imprenditore di sé stesso”, si dice, introducendo implicitamente l’idea che si tratti di un self made man (o woman) che conta solo e pervicacemente sulle proprie risorse e che deve “rubare” con destrezza il lavoro e le occasioni. Ma anche il più solitario dei viaggi è il prodotto di una catena di interazioni e collaborazioni di una moltitudine di persone che hanno investito in quel viaggio risorse, strumenti, competenze. Trascurare questa evidenza, collocandosi da consumatori di risorse che provano a trarne il maggior vantaggio personale, rappresenta a tutti gli effetti, un potenziale perso. Cosa serve dunque?

Adottare una logica da Responsible Career Leader comporta considerare il lavoro di squadra con tutte le risorse (docenti, consulenti, servizi di supporto, colleghi di corso, aziende partner..) come un’opportunità per allenarsi a moltiplicare il valore del processo di sviluppo in cui si è inseriti e quindi, in ultima istanza, il valore del proprio contributo come manager di domani.

Riprendendo l’immagine iniziale del miglior giocatore di hockey che va dove il disco sta per arrivare, lo sguardo d’insieme di questi aspetti critici e strategie di gestione mostra come queste siano le 4 tappe che il Career Leader può percorrere per farsi trovare preparato ad affrontare l’incertezza del mercato del lavoro con competenza, esperienza e lavoro di squadra.

Food Policy. Apre al Gallaratese il terzo HUB di quartiere contro lo spreco alimentare

Sono oltre 20 le tonnellate al mese recuperate e redistribuite dai due già attivi a Isola e Lambrate.

Sono terminati i lavori di ristrutturazione del terzo Hub di Quartiere contro lo spreco alimentare al Gallaratese (Municipio 8) che apre con due novità, previste nell’avviso pubblico del Comune di Milano dei mesi scorsi: oltre alla raccolta e redistribuzione delle eccedenze, porta con sé anche un market solidale e attività educative e formative per donne e minori in difficoltà.

Il nuovo hub va ad aggiungersi ai due già attivi nel quartiere Isola (Municipio 9) e Lambrate (Municipio 3), che garantiscono il recupero e la redistribuzione di circa 20 tonnellate di cibo al mese (40.000 pasti equivalenti).

Non vediamo l’ora di vedere l’Hub in funzione a pieno regime, sarà un punto di incontro per gli abitanti del quartiere – affermano la Vicesindaco con delega alla Food Policy Anna Scavuzzo e l’assessore alle Politiche sociali e abitative Gabriele Rabaiotti, grazie alla nuova formula che integra diverse realtà, pensata per potenziare l’azione di inclusione sociale a partire dal sostegno e dall’aiuto alimentare”.

“Siamo orgogliosi che il terzo Hub di Quartiere contro lo spreco alimentare abbia trovato la sua casa al Gallaratese – commenta il Presidente del Municipio 8 Simone Zambelli – e sono certo che sarà davvero un valore aggiunto per tutta la nostra zona. Va a riqualificare uno spazio in disuso e si inserirà in una rete associativa già esistente particolarmente viva e creativa, a cui va il ringraziamento delle istituzioni cittadine per lo straordinario lavoro svolto in questi mesi di pandemia”.

Oltre ai partner storici dell’iniziativa, questa apertura è stata resa possibile grazie al contributo di 75.000 euro di Fondazione Milan, che ha permesso di ristrutturare lo spazio del Comune di Milano in via Appennini 50. In particolare, il supporto deriva dall’iniziativa “Derby Together” con cui il Club, in occasione dell’ultimo Derby giocato in campionato, ha chiamato a raccolta i propri sostenitori nel mondo per riempire virtualmente San Siro e sostenere il progetto di charity.

