«Tra il MIP e la Croce Rossa: studio e lavoro per aiutare il Libano»

Christian Lenz è iscritto all’Emba i-Flex del MIP Politecnico di Milano. Un corso che riesce a seguire da Beirut, dove guida una squadra di ingegneri che si occupa di salute pubblica. Qui racconta le sfide del suo lavoro e la conciliazione dello studio con un ruolo così impegnativo

 

Lavorare per la Croce Rossa Internazionale (Icrc) in un Paese come il Libano e, al contempo, frequentare un master presso il MIP Politecnico di Milano. È quello che fa Christian Lenz, Deputy water and habitat coordinator per l’organizzazione e studente del corso iFlex 2019-2021. Un doppio impegno che lascia poco spazio ad altro, senza dubbio: «La pressione, sia nello studio sia nel lavoro, cambia nel corso del tempo e può portare a livelli significativi di stress», spiega. «Ma non mancano i benefici. Grazie al master, sono più consapevole dei problemi chiave quando redigo un budget, e ho sviluppato un buon background che mi permette di capire le dinamiche della crisi economica del Libano. Questo ha reso il mio lavoro più soddisfacente, più solido da un punto di vista tecnico e anche più efficiente».

 

L’esplosione di Beirut

Christian Lenz lavora per la Icrc da oltre quattro anni. Attualmente, è impiegato presso il dipartimento che si occupa di salute pubblica: «Guido una squadra di ingegneri. Uno degli aspetti chiave è l’integrazione di queste attività nello scenario più ampio di ciò che fa la Icrc, con l’obiettivo di massimizzare l’impatto umanitario». L’evento drammatico verificatosi nella capitale libanese lo scorso 4 agosto (l’esplosione di un deposito presso il porto, che ha provocato l’uccisione di oltre 200 persone e il ferimento di 7mila, ndr) ha richiesto un grande sforzo a Lenz e alla Icrc: «La Croce Rossa è un’organizzazione abituata a operare in contesti emergenziali, così siamo stati in grado di rispondere immediatamente ai bisogni più urgenti. Il mattino successivo all’esplosione, i nostri ingegneri hanno lavorato fianco a fianco con le autorità locali, ripristinando le riserve idriche per 120 mila persone entro la fine del pomeriggio», racconta. «Adesso continuiamo a rispondere ai bisogni urgenti fornendo medicinali, donazioni di denaro alle famiglie maggiormente colpite e sostegno psicologico alle persone coinvolte».

 

Sfide, ostacoli, urgenze: un lavoro diverso

Il lavoro di Lenz non è quindi un lavoro come tutti gli altri, a causa del contesto e delle situazioni, quasi sempre difficili, in cui si opera: «La Croce Rossa è presente in situazioni di conflitti armati e violenza. Questo accresce il livello di sfida rispetto ai “normali” ambienti lavorativi. Oltre agli ostacoli tecnici, dobbiamo affrontare altre sfide: comprendere il contesto in cui lavoriamo, identificare i bisogni umanitari più pressanti e definire delle priorità, ma anche prenderci cura del nostro staff e guidarlo in condizioni difficili. In situazioni di urgenza, siamo chiamati a prendere decisioni basate su informazioni limitate per poter sviluppare rapidamente soluzioni efficienti sia in termini di tempo che di costi. Può essere molto stressante. In alcuni contesti, le costrizioni logistiche possono rallentare significativamente il nostro lavoro».

 

L’importanza delle soft skill in un contesto umanitario

Ma se queste sfide sono eminentemente tecniche, è anche vero che non sarebbe possibile affrontarle senza delle ottime soft skill. Competenze che Lenz sta sviluppando anche grazie all’Emba che frequenta: «Sono le soft skill a permetterti di realizzare un lavoro di qualità, anche quando è di natura tecnica. Nel lavoro umanitario probabilmente sono ancora più importanti: ci troviamo di continuo in contesti nuovi e sconosciuti. Lavoriamo in team multiculturali, i cui membri provengono da decine di Paesi. È importantissimo sapersi approcciare con una mentalità aperta, rispettosa, conservando sempre un’attitudine positiva. Per orientarsi e sviluppare delle strategie significative è fondamentale ascoltare gli altri, che si tratti di colleghi o di persone colpite dalla violenza e dai conflitti armati».

 

i-Flex: i vantaggi di un formato flessibile

In un contesto simile, è il formato i-Flex a permettere a Lenz di frequentare l’Emba: «È erogato quasi del tutto digitalmente. Provenendo da un approccio tradizionale, all’inizio mi spaventava. Ma durante la settimana iniziale, svolta in presenza, siamo stati introdotti ai concetti di didattica e collaborazione online. Mi sono adattato e ho imparato in fretta che la didattica e la collaborazione online rappresentano il futuro. Le interazioni con la mia classe sono piacevoli. Raccomando l’iFlex a chiunque sia interessato a un Emba internazionale di alta qualità e che richieda flessibilità sia in termini di tempo che dal punto di vista geografico».

 

Financial Times Global Executive MBA 2020: La School of Management del Politecnico di Milano è tra le migliori al mondo.

L’Executive MBA del MIP, la Graduate School of Business parte della School of Management, entra per la seconda volta nella sua storia nella classifica internazionale dedicata ai migliori programmi, dove si distingue per le proprie attività di CSR.

 

MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business entra per la seconda volta nella sua storia nella prestigiosa classifica internazionale Financial Times Executive MBA 2020, posizionandosi al centesimo posto. Dopo il novantaquattresimo posto ottenuto nel 2010, la Business School del Politecnico di Milano è di nuovo protagonista tra le scuole premiate per la qualità dell’offerta didattica dei propri corsi Executive MBA.

 

Nel dettaglio, l’Executive MBA del MIP si posiziona al trentacinquesimo posto per ciò che concerne il focus e l’attenzione ai temi della sostenibilità, al settantunesimo per l’internazionalità del programma e all’ottantesimo in base al parametro che prende in considerazione le attività di ricerca della School of Management. Ottimi risultati si registrano anche per la presenza di donne sia all’interno del corpo docenti (female faculty, 41%), che nell’advisory board della School of Management (women on board, 50%).

 

Rispetto alla classifica Europea del 2019, migliorano ulteriormente anche i parametri che considerano sia lo stipendio medio a tre anni dalla graduation, con un aumento del 9% rispetto al parametro del 2019, che l’incremento delle retribuzioni dopo la graduation, dal +43% del 2019 al +49% del 2020.