“Siamo orgogliosi di aver contribuito a un progetto così importante per la città a fianco della Food Policy del Comune di Milano: la Fondazione Milan sta diventando sempre più un punto di riferimento per le categorie più fragili, rispondendo alle crescenti istanze che arrivano dalle comunità sul territorio – spiega il Presidente di Fondazione Milan Paolo Scaroni –. Un aiuto reso possibile grazie alla grande generosità della famiglia rossonera: colgo dunque l’occasione per ringraziare, a nome del Club, tutti i sostenitori che hanno partecipato all’iniziativa ’Derby Together’. L’inaugurazione di oggi è un esempio virtuoso di quanto sia importante fare squadra tra pubblico e privato, ma anche tra semplici cittadini, a beneficio della collettività”.

A gestire il nuovo spazio polifunzionale sarà la Fondazione Terre des Hommes, già parte del nuovo Dispositivo di Aiuto Alimentare nei Municipi 7 e 8: “L’apertura dell’hub ci permette di ampliare l’offerta di servizi per la cittadinanza, a partire dalla distribuzione alimentare fino al sostegno educativo a minori e famiglie – racconta la Presidente di Terre des Hommes Italia Donatella Vergari –. I nostri compagni di viaggio saranno IBVA per il market solidale, il Comitato di Milano la Croce Rossa Italiana, Rimaflow, STAG, la rete QuBì del Gallaratese, Mitades, Paloma 2000, Mamme a Scuola e Global Thinking Foundation. Inoltre, sarà prezioso l’aiuto di volontari per garantire una presenza fissa all’Hub e la continuità del servizio. Lanciamo fin d’ora un appello a tutti coloro che abbiano voglia di mettersi in gioco al servizio del quartiere e della cittadinanza”. Per candidarsi e chiedere informazioni è possibile scrivere alla mail  volontarimilano@tdhitaly.org.

Fondazione Cariplo continua il proprio impegno al fianco del Comune nell’ambito della Food Policy – dichiara il Presidente della Fondazione Cariplo Giovanni Fosti –, sia favorendo la connessione fra azioni di economia circolare e sistemi alimentari inclusivi, sia lavorando per il contrasto della povertà alimentare attraverso le reti QuBì diffuse sul territorio”.

Come negli altri Hub di Quartiere il modello logistico è elaborato dal Politecnico di Milano: “Lavoreremo insieme agli altri partner alla sperimentazione di un nuovo modello gestionale nel Gallaratese – aggiunge Marco Melacini, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Food Sustainability del Politecnicoe all’ottimizzazione degli hub già esistenti attraverso il coinvolgimento attivo delle imprese donatrici e il continuo monitoraggio dei processi e dei risultati conseguiti, per rispondere in maniera più efficace ai bisogni emergenti della popolazione urbana”.

Questa terza tappa rappresenta un ulteriore importante passo avanti per ridurre gli sprechi alimentari e per rispondere più da vicino ai bisogni crescenti della città e di coloro che si trovano in condizioni di fragilità – conclude Laura Ferrari, Presidente Gruppo Alimentazione Assolombarda –. Da quando è nato il progetto nel 2016, nell’ambito delle azioni definite nel protocollo ‘Zero Sprechi’, promosso insieme al Comune di Milano, al Politecnico di Milano e Fondazione Cariplo, sempre più imprese e realtà del territorio si sono dimostrate sensibili al tema, in ultima Fondazione Milan, aderendo a questa rete virtuosa. Solo insieme, facendo sistema, possiamo contribuire davvero a creare un nuovo modello economico, davvero sostenibile, di raccolta e redistribuzione del cibo per il contrasto alla povertà alimentare”.

Il MIP Politecnico di Milano arriva sui Navigli

Perfezionato l’acquisto di una nuova sede di circa 2.000 metri quadrati per la Graduate School of Business dell’ateneo milanese per accogliere nuovi studenti da tutto il mondo

Inaugurazione prevista entro i primi mesi del 2022

L’operazione da circa 10 milioni euro ha coinvolto MPS Leasing & Factoring (finanziamento), Carnelutti Law Firm (aspetti legali e fiscali), GVA Redilco (individuazione spazi) e Il Prisma (progettazione e realizzazione)

Il MIP Politecnico di Milano, la Graduate School of Business dell’ateneo milanese, cresce e sbarca sui Navigli, con una nuova sede di circa 2.000 metri quadrati nel cuore della città. Il nuovo campus, che sarà inaugurato entro i primi mesi del 2022, sorgerà su un’area tra Ripa di Porta Ticinese e il Naviglio Grande.

L’investimento nella nuova sede nasce dall’esigenza di accogliere il crescente numero di studenti, manager e professionisti che vedono nel MIP un punto di riferimento per l’alta formazione manageriale, garantita da un’offerta di eccellenza che comprende oltre 40 Master, tra cui 7 MBA ed Executive MBA, 200 programmi executive open e numerosi corsi di formazione progettati su misura per le aziende. Ad oggi sono più di 2.000 gli studenti di oltre 70 nazionalità che ogni anno frequentano il Campus principale della scuola nel quartiere Bovisa, sede che si inserisce in un contesto urbanistico in profonda trasformazione.

Il campus sui Navigli garantirà nuovi spazi di studio, lavoro e interazione per oltre 300 studenti e per i docenti e lo staff della scuola. Il nuovo campus si svilupperà su tre piani secondo una concezione architettonica innovativa e versatile: gli spazi interni sono stati studiati per favorire incontri e scambio di idee, per trasmettere un senso di collettività e per offrire ogni volta soluzioni differenti in base alle necessità.

“Questa operazione si inserisce in un progetto più ampio di campus distribuito sul territorio nazionale che ha già dato vita ad hub locali grazie alle partnership con il Consorzio Universus del Politecnico di Bari, con gli Istituti Filippin La Salle a Pieve del Grappa (TV) e con la John Cabot University a Roma” – ha dichiarato Vittorio Chiesa, Presidente del MIP Politecnico di Milano. “Il MIP continua a impegnarsi ogni giorno per formare studenti, manager e professionisti, contribuendo a generare un impatto positivo sulla società grazie all’innovazione, ed alle partnership con aziende, istituzioni e con il mondo delle università e delle business school”.

La vita nel nuovo campus si inserirà in una zona, quella di Ripa di Porta Ticinese, caratterizzata da un’atmosfera unica, che combina lo spirito della vecchia Milano a una vivace offerta culturale e spazi di verde urbano. Si tratta di aspetti distintivi perfettamente integrati nell’architettura della nuova struttura, che infatti evoca le atmosfere informali – dagli accenti industrial e underground – dei Navigli. Il campus avrà una componente digitale preponderante, in linea con la forte attenzione della business school per l’innovazione tecnologica. Infatti, anche grazie ad aule ideate nell’ottica di flessibilità spaziale, tecnologica e funzionale, gli studenti avranno accesso ad un’esperienza di apprendimento distintiva, capace di annullare le distanze e favorire le “connessioni” tra tutti i partecipanti.

“Si tratta di un passo storico e molto importante per il MIP. Con l’ampliamento sui Navigli i nostri studenti potranno presto vivere un’esperienza formativa d’eccellenza e allo stesso tempo immersa nel cuore della città, a pochi passi dal design district e da altri luoghi simbolo di Milano” – ha dichiarato Federico Frattini, Dean del MIP Politecnico di Milano. “Il centro nevralgico dell’attività continuerà a essere la storica sede della Bovisa: l’hub in Porta Ticinese sarà un elemento in più che potenzierà la nostra offerta per rispondere alle esigenze di un pubblico internazionale e multiculturale”.

L’acquisto dell’immobile da parte del MIP – grazie a un investimento di circa 10 milioni euro – è frutto di un’operazione che ha coinvolto MPS Leasing & Factoring per il finanziamento, Carnelutti Law Firm per gli aspetti legali e fiscali e GVA Redilco, in qualità di advisor per l’individuazione degli spazi e l’accompagnamento nelle diverse fasi. La due diligence tecnica, la progettazione e la realizzazione degli interventi per la riqualificazione dell’edificio, i cui lavori partiranno a settembre 2021, sono affidate a Il Prisma.