 

Nel complesso, la School of Management figura tra le uniche tre Università Tecniche con una Business School o un Dipartimento di Management presenti in classifica, preceduta da Imperial College (UK) e Aalto University (Finlandia).

 

Vittorio Chiesa e Federico Frattini, rispettivamente Presidente e Dean del MIP Politecnico di Milano: “E’ per noi un piacere vedere riconosciuta la qualità dei nostri Executive MBA da un Ranking prestigioso come quelle redatto dal Financial Times. Essere annoverati tra i migliori 100 programmi al mondo, ancora una volta a distanza di dieci anni, rappresenta per noi un ulteriore stimolo per continuare a lavorare costantemente sulla qualità di tutta la nostra offerta formativa

 

Clicca qui per consultare il Financial Times Executive MBA 2020 Ranking completo

Expo Dubai 2020: un World Expo per ripartire

Lucia Tajoli
Professoressa Ordinaria di International Economics, School of Management, Politecnico di Milano

Lucio Lamberti
Professore ordinario di Multichannel Customer Strategy, School of Management, Politecnico di Milano
Coordinatore del Laboratorio PHEEL – Physiology, Emotion and Experience Lab

 

Expo Dubai 2020, che si terrà tra l’ottobre 2021 e marzo 2022 dopo il posticipo di un anno a causa della pandemia, sarà – presumibilmente e auspicabilmente – uno snodo fondamentale del post-Covid. I World Expo sono considerati dei mega eventi, paragonabili per impatto solo ai campionati del mondo di calcio e alle Olimpiadi per esposizione mediatica, numero di partecipanti e impatti sull’economia ospitante, ma, a differenza dei mega-eventi sportivi, hanno una durata maggiore (6 mesi) e, potenzialmente, hanno una maggiore influenza sull’economia anche dei paesi partecipanti.

Le ultime due edizioni del World Expo hanno avuto delle connotazioni particolari. Quella del 2010 a Shanghai è stata la più grande della storia per partecipanti, con circa 84 milioni di visitatori. Il tema trattato era la qualità della vita nelle città (“Better City, Better Life”), ma, non casualmente insieme alle Olimpiadi di Pechino del 2008, rappresentava anche la dimostrazione della Cina al Mondo della sua raggiunta prominenza socio-economica. L’Expo del 2015, tenutosi a Milano e incentrato sul tema della capacità di fornire cibo di qualità all’umanità (“Feeding the planet, Energy for life”), ha attirato circa 20 milioni di visitatori e ha rappresentato, in un contesto economico nazionale stagnante e pur in mezzo a notevoli complessità organizzative, un motore per quello che molti analisti internazionali hanno considerato il “Rinascimento” milanese dell’ultimo lustro.
Il tema di Expo Dubai 2020 è “Connecting Minds, Creating the future”; si tratta di un evento che si focalizza sul ruolo dell’interconnessione come chiave per lo sviluppo sostenibile.

192 Paesi hanno aderito, e tra questi l’Italia, che parteciperà con un padiglione dal tema “La Bellezza Unisce le Persone”.
Il Politecnico di Milano e la sua School of Management sono partner del commissariato del Ministero degli Esteri nazionale che sta organizzando la partecipazione italiana ai Expo Dubai 2020, e ha sviluppato, a partire dal 2018, diversi studi volti a quali-quantificare i potenziali impatti di tale presenza. Infatti, al di là dell’ovvio bisogno di giustificare l’investimento di risorse pubbliche nella realizzazione del Padiglione, la misurazione dei ritorni (economici e non economici) è resa particolarmente rilevante dalle specificità geopolitiche di questo evento: la posizione geografica di Dubai, fulcro dell’area ME.Na.Sa. (Middle East, North Africa e South Asia) e snodo logistico e dei corridoi della Nuova Via della Seta rende questo Expo un punto di contatto fondamentale tra l’Europa e quelle che sono le aree del mondo con i maggiori tassi di crescita economica e di crescita della classe media.

Non a caso, l’evento, nelle previsioni iniziali avrebbe dovuto attrarre una vastissima maggioranza di visitatori non locali, e prevede una partecipazione convinta e rilevante in termini di progettualità tanto di Paesi del Medio Oriente quanto di economie emergenti come quelle dell’India e dell’asia centro-meridionale. Si tratta di un’occasione di grande rilevanza per affrontare il tema dello sviluppo sostenibile in queste aree del mondo, ad esempio con riferimento alle Infrastrutture e ai trasporti, alla valorizzazione dei beni culturali, alle scienze della vita e all’aerospazio.

Tre principali ordini di considerazioni giustificano la grande attenzione che nel mondo gli operatori economici stanno rivolgendo all’evento.
In primo luogo, essendo il primo World Expo tenuto in Medio Oriente, Expo Dubai 2020 rappresenta un’occasione di consolidamento di rapporti commerciali e di rappresentanza a vari livelli tra quest’area del mondo, il mondo arabo, il Nord Africa e l’Europa.
In secondo luogo, si tratta di un Expo a forte connotazione di ricerca (ancor di più considerando che la pandemia potrebbe ridurre il numero di visitatori “reali” e accrescere il connotato di interconnessione virtuale): archiviata ormai da un paio di edizioni la stagione degli Expo interpretati come mera “vetrina” degli Stati partecipanti, la logica di partecipazione di molti dei Paesi coinvolti, tra cui l’Italia, è quella di creare in seno a Expo 2020 un vero e proprio hub di competenze per sviluppare piattaforme di collaborazione stabili, da perpetuare anche dopo l’evento.
In terzo luogo questo Expo rappresenta uno dei primi mega eventi, insieme alle Olimpiadi di Tokio, del post-pandemia, e quindi avrà il duplice ruolo di mostrare il possibile profilo della nuova normalità in termini di eventi, flussi di persone e interconnessioni, e dall’altro di contribuire alla ripresa economica dopo le interruzioni legate alla pandemia.

La misurazione delle ricadute della partecipazione a un mega evento con World Expo sull’Organizzatore, e ancora di più sui Paesi che partecipano senza ospitarlo, è un tema su cui la letteratura scientifica non ha ancora dato risposte definitive: con riferimento ai giochi olimpici, mentre ci sono indicazioni qualitative circa il risultato espansivo sul paese ospitante, ci sono anche molte voci critiche che evidenziano come queste iniziative tendono, a livello finanziario diretto (differenza tra investimenti e biglietti, diritti televisivi, sponsor, ecc.), a non ripagarsi.
E’ però evidente, da un lato, che gli effetti finanziari diretti sono solo un aspetto delle ricadute indotte (vi sono impatti turistici, di advertising equivalente del territorio, ecc.) e, dall’altro, che i World Expo hanno un profilo di indotto differente dai Giochi Olimpici, in ragione del fatto che dura 6 mesi e quindi movimenta un flusso di visitatori molto più elevato, e poiché la partecipazione dei Paesi ospitanti e organizzatori è orientata a obiettivi precipuamente di sviluppo economico e diplomatico.