Poter sostenere la Business School del Politecnico di Milano, istituto accademico italiano d’eccellenza riconosciuto e accreditato al livello internazionale, rappresenta per Mps Leasing & Factoring una grande opportunità di contribuire alla crescita formativa di studenti e manager su temi di innovazione, imprenditorialità, gestione della tecnologia” – ha concluso Giovanni Maione, responsabile Direzione Leasing di MPS L&F. “Attraverso questo finanziamento, la Banca, da sempre attenta ai temi dell’innovazione tecnologica e del progresso, supporta la realizzazione di un polo di prestigio altamente digitalizzato, da offrire alle future generazioni, creando così valore per l’intera collettività”.

“Da anni collaboriamo con il MIP – Politecnico di Milano su svariati progetti e siamo molto orgogliosi di averli assistiti anche in questa importante operazione che consentirà di ampliare le prospettive della Business School formando sempre più talenti provenienti da ogni parte del mondo”- ha dichiarato Leonardo Spina, partner di Carnelutti Law Firm che ha coordinato il team dedicato all’operazione”.

Giuseppe Carone, Partner de Il Prisma, ha aggiunto: “Progettare la nuova sede del MIP ha significato per noi cercare di tradurre il Dna della Scuola in un luogo di commistione e di Community. Siamo partiti ponendoci la domanda <<In che modo una business school può supportare la crescita non solo professionale, ma anche personale e relazionale di un individuo?>>. La risposta è un hub, un laboratorio pensante e pulsante, ricco di stimoli e idee, di progetti concreti e relazioni autentiche. Un luogo dove ci si mette in gioco per reinventare il futuro – un futuro migliore per tutti”.

Premio di Laurea 2021: Save The Duck e la School of Management del Politecnico di Milano premiano la tesi più sostenibile

Save The Duck, il primo marchio di piumini 100% animal free, ha consegnato oggi nella sua seconda edizione il premio di laurea alla migliore tesi sul tema della sostenibilità nel settore fashion, dedicato agli studenti del Politecnico di Milano

 

Save The Duck, il primo marchio di piumini 100% animal free, in collaborazione con la Sustainable Luxury Academy della School of Management del Politecnico di Milano, ha consegnato oggi il premio di laurea dall’importo di 5.000 euro alla migliore tesi di uno studente o studentessa del Politecnico di Milano che abbia affrontato il tema della sostenibilità nel settore fashion. Ad aggiudicarsi il riconoscimento è stata Eleonora Coira con la tesi “Progettare la circolarità – Strategie progettuali per l’integrazione di modelli di circular economy nel sistema moda”: “un lavoro completo e approfondito – si legge nella motivazione – con diverse idee innovative per aumentare la sostenibilità e aiutare l’evoluzione nel settore moda verso un modello di economia circolare”.

Al premio hanno potuto candidarsi tutti coloro che hanno conseguito il titolo di laurea magistrale al Politecnico di Milano nel periodo aprile 2020 – aprile 2021, in tutti i corsi di studio, e con una votazione non inferiore a 100/110. La vincitrice si è focalizzata sui modelli di business e le scelte progettuali per migliorare l’impatto ecologico di un brand e dei suoi prodotti. Il progetto è incentrato in particolare su come sia possibile integrare nei processi di sviluppo di una collezione i principi di sostenibilità che tengono conto delle 3 P: Profit, Planet, People, individuando le strategie progettuali circolari a oggi percorribili e verificando nuovi approcci alla progettazione sostenibile.

Il riconoscimento è stato consegnato con una cerimonia digitale dalla giuria che ha valutato le tesi, insieme ad Alessandro Brun, direttore del Master in Global Luxury Management e department chief della Sustainable Luxury Academy della School of Management del Politecnico di Milano.

L’obiettivo del progetto promosso da Save The Duck è investire sul futuro delle giovani generazioni e sensibilizzarle ulteriormente su un tema cruciale per tutti: la sostenibilità a 360°. Lanciata nel 2012, l’azienda realizza capi privi di piume, pellami, pellicce e in generale materiali/tessuti di derivazione animale. Nel 2019 è stata la prima azienda fashion in Italia ad avere ottenuto la certificazione B Corp, che distingue le aziende che volontariamente rispettano i più alti standard di responsabilità e trasparenza in ambito sociale e ambientale. Una tematica che sta a cuore a Save The Duck fin dalla sua fondazione e che l’ha resa capofila ed esempio nell’avvicinare la moda alle questioni ambientali e sociali.

“È per noi di Save The Duck fondamentale investire nella formazione dei giovani, affinché arrivino preparati ad affrontare le sfide che li aspettano. Dare spazio alle loro visioni e alle loro proposte di approccio rigenerativo significa dare voce ai protagonisti di domani. Siamo molto contenti del percorso instaurato con il Politecnico di Milano che sicuramente ci vedrà impegnati anche l’anno prossimo con la terza edizione del premio di laurea. ” dichiara Nicolas Bargi, fondatore e CEO di Save the Duck.

“Alla School of Management del Politecnico di Milano siamo convinti di poter contribuire a realizzare un futuro più sostenibile – gli fa eco Alessandro Brun, a capo della Sustainable Luxury Academy e Direttore del Master in Global Luxury Management del Politecnico di MilanoConsapevoli che ‘non esiste un pianeta B’, vogliamo che ogni settore industriale diventi ogni giorno più eco-compatibile, in particolare il fashion-luxury, e in questo cammino siamo grati a Save The Duck per aver finanziato, per il secondo anno, un premio di laurea alla miglior tesi sulla moda sostenibile. I 17 lavori candidati testimoniano che i nostri studenti hanno idee innovative e concrete in grado di impattare sulla società, la tesi vincitrice ad esempio propone un quadro completo di metodologie che i Fashion designer possono applicare per ridurre gli sprechi, adottando un’ottica di prodotti circolari. Il concetto che sta alla base della ‘moda sostenibile’ è una vera rivoluzione: solamente riscrivendo i modelli di business e le pratiche produttive e gestionali si potranno ottenere risultati significativi”.

Oltre l’evento sportivo: come ripensare stadi e palazzetti

Le infrastrutture non possono essere più concepite esclusivamente come teatri di gesta sportive, ma come elementi attivi all’interno di un tessuto sociale, economico e culturale.

Lo spiega Emilio Faroldi, direttore del Master in progettazione e gestione dello sport

Non solo palcoscenici di memorabili imprese atletiche, ma anche luoghi in grado di valorizzare il contesto in cui sorgono, con ricadute positive a livello sociale, economico e culturale. È il futuro, e in certi casi il presente, delle infrastrutture sportive. «Ma lo sport oggi non è soltanto la grande infrastruttura o il monumento dell’evento agonistico d’eccellenza: è tutto ciò che forma caratterialmente e fisicamente i ragazzi. Per questo la cultura dello sport è fondamentale. E gestire lo sport è un lavoro molto complesso», spiega il professor Emilio Faroldi, direttore del Master in progettazione e gestione dello sport e prorettore del Politecnico di Milano.

Ma che cosa significa, in concreto, gestire lo sport?

Prima la gestione, poi la progettazione

«Significa affrontare la gestione degli impianti non solo dal punto di vista tecnico, che comunque è fondamentale, ma anche da quello di processo», spiega Faroldi. «In altre parole, un manager oggi dovrebbe essere in grado di incorporare fin da subito nei temi progettuali gli aspetti di natura gestionale, cercando di anticipare e prevenire i problemi».

Pensiamo ai grandi eventi, come i Giochi olimpici o le competizioni calcistiche maggiori, come Mondiali e Europei. «Nella maggior parte dei casi, la realizzazione di infrastrutture sportive si traduce, subito dopo la manifestazione, in un abbandono della stessa. A volte già poche settimane dopo l’ultima gara. Per ovviare a questo problema bisogna cominciare a concepire lo sport non come evento, ma come elemento ordinario. Bisogna guardare oltre, al futuro», spiega ancora il professor Faroldi.