Con riferimento ai Paesi partecipanti, in particolare, è possibile ricondurre gli ambiti di ricaduta a un impatto potenziale sull’export, in quanto la partecipazione è un momento di promozione delle proprie eccellenze e di organizzazione di missioni diplomatiche e commerciali. Vi è poi, e nella visione ad hub di Expo Dubai 2020 gioca un ruolo rilevante, la possibilità di favorire l’incontro tra domanda e offerta di capitali, ovvero tra iniziative imprenditoriali innovative e finanziatori, generando flussi in entrata e in uscita di investimenti diretti esteri. In terzo luogo, la partecipazione con un padiglione a un Expo è connessa anche alla promozione delle specificità culturali di un territorio (e la connotazione incentrata sulla bellezza e sulle tecnologie per i beni culturali della partecipazione italiana rende questo tema particolarmente centrale) e quindi tende a essere un momento di promozione turistica, con i potenziali effetti economici espansivi che ciò comporta. Infine, meno facilmente qualificabile ma certamente non per questo meno importante, la vicinanza diplomatica e l’esposizione a piattaforme di collaborazione scientifica rappresentano sempre più un fondamentale obiettivo della partecipazione a un Expo. L’analisi svolta nel 2018 aveva evidenziato come una stima cautelativa delle ricadute espansive legate a questi fenomeni per l’Italia potesse raggiungere il valore di 1,7 miliardi di Euro all’anno almeno per i 3-4 anni successivi all’evento.

E’ evidente che queste stime devono essere, se non riviste, riconsiderate alla luce della pandemia. Però, paradossalmente, al netto degli eventuali ulteriori freni all’evento legati a fenomeni in questo momento imprevedibili di continuazione dello stato di emergenza, il bisogno delle economie mondiali di recuperare le posizioni perdute negli ultimi mesi, e la possibilità di sperimentare nuove forme – più digitali e meno fisiche – di presidio di iniziative di promozione internazionale, potrebbero avere addirittura un effetto ancora più espansivo. Quello che è certo, è che Expo Dubai 2020 può avere un valore simbolico di desiderio di riscatto, e, al contempo, di tappa di ulteriore consolidamento del rapporto tra Europa e Asia. Analizzarne gli impatti nel breve, nel medio e nel lungo periodo è una sfida affascinante e che va raccolta per rendere queste occasioni sempre più centrali nel processo di sviluppo delle relazioni economiche (e non solo) internazionali.

Costruire una roadmap per il futuro del manifatturiero

Intervista a Marco Taisch
Professore di Advanced and Sustainable Manufacturing Systems, and Operations Management, School of Management, Politecnico di Milano
Presidente scientifico del World Manufacturing Foundation
Presidente del MADE Competence Center per l’Industria 4.0

 

Ci racconti il percorso del World Manufacturing Forum: perché è nato e quali sono i suoi obiettivi?

A partire dal 2011, quando si tenne la prima edizione, il World Manufacturing Forum viene ogni anno organizzato dal Politecnico di Milano con il supporto economico della Commissione Europea. Nel 2018, grazie a Confindustria Lombardia e Regione Lombardia, al fine di dare maggiore stabilità e garantire un ampliamento delle attività abbiamo creato la World Manufacturing Foundation, che oltre a organizzare annualmente l’evento annuale, ospita una serie di altre iniziative.
La World Manufacturing Foundation, creata come organizzazione internazionale aperta a cui partecipano governi regionali, aziende, associazioni di categoria, industriali e non, ha quindi come obiettivo strategico quello di riportare la centralità del settore manifatturiero nelle agende politiche dei vari paesi.
Gli strumenti principali messi in campo sono il World Manufacturing Forum, evento che lo scorso anno ha attirato circa 1500 persone in tre giorni, e il World Manufacturing Report, un white paper annuale che, attraverso un processo di consultazione con esperti del mondo delle imprese, dell’accademia e policy makers, raccoglie pareri e restituisce visioni per il futuro su un tema specifico, rilevante per il manifatturiero, suggerendo delle key reccomendations. Nella prima edizione, nel 2018, abbiamo affrontato il tema del futuro del manifatturiero come leva di creazione del benessere economico e sociale; nel secondo, l’anno scorso, ci siamo focalizzati sulle skills fondamentali necessarie al settore. E quest’anno, nell’evento che si svolgerà l’11 e il 12 novembre, parleremo di intelligenza artificiale.

 

L’edizione 2020 del Forum ha un sapore particolare, sapore di distanza, ma anche di ripresa post Covid. Che edizione sarà?

Per la necessità di distanziamento cambierà il formato dell’evento: si svolgerà presso la sede tradizionale di Villa Erba di Cernobbio, con trasmissione in streaming worldwide.
Ci siamo chiesti, come tutti, quale sarà l’impatto del Covid sul settore manifatturiero a livello regionale e mondiale, e per darci una risposta abbiamo creato il progetto “Back to the Future” (la citazione è voluta), novità di quest’anno.
Abbiamo “scomposto” la complessità della questione in 14 sottotemi e creato altrettanti gruppi di lavoro, ciascuno coordinato da un esperto (i.e. manager, rappresentanti del mondo associativo, policy makers, accademici), a cui abbiamo chiesto di discutere e analizzare l’impatto del Covid sul proprio tema di competenza e dare delle raccomandazioni.
Abbiamo già condiviso online, con il pubblico, diversi draft di documenti e video, prodotti da questi workshop, i cui risultati saranno presentati il primo giorno del Forum, l’11 novembre, mentre il 12 novembre presenteremo il World Manufacturing Report.
Se posso poi dare un’anticipazione, l’anno prossimo parleremo di digital transformation come abilitatore della sostenibilità del manifatturiero, mettendo insieme quindi i due trend più importanti del settore.

 

Veniamo dall’epopea di Industria 4.0. In che modo la digitalizzazione nel mondo delle fabbriche può essere un vantaggio competitivo per rilanciare la produzione e ripartire più velocemente?