Tra emozione, esperienza e condivisione

Chi oggi si confronta con la gestione dello sport, poi, non può prescindere nemmeno dalle sue modalità di fruizione, anche e soprattutto digitali. «Il primo aspetto è legato alla crescita degli eSport. In Asia già esistono palazzetti che ospitano competizioni di gaming, e molte società calcistiche hanno squadre di videogiocatori. Il secondo aspetto riguarda invece il modo in cui viviamo gli eventi. La condivisione dell’esperienza sui social è uno degli aspetti che spinge le persone a vivere quello stesso momento dal vivo. Vale per le nuove generazioni in particolare, ma non solo». L’infrastruttura sportiva diventa così spazio di condivisione di un vissuto a cui sono inevitabilmente legate le emozioni. «Non ci affezioniamo all’aspetto di una struttura, ma alle emozioni che abbiamo provato al suo interno. Di uno stadio abbiamo a cuore il ricordo di una vittoria sofferta, o di una serata legata a un concerto. È un parametro che non va affatto messo in secondo piano, quando parliamo di gestione delle infrastrutture sportive».

La competitività esige competenza

Questi sono solo alcuni degli aspetti che mostrano la complessità e la rilevanza strategica dello sport e delle sue strutture, e che quindi richiedono la formazione di figure professionali consapevoli delle numerose implicazioni legate a quest’ambito. Il Master in progettazione e gestione dello sport, erogato dal Politecnico di Milano in collaborazione con MIP, ha proprio questo obiettivo: «Lo sport italiano non può più permettersi un approccio empirico. È un errore lasciare che solo gli sportivi entrino nel management dello sport. Noi ci rivolgiamo invece sia a figure con una formazione tecnica sia a chi proviene da altri settori come l’economia, la giurisprudenza o il design», chiarisce Faroldi. «Gli sbocchi lavorativi sono molteplici. Pensiamo allo Stadium operations manager o ai Project manager di infrastrutture per lo sport e ai Facility project manager che si dedicano allo sport inteso come veicolo di inclusione sociale. Figure che diventano fondamentali in un contesto globale sempre più competitivo, e a cui i club devono guardare, se vogliono creare strutture in grado di apportare benefici economici non limitati ai singoli eventi sportivi».

 

Audit interno: riconoscimento per i professori Arena e Azzone

Un articolo dei professori Arena e Azzone sul tema “audit interno” è tra i più citati al mondo.

 

L’Accounting, Auditing & Accountability Journal ha pubblicato il paper “Mapping of internal audit research: A post-Enron structured literature review”, che esamina come la ricerca sul tema dell’audit si è sviluppata dal 2005 fino ad oggi e quali lavori hanno maggiormente influenzato il dibattito in questo campo.

L’articolo dei proff. Marika Arena e Giovanni Azzone del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, “Identifying organizational drivers of internal audit effectiveness”, pubblicato nel 2009, è risultato uno dei più rilevanti: infatti, è terzo al mondo per numero totale di citazioni e secondo per numero medio di citazioni per anno.
Si tratta di uno studio che analizza i dati di 153 aziende italiane, mostrando quali fattori influiscono sull’efficacia dell’audit interno e fornendo una prova empirica di quali scelte organizzative potrebbero contribuire ad aumentarla.

Lo studio dei prof. Arena e Azzone

Arena, M. and Azzone, G. (2009),
Identifying Organizational Drivers of Internal Audit Effectiveness,
International Journal of Auditing, 13: 43-60.

Lo studio

 

L’analisi sul settore dell’audit interno post-Enron

Kotb, A., Elbardan, H. and Halabi, H. (2020),
Mapping of internal audit research: a post-Enron structured literature review,
Accounting, Auditing & Accountability Journal, Vol. 33 No. 8, pp. 1969-1996.