Prima della pandemia era “normale” affermare che la digitalizzazione fosse un vantaggio competitivo, ed è il modo in cui abbiamo connotato l’Industria 4.0. Ora abbiamo cambiato statement: non è più un vantaggio, bensì un prerequisito di business.
Durante il lockdown abbiamo visto come la digitalizzazione abbia garantito la business continuity per molte imprese che avevano già investito in questa direzione. Per le altre, purtroppo, non c’è stato nulla da fare.
E’ stato un modo tragico di rendersene conto, questo è certo, che ha colpito quelle imprese che, per ignoranza o per inerzia, non avevano prestato attenzione a questo trend tecnologico.
Nel nostro paese in particolare, che era più lento nell’adozione di nuove tecnologie, la pandemia ha accelerato la presa di coscienza sull’importanza della digitalizzazione.

 

Imprese grandi e imprese piccole: chi è favorito in questa quarta rivoluzione industriale?

Le grandi imprese hanno cominciato a digitalizzarsi già da tempo, anche prima del “Piano nazionale Industria 4.0” del 2017. Le piccole e medie imprese erano invece in ritardo. E’ stato grazie al piano, e agli incentivi fiscali previsti che sono venute a conoscenza di questa opportunità di modernizzazione. Paradossalmente, è stato parlando di incentivi fiscali che si è potuto fare formazione anche tecnologica, e questo ha avuto un grande impatto nell’accrescimento culturale del nostro paese su questi temi.
E’ molto importante che il piano nazionale abbia una continuità temporale per permettere alle imprese, specie alle piccole, una programmazione e la costruzione di un percorso di formazione e di accrescimento di know-how. E oggi, per farlo, hanno diversi strumenti a loro disposizione, come i Digital Innovation Hub, e come soprattutto i Competence Center. Su quest’ultimo strumento il Politecnico di Milano si è messo in prima fila creando MADE, un centro di competenza che raccogliendo le competenze di più dipartimenti coordina i lavori insieme a 44 altri partner provenienti dal mondo accademico e industriale.

 

Quali sono, a suo avviso, le 3 parole chiave sull’evoluzione della trasformazione digitale nelle fabbriche nei prossimi 6 mesi?

Prima di tutto “servitizzazione”, ossia lo sviluppo di nuovi modelli di business che si stanno creando grazie alle nuove attività digitali svolte nelle industrie da remoto.
E quindi la seconda, “remoto” o, se vogliamo “industrial smart working”.
Infine “resilienza”, intesa come capacità di adattamento, riconfigurabilità e flessibilità della fabbrica e della supply chain.

Progettare l’innovazione: l’esperienza di IDeaLs – Innovation and Design as Leadership

Il mondo della gestione dell’innovazione è in continuo cambiamento, e molteplici imprese in tutto il mondo sono alla ricerca di nuovi modelli e metodologie a supporto dello sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Con l’avvento di tecnologie digitali quali anche l’Intelligenza Artificiale, il ruolo delle persone nei processi di innovazione è sempre più in discussione.

IDeaLs nasce per esplorare come le aziende possano realizzare prodotti e servizi innovativi attraverso attività di co-Design e forme di Leadership diffusa.

Fondata dal Politecnico di Milano e dal Center for Creative Leadership, IDeaLs è una piattaforma di ricerca che unisce l’ambito accademico e professionale per scoprire nuovi metodi per coinvolgere le persone in attività di progettazione collaborativa per fare sì che l’innovazione accada.

Negli ultimi due anni, IDeaLs ha collaborato con nove organizzazioni internazionali attive in diversi settori, dai servizi di pubblica utilità ai fornitori di servizi logistici, organizzazioni sanitarie e abbigliamento sportivo.

Per ogni organizzazione che aderisce alla piattaforma, un team centrale di 2-3 manager pone una sfida di innovazione al team di ricerca. Tramite un progetto della durata approssimativa di 6 mesi, ogni sfida viene analizzata e più workshop eseguiti con l’organizzazione partner. Alla fine del periodo, i risultati della ricerca e l’impatto nell’organizzazione vengono condivisi tra tutti i partner in un evento finale collettivo.

In linea con le richieste mosse dai manager, IDeaLs mira a sviluppare nuovi strumenti e metodologie a supporto delle organizzazioni durante i processi di trasformazione organizzativa. Negli ultimi anni, IDeaLs ha sviluppato un’esperienza di “creazione di storie“: è stata organizzata una serie di workshop in cui i partecipanti hanno progettato la propria storia di trasformazione su briefing da parte dei manager, una roadmap per il cambiamento sia individuale che collettivo. Questa esperienza ha avuto un effetto positivo su tutte le organizzazioni partner: in primo luogo, ogni partecipante si è impegnato in tre azioni concrete da compiere, risultando in media in 120 passi autonomi verso la destinazione delineata dai manager. In secondo luogo, i workshop hanno aumentato l’engagement verso l’innovazione, che è stato costantemente monitorato dal team di ricerca.

In definitiva, IDeaLs rappresenta una comunità di “leader dell’innovazione“, che discutono argomenti rilevanti su tematiche di leadership e innovazione, oltre a conoscere i casi di studio delle altre aziende. Vengono organizzati tre eventi annuali in cui i membri discutono le loro intuizioni, condividono storie di successo e discutono gli approcci di ciascuna organizzazione all’innovazione.

In qualità di fondatore della piattaforma, la School of Management contribuisce sia allo sviluppo dei progetti presso i partner che alle attività di ricerca.

In primo luogo, le attività sono legate alla progettazione di nuovi metodi e strumenti per favorire la collaborazione tra individui in un contesto innovativo. Inoltre, la piattaforma mira a dare un contributo metodologico, in termini di sviluppo di strumenti di misurazione che consentano di valutare la disponibilità strategica di un’organizzazione a perseguire una direzione innovativa.

Dal punto di vista accademico, il team é coinvolto nella progettazione delle direzioni di ricerca e sta attualmente sviluppando tre programmi di dottorato relativi alla piattaforma. La School of Management è inoltre responsabile della diffusione delle conoscenze acquisite attraverso un booklet annuale che descrive i progetti svolti in collaborazione con i partner, presentando inoltre i risultati teorici a conferenze internazionali e pubblicando gli stessi su riviste accademiche.

Quando si tratta di noi come individui, siamo spesso sopraffatti dalle innovazioni e sappiamo molto bene che il problema va ben oltre il processo che applichiamo per realizzarle. Il mondo dell’innovazione era così concentrato sulla ricerca del processo di innovazione perfetto, ma ha dimenticato le persone che lo gestiscono“.[1] IDeaLs mira a riportare la persona al centro, come motore di innovazione organizzativa.