Lo studio

Digital DBI: un viaggio nelle eccellenze italiane (a distanza)

Dal luxury all’industria 4.0: le imprese italiane si raccontano agli studenti stranieri attraverso gli strumenti digitali. «Ma non si tratta di semplici lezioni», come spiega il professor Tommaso Agasisti, che ha curato l’iniziativa

Replicare in digitale un’esperienza concepita per essere fruita in prima persona. È la sfida delle Digital DBI, esperienze rivolte agli studenti delle università partner del MIP Politecnico di Milano, che portano gli alunni stranieri a confrontarsi con la realtà del business italiano. «Le DBI, ossia Doing Business in Italy, sono delle visite di studio di tre, cinque, dieci giorni presso aziende e organizzazioni. La pandemia ci ha costretto a ripensare il modello di queste iniziative per continuare a garantire agli iscritti la possibilità di adottare uno sguardo internazionale nel proprio percorso formativo, portandoli a contatto con la realtà economico-sociale del nostro Paese», racconta il professor Tommaso Agasisti, Associate Dean for Internationalization & Quality.

Molto più di un corso online

L’impegno del MIP nello sviluppo di modelli di formazione a distanza è di gran lunga precedente all’emergenza Covid, ma in questo caso la sfida ha richiesto un approccio diverso. «Un conto è un corso online», precisa Agasisti, «un altro è replicare un’esperienza che include eventi virtuali, interviste con uomini d’azienda, lavori di gruppo e business game. È la prima volta che uniamo questi elementi in un formato diverso dal tradizionale corso online».

Le DBI, infatti, si contraddistinguono per un carattere di “immersione” profonda nel contesto locale. «Questa è stata la sfida più grande: replicare a distanza questa sensazione. Lavorando con i nostri partner siamo riusciti a sviluppare formati digitali di qualità in grado di raccontare a fondo le realtà delle imprese coinvolte, salvaguardando la forma dell’incontro e scongiurando così il rischio di una fruizione passiva dei contenuti».

In questo modo la Digital DBI crea una nuova opportunità: le company visit, infatti, finora erano possibili solo in presenza, ma l’impiego del digitale, e l’utilizzo di contenuti sviluppati appositamente per sfruttarne a pieno le possibilità, consente anche a chi non può partecipare dal vivo di “immergersi” completamente nella realtà aziendale, replicando l’esperienza live.

Un formato che guarda al futuro

Il nuovo formato apre a nuovi sviluppi per il prossimo futuro. «Posso immaginare un’evoluzione naturale che ci porterà a combinare esperienze digitali più brevi rivolte a un numero di studenti più ampio, che magari non ha la possibilità di effettuare una visita “on campus”. E penso che, al contempo, questi appuntamenti potrebbero costituire anche degli incontri preliminari per chi è intenzionato a venire in Italia in un periodo successivo – spiega Agasisti -. L’idea è che le study visit siano progettate per vedere come si traducono, nel concreto, i contenuti studiati nel corso delle lezioni. Costruiamo i programmi sulla base di un fitto dialogo con le università partner, così siamo in grado di comprendere le esigenze formative e possiamo disegnare iniziative non standardizzate, ma legate a specifiche richieste. L’Italia, con le sue eccellenze, è vista come un’ottima opzione e poterla “visitare” anche senza spostarsi fisicamente è un’opportunità in più».

Le eccellenze italiane per gli studenti internazionali

Tra le prime Digital DBI troviamo “The secrets of luxury brand management” e “The new frontiers of industry 4.0”, due ambiti in cui l’Italia rappresenta l’eccellenza. «L’expertise del made in Italy rappresenta un elemento di grande attrattività anche nei confronti delle business school e per questo abbiamo intenzione di concentrare la nostra attenzione verso tutto quello che coinvolge tech, innovazione e design. Ad esempio, abbiamo in programma Digital DBI sul fintech, sulla gestione dell’innovazione e sulla transizione digitale».

In conclusione, che cosa porteranno con sé gli studenti, in termini formativi, dopo questo percorso? «Innanzitutto un modo diverso di studiare, perché si entra in contatto con un mondo differente da quello frequentato fino a quel momento. Secondo, la possibilità di ampliare le proprie conoscenze grazie all’incontro con persone, storie e imprese: è l’occasione per capire come mettere in pratica i concetti appresi durante lo studio. Terzo, si può sviluppare una nuova modalità di acquisizione dei contenuti attraverso un utilizzo intelligente del digitale».