Il team di ricerca
http://www.ideals.polimi.it/
Direttori Scientifici: prof. Roberto Verganti; Prof. Tommaso Buganza; Joseph Press, Ph.D.
Team di ricerca: Paola Bellis; Silvia Magnanini; Daniel Trabucchi, Ph.D.; Federico P. Zasa

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[1] Fonte: IDeaLs Booklet 2019

Una nuova era per le partnership accademiche: l’esperienza del Politecnico di Milano in Cina

Intervista a Giuliano Noci
Professore di Strategy and Marketing e Prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano

La Joint School of Design and Innovation Centre di Xi’An, inaugurata nel 2019 in collaborazione con Xi’an Jiaotong University (XJTU), è la prima sede fisica del Politecnico di Milano al di fuori dei confini nazionali. Una scelta non convenzionale per un ateneo italiano, come siete arrivati a concretizzare questo progetto?

La nostra relazione con XJTU nasce 12 anni fa grazie ad uno studente cinese che aveva avuto modo di apprezzare la qualità dei nostri programmi di dottorato, in particolare del dottorato in ingegneria elettrica del professor Sergio Pignari. E’ stato lui che, lavorando con tenacia per tanti anni e con tanti viaggi, ha cominciato a costruire questo ponte tra noi e la Cina, fino a sviluppare questa partnership strategica.
In una prima fase ci siamo occupati di attivare diversi scambi e corsi di doppia laurea. L’ipotesi di avere una presenza fisica nel nuovo campus XJTU è nata successivamente e si è concretizzata con la costruzione di un edificio progettato da architetti del Politecnico di Milano (Remo Dorigati e Pierluigi Salvadeo con studio wok, Chiara Dorigati, Francesco Fuoco), che ci accingiamo a popolare prestissimo, grazie ai numerosi progetti che abbiamo in incubazione.

Che conseguenze ha provocato la pandemia su questo progetto e come vi state riorganizzando?

La pandemia non ha frenato i progetti, ha solo imposto una parziale revisione degli obiettivi che ci eravamo posti.
L’ipotesi era infatti di partire a settembre di quest’anno con un corso di laurea congiunto in architettura, con i nostri docenti presenti fisicamente in Cina. Non essendo possibile, per il momento, abbiamo trasferito le attività di formazione online, sfruttando le expertise che il Politecnico ha maturato in questi anni.
In secondo luogo abbiamo portato avanti un importante accordo che riguarda gli MBA tra il MIP, la nostra Graduate School of Business e la School of Manangement di XJTU, che è una delle più prestigiose del Paese.
Infine vorremmo creare nel nuovo campus una nuova Joint School accreditata dal Ministero dell’Educazione cinese.
Otterremmo così il risultato di andare oltre l’obiettivo della nostra presenza fisica, ma di costituire una vera e propria joint venture di natura universitaria all’estero. Proprio in queste settimane stiamo sviluppando il concept di un nuovo Bachelor of Engineering in Industrial Product Design che vede la partecipazione di diverse Scuole del Politecnico di Milano (Design, Management, Mechanical Engineering, Information and Communication Technology). Se il progetto vincerà la call del Ministero dell’Educazione della PRC, potrà essere di fatto il primo corso pilota della costituenda nuova scuola, con dei tratti distintivi unici, primo fra tutti l’interdisciplinarietà.
L’interdisciplinarietà è fondamentale nei processi di innovazione, in cui l’Italia ha certamente molto da dire al riguardo. E la Cina è fortemente impegnata su questo fronte, come dimostra il piano di sviluppo Made in China 2025 che è stato recentemente varato.

Quindi formazione, ma non solo: una partnership universitaria che mira ad essere rilevante per il Sistema Paese?

Certamente. Il nostro obiettivo è anche supportare le strategie di sviluppo internazionale e tecnologico delle nostre imprese. Xi’An in questo senso è un distretto industriale tra i più importanti della Cina, per l’automotive, elettrica in particolare, e un cluster molto rilevante per il settore ICT (Alibaba e Huawei hanno qui centri di ricerca molto importanti).
Per questo motivo abbiamo pianificato di avere dei laboratori, in cui intendiamo sviluppare ricerche insieme a imprese italiane e cinesi. Quello cinese è un mercato complesso ma estremamente attrattivo per le nostre imprese, e noi possiamo supportarle nel loro ingresso.

Veniamo agli studenti. Il valore aggiunto di uno scambio internazionale, durante un percorso di studio universitario, è dato per assodato, ma come rispondono gli studenti all’opportunità di una doppia laurea di questo tipo?

La Joint School ha l’ambizione di diventare globale: intendiamo attrarre studenti internazionali da tutto il mondo. Ma vogliamo anche supportare processi di crescita ed esperienziali dei nostri ricercatori e docenti, dato che anche per loro si tratta di un’opportunità di crescita sotto molteplici punti di vista.
La reazione degli studenti finora è stata entusiasta. A fronte di un legittimo scetticismo iniziale a studiare in un continente così diverso dal nostro, gli studenti italiani hanno sempre apprezzato in modo straordinario questo scambio culturale. Sono conquistati dall’energia e dalla dinamicità che caratterizza qualsiasi università cinese.
Si rendono conto dell’importanza di interagire in una delle aree che ha il massimo tasso di crescita economica del mondo, caratterizzata da un grande fermento e forti investimenti in tecnologie digitali e intelligenza artificiale.

Una partnership sviluppata, come diceva, sulla base di un lavoro continuativo fatto di visite nel paese ospitante. Ora questo specifico contesto storico ci impone di nuove forme di interconnessione nel mondo.
Che scenari prevede a fronte di questo? In che modo le distanze ci avvicinano o modificano alcune modalità di interazione tra noi e la Cina?

Il tema del Hybrid Learning sarà un acceleratore ulteriore delle relazioni tra Politecnico di Milano e la Cina. In questi mesi, in cui abbiamo ridotto a zero i viaggi, in realtà abbiamo interagito più frequentemente di prima e aumentato il livello degli obiettivi e i risultati raggiunti. In questa direzione, sia sul fronte della ricerca, sia sul fronte della didattica universitaria e post-graduate, si aprono prospettive precedentemente poco esplorate.
In Cina nel periodo di quarantena causa Covid, ben 180 milioni di studenti studiavano totalmente online. Per noi ora è naturale allargare la nostra offerta formativa prescindendo dalla presenza fisica degli studenti cinesi, laddove lo studente non si voglia muovere. Applicare logiche di Hybrid Learning (con lezioni in presenza e non) consente anche a studenti italiani che non si vogliano trasferire in Cina di partecipare, ad esempio, ai nuovi corsi di studio in programma.
Paradossalmente, in un momento in cui la connessione fisica non è stata possibile, l’interconnessione cognitiva e relazionale è stata più frequente, perché da entrambe le parti abbiamo scoperto la possibilità di lavorare con una frequenza di interazioni prima inimmaginabile e preclusa solo dal nostro sistema delle percezioni.
Per esempio, anche con la Tsinghua University di Pechino – la più importante università della Cina che ha un Joint campus a Milano con il nostro Politecnico -, stiamo lanciando ora tre grossi progetti formativi che coinvolgono MIP Graduate School of Business (oltre ad altri Dipartimenti dell’Ateneo) e che sono stati sviluppati in soli sei mesi. In passato, per ottenere un risultato simile, sarebbero stati necessari quattro/cinque anni di continui viaggi.
Questo naturalmente non significa sminuire l’importanza del contatto fisico e della vita di campus.
Si tratta solo di nuove strade che vale la pena percorrere.

Un’ultima domanda sull’approccio formativo nelle scuole di management in Cina. Quello che viene insegnato sta evolvendo in una modalità più propensa alla collaborazione con l’Occidente, oppure i due modelli si stanno radicalizzando su posizioni diverse?

La percezione che ho sempre avuto io della Cina è che ci fosse curiosità rispetto ai modelli manageriali occidentali. Quello che interessava erano però soprattutto le tematiche legate alla gestione dell’innovazione.
Gli approcci vanno in direzioni opposte. La Cina è consapevole della potenza del proprio sistema economico ed è quindi autoreferenziale anche nelle proprie modalità di management.
Questo, tuttavia, non esclude affatto diverse opportunità per noi – come Politecnico e come italiani -, in particolare per due motivi.
Il primo è il numero molto alto di studenti cinesi che desidera studiare all’estero e che si sposterà significativamente in Europa (e auspichiamo anche verso l’Italia).
Il secondo è che l’Italia è molto attrattiva per la nostra capacità, da un lato, di sviluppare un sistema di piccole e medie imprese, e dall’altro, di creare brand di lusso. Una reputazione ottima, dunque, non solo a livello di design ma anche di marketing.
Il nostro Paese, e le nostre scuole di Management sono, di conseguenza, decisamente interessanti.

Se dovesse dirci in breve le 3 “parole d’ordine” per il futuro a breve termine del progetto Xi’An, cosa sceglierebbe?

Consolidamento della Joint School per favorire percorsi di crescita dei giovani talenti del Politecnico.
Apertura di un paio di laboratori con le imprese: uno in ambito automotive e l’altro potrebbe essere l’esportazione del formato Polifactory a Xi’an.
Creazione di un incubatore di start up con relativa costituzione di un fondo di venture capital.

«Data science e business analytics: oggi le aziende non possono farne a meno»

Il professor Carlo Vercellis, direttore del Percorso executive in data science e business analytics, racconta le ultime tendenze nel mercato dei big data e lancia un appello: «I consulenti esterni non bastano più. Ora le organizzazioni devono integrare queste figure al proprio interno»

 

Una crescita che da cinque anni si mantiene costantemente in doppia cifra, intorno al 20%, e investimenti che in Italia hanno raggiunto il valore di 1,7 miliardi di euro. È il mercato degli analytics, in parole semplici l’analisi dei dati, arrivato a un punto di svolta. «Ma ora è tempo di crescere», annuncia il professor Carlo Vercellis, Full Professor of Machine Learning al Politecnico di Milano, direttore del Percorso executive in data science e business analytics presso il MIP Politecnico di Milano e responsabile scientifico dell’Osservatorio Big Data & Business Analytics. «Le grandi aziende hanno preso confidenza con questi strumenti, anche se finora si sono appoggiate soprattutto a consulenti esterni. È il momento di integrare queste figure all’interno delle organizzazioni, anche per le Pmi. Tante le sfide da affrontare, altrettante le figure professionali richieste e quindi gli sbocchi lavorativi per chi vuole operare in questo ambito».

 

Organizzazione, gestione, automazione dei processi: le ultime tendenze

Sono due, in particolare, le tendenze identificate da Vercellis. «La prima sfida è di ordine organizzativo e gestionale, e riguarda il governo della filiera dei progetti data driven, quelli basati cioè sui dati: passare dalle sperimentazioni, ormai sempre più numerose e complesse, al progetto pilota, e poi alla messa in produzione fino ad arrivare al deployment. La seconda sfida riguarda i processi di business, che devono essere cambiati in una prospettiva data driven. Pensiamo alla process automation, ossia un’automazione dei processi che sostituisca le attività umane a scarso valore aggiunto attraverso algoritmi che consentono ai software e ai robot di svolgere una serie di mansioni ripetitive. Questo consente di liberare numerose risorse, umane e materiali».

 

Tanti dati, tanti algoritmi: la necessità di una consapevolezza funzionale

I dati, però, da soli non bastano. Bisogna saperli interrogare, leggere, interpretare, e per questo c’è bisogno di professionalità specifiche: «Siamo sommersi dai dati. Le due fonti principali sono le attività social, che forniscono dati non strutturati, non riducibili a tabelle di numeri; e l’Internet of Things, ossia quella rete di oggetti, elettrodomestici inclusi, con caratteristiche smart, che raccolgono moli di dati più strutturati», spiega Vercellis. «Per leggerli bisogna sapere quali strumenti di analisi impiegare: parliamo degli algoritmi, ovviamente, che pur condividendo delle impostazioni di base non sono tutti uguali. A seconda del compito che gli si chiede di svolgere, uno può rivelarsi più adatto di un altro. Per questo c’è bisogno di figure dotate di “consapevolezza funzionale”: esperti capaci di adoperare gli strumenti di data e business analytics, senza dover essere dei tecnici. Sono queste le professionalità che oggi le aziende cominciano a cercare, perché pian piano ci si sta rendendo conto che i consulenti esterni non bastano».

 

Gli sbocchi professionali nel mondo degli analytics

I profili di questo tipo sono diversi. «Si va dal business user, capace di comprendere logiche e limiti di questi strumenti, al translator, una figura ponte che conosce i linguaggi del data science e del business, ed è in grado di far comunicare tra loro questi due mondi. Le figure oggi sono sempre più tecniche: ci sono il data scientist, il data engineer, il business analytics data scientist solution architect».

Il Percorso executive in data science e business analytics del MIP Politecnico di Milano si propone esattamente di formare professionalità variegati delle diverse tipologie indicate: «È un corso che inizia a ottobre, richiede un impegno di due giorni al mese e tocca tutti i temi legati a quest’ambito», illustra Vercellis. «Prevede delle sessioni di hands-on e, infine, un project work conclusivo grazie al quale gli studenti dovranno applicare le nozioni apprese a un problema, proposto da loro stessi o dai docenti della faculty del MIP. Il corso è rivolto ai singoli, che magari cercano un reskill, ma mi aspetto che siano soprattutto le aziende a sfruttare quest’occasione: è una grande opportunità per formare una risorsa interna in grado di gestire le esigenze dell’organizzazione, un compito che un consulente esterno non sarebbe mai in grado di svolgere».

 

MIP Politecnico di Milano ottiene la Certificazione B Corp, unica Business School in Europa

La Business School entra nella community internazionale di società che si distinguono per l’impegno a coniugare profitto, ricerca di benessere per la società e attenzione all’ambiente.

 

MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business è lieta di annunciare il conseguimento della certificazione B Corp. Si tratta di un prestigioso riconoscimento assegnato alle imprese che si caratterizzano per il proprio impegno per uno sviluppo sostenibile e per la costruzione di una società più inclusiva. MIP Politecnico di Milano è la prima business school italiana, l’unica europea e tra le poche al mondo a ottenere questa certificazione.

 

MIP è stata accompagnata nel processo di accreditamento per ottenere il riconoscimento da Nativa, evolution designer di modelli sostenibili e rigenerativi, prima B Corp in Europa e partner italiano di B Lab.

 

Le B Corp rappresentano una community internazionale di aziende accomunate dall’obiettivo di coniugare il profitto con la ricerca di benessere per la collettività e l’attenzione all’ambiente e alla società nel suo insieme. Le imprese che possono vantare questo riconoscimento sono circa 3.400 in tutto il mondo, tra cui un centinaio in Italia. L’iter necessario al conseguimento della certificazione prevede un rigoroso assessment che valuta il modello di governance, l’attenzione al capitale umano, il rapporto con i partner e con il contesto sociale e il rispetto dell’ambiente. In questo modo, vengono analizzati e misurati i risultati raggiunti nell’attività di un’impresa.

 

Questo riconoscimento certifica l’impegno ormai consolidato di MIP e più in generale della School of Management del Politecnico di Milano di cui MIP fa parte, attiva da anni nella ricerca, formazione e nei progetti con le imprese sui temi della responsabilità sociale. La certificazione B Corp indirizzerà le attività in ambito di sostenibilità del MIP nei prossimi anni, con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente le proprie iniziative di impatto sui temi dell’accessibilità, dell’inclusività, del benessere delle risorse umane e della sostenibilità ambientale.

 

Uno degli elementi essenziali che ha portato il MIP a sottoporsi a questa certificazione risiede nella consapevolezza del ruolo che ogni impresa giocherà nel costruire un futuro migliore per tutti. Il purpose e la ragion d’essere di ogni business saranno sempre più ripensati per mettere al centro il ruolo che esso potrà rivestire nella società. Oltre alla crescente attenzione nei suoi programmi di formazione ai temi del purpose, della sostenibilità e dell’inclusività, tramite la certificazione B Corp il MIP intende accelerare quel processo virtuoso tramite cui si propone di diventare essa stessa un’organizzazione sostenibile.

 

Vittorio Chiesa e Federico Frattini, rispettivamente Presidente e Dean di MIP Politecnico di Milano: Ottenere questa importante certificazione è motivo di orgoglio per tutti noi del MIP. In primis, siamo felici di poter dire di essere l’unica business school europea a ricevere questo riconoscimento. Inoltre, in un momento di emergenza sanitaria senza precedenti in cui ci si interroga sui modelli di sviluppo che l’hanno resa possibile, vedere riconosciuto il proprio contributo per un futuro più sostenibile assume un significato ancora più profondo. Le Business School stanno confermando con sempre maggiore forza il loro ruolo di agenti di cambiamento impegnati nella costruzione di una società migliore e più inclusiva”.

 

Raffaella Cagliano, vice Direttore della School of Management del Politecnico di Milano: “Questo riconoscimento rappresenta un importante traguardo e premia il lavoro svolto con impegno e passione negli ultimi anni. Questa certificazione si inserisce all’interno di una strategia di crescita sostenibile che la School of Management porta avanti da molto tempo, nella convinzione che sia questa la responsabilità principale di un’istituzione attiva nella ricerca e nella formazione di giovani professionisti e di manager come la nostra”.

 

Eric Ezechieli, co-founder di Nativa: “La collaborazione con il MIP Politecnico di Milano è stata molto proficua e siamo felici di aver accelerato il percorso di un’eccellenza italiana verso il raggiungimento della certificazione B Corp. L’impegno del MIP a favore delle persone, della società e dell’ambiente è un segnale molto forte per tutte le business school: l’inclusione dei paradigmi legati alla sostenibilità all’interno della visione aziendale rappresenta infatti una competenza fondamentale per i decision maker di domani”.

 

QS 2021 Business Masters Rankings: la School of Management del Politecnico di Milano è una delle migliori Business School al mondo

I corsi del MIP, la Graduate School of Business parte della School of Management, premiati nella classifica internazionale dedicata alla qualità di MBA e master specialistici, con il settimo posto del Master in Supply Chain Management. Ulteriore riconoscimento per la School of Management nei Financial Times Masters in Management 2020 Ranking, in cui si presenta come la terza Business School in Europa tra le Università Tecniche.

 

MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business è una delle migliori Business School al mondo secondo il QS 2021 Business Masters Rankings, la classifica riservata ai migliori MBA e master specialistici internazionali. In particolare, spicca il settimo posto del master in Supply Chain Management. Tra gli elementi che hanno contribuito al posizionamento nella parte alta della classifica, l’attenzione alle diversità, le probabilità di trovare un lavoro da parte degli studenti che hanno frequentato i propri corsi e il ritorno sugli investimenti.

 

L’edizione 2021 del QS Business Masters Rankings ha valutato la qualità dell’offerta didattica di 258 corsi in 158 istituti accademici di quaranta paesi in tutto il mondo. Oltre a employability, class and faculty diversity e return on investment, gli altri indicatori di riferimento sono rappresentati da thought leadership ed entrepreneurship and alumni outcomes. MIP Politecnico di Milano conferma il proprio posizionamento nella parte alta della classifica anche rispetto all’edizione 2020.

 

Per quanto riguarda la graduatoria internazionale dei singoli corsi proposti dalle Business School, si evidenziano anche le performance del master in Management (trentaseiesimo posto) e Finance (sessantottesimo posto).

 

Vittorio Chiesa e Federico Frattini, rispettivamente Presidente e Dean del MIP Politecnico di Milano: “Siamo orgogliosi di ricevere questi importanti riconoscimenti a pochi giorni dalla riapertura del nostro campus. Proseguiremo il nostro impegno per migliorare ulteriormente la qualità didattica della nostra offerta che non potrà prescindere da elementi caratterizzanti come l’attenzione alle diversità”.

 

La School of Management ottiene inoltre un altro prestigioso riconoscimento dal Financial Times, confermando la propria presenza nel Masters in Management 2020 Ranking. In particolare, la scuola si piazza al terzo posto in Europa tra le Università Tecniche che hanno una Business School o un Dipartimento di Management. La sua presenza in classifica si riafferma anche quest’anno, nonostante il ranking abbia subito una riduzione di 10 posizioni, selezionando quindi non più 100 ma 90 scuole di rilievo in questo ambito.

 

Alessandro Perego e Stefano Ronchi, rispettivamente Direttore della School of Management e Presidente del corso di laurea in Ingegneria Gestionale al Politecnico di Milano: “Con questo riconoscimento ci confermiamo tra i pochi Master in Management al mondo in grado di conciliare management, economia e  competenze tecnico-ingegneristiche in un unico percorso formativo. Questo ci permette di preparare figure manageriali capaci di guidare l’innovazione, sempre più a trazione tecnologica, con una forte attitudine al problem solving”.

 

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MIP, EY, Sace: il tridente per affrontare le sfide dell’internazionalizzazione

Dalla Brexit alla pandemia, passando per le guerre commerciali e l’emergenza climatica: sono tanti gli elementi che hanno rivoluzionato le catene del valore globali su cui molte aziende basavano la propria organizzazione. Il cambiamento, però, apre nuovi spazi per le imprese italiane. Che, con le giuste strategie, possono cogliere nuove e importanti possibilità di crescita

 

Fino a pochi mesi fa, il modello economico di molte aziende si basava su catene del valore di scala globale. Le attività produttive erano dislocate in diversi continenti, secondo un principio di convenienza. La Brexit, le guerre commerciali, l’emergenza climatica e, dal 2020, la pandemia, potrebbero cambiare questo paradigma. «Il meccanismo è entrato in crisi», ci spiega il professor Stefano Elia, professore associato di International Business e direttore del programma di corsi brevi in Gestione dell’internazionalizzazione delle imprese presso il MIP Politecnico di Milano. «La risposta a questa battuta d’arresto può essere di due tipi: da una parte potremo assistere alla resilienza del modello attuale, dall’altra a una sua riconfigurazione». Questi sono i due scenari possibili.

 

Tra resilienza e cambiamento: un’opportunità per le imprese italiane

«Nel primo caso», spiega Elia, «assisteremmo a una crescente flessibilità del modello produttivo, accompagnata da una maggiore digitalizzazione. Inoltre, le aziende da una parte potrebbero concentrarsi su ambiti diventati improvvisamente strategici, come il chimico e il medicale; dall’altra, potrebbero puntare sui settori trainati dagli incentivi. Il secondo scenario presenta delle catene di produzione più corte. Si abbandona la scala globale, per riadattarsi a un orizzonte macroregionale. La stessa Unione Europea ha al suo interno una eterogeneità che permette di ridistribuire alcune attività, senza spostarle al di fuori del continente e, anche in questo caso, la digitalizzazione potrebbe giocare un ruolo importante nel favorire l’incremento della qualità sia dei prodotti che dei processi produttivi. Questo scenario presenta almeno tre vantaggi: si evitano guerre commerciali, si tengono a bada i venti nazional-sovranisti e si fa fronte all’emergenza climatica, visto che la catena produttiva diventa più circoscritta».

Ed è qui che potrebbero entrare in gioco le imprese italiane: «Ci sono gli spazi perché possano farsi valere in una competizione in cui diventa fondamentale la qualità, non solo nel b2b ma anche nel b2c. Si ritiene che gli Stati Uniti si riprenderanno in fretta, così come la Germania, la Cina, la Corea del Sud e il Vietnam. Sono quelli alcuni dei paesi a cui guardare, perché tra il 2021 e il 2022 il rimbalzo dei mercati è stimato tra il 5 e l’11%».

 

Verso l’internazionalizzazione: la necessità di una buona strategia

Un’occasione per cui bisogna farsi trovare pronti. «Le imprese hanno due alternative: o diversificano, o escono dai propri confini, andando incontro a una maggiore competizione, ma anche a maggiori opportunità di crescita. L’importante è che questo passaggio sia orientato da criteri di qualità». E con una buona strategia: «Prima di tutto bisogna comprendere l’attrattività del proprio prodotto e sulla base di questo capire quali sono i Paesi che potrebbero essere più interessati. Poi bisogna capire come presentarsi in questi Paesi, adattando la propria offerta alle specificità culturali e istituzionali, ma anche stabilendo se è il caso di entrare da soli o con dei partner. Infine, comprendere quali siano le modalità di finanziamento più adatte. Prestiti a fondo perduto, garanzie e assicurazione dei crediti, aspetti legali e fiscali: nulla va lasciato al caso».

 

MIP, EY e Sace: insieme per le competenze

I corsi brevi in Gestione dell’internazionalizzazione delle imprese del MIP si propongono di fornire gli strumenti per affrontare tutti questi ambiti. «I team che si occupano di internazionalizzazione devono avere una forte capacità di pianificazione strategica, di analisi, di gestione dei processi, ma anche capacità di adattamento e flessibilità, per correggere errori di valutazione o cogliere opportunità non previste. Da questo punto di vista», spiega Elia, «i corsi del MIP garantiscono una formazione che copre gli ambiti del business planning, del management e delle tecnologie digitali funzionali all’internazionalizzazione. La formula vincente sta però nel tridente MIP, EY, Sace: EY, nostro partner e tra le quattro più importanti imprese di advisory e revisione, completa le competenze manageriali offerte dal MIP con competenze di carattere tecnico e professionale, mettendo a disposizione tutto il suo know-how legale, fiscale, di risk management, oltre che dare accesso al suo network di consulenti e di imprese. Sace, l’Agenzia italiana per la promozione degli investimenti internazionali, fornisce una prospettiva di carattere istituzionale, mettendo a disposizione una serie di strumenti molto potenti per il supporto alle aziende in fase di internazionalizzazione ed è intenzionata a farli conoscere il più possibile alle imprese, affinché li utilizzino per cogliere le opportunità insite nello scenario attuale».