MIP Politecnico di Milano rafforza ulteriormente l’offerta didattica a studenti e imprese che vogliono sviluppare le proprie skill manageriali.

Presentati a studenti e imprese il Management Toolbox, il corso PE PM Flex e il D-HUB Management Skills.

 

MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business innova la propria offerta con corsi e strumenti specifici rivolti a coloro che intendono accrescere le proprie competenze manageriali con strumenti digitali. La Business School ha infatti istituito la raccolta Management Toolbox e il corso PE PM Flex, per i professionisti motivati ad ampliare le proprie conoscenze di management. Per le imprese, invece, MIP ha creato la piattaforma D-HUB Management Skills.

La Business School conferma così il suo impegno nella formazione digitale, riconosciuto anche dal quinto posto ottenuto dall’International Flex MBA nel QS Online MBA Ranking 2020, la classifica annuale che valuta le migliori scuole nell’erogazione di corsi online a distanza. L’International Flex MBA di MIP è anche l’unico programma italiano in distance learning tra i migliori 10 al mondo, il nono a livello internazionale e il quarto se si considerano solo le Business School europee, in base alla graduatoria stilata dal Financial Times, l’FT Online MBA Ranking 2020.

 

L’OFFERTA PER I PROFESSIONISTI

  • Management Toolbox:

Il Management Toolbox nasce con l’intento di supportare i professionisti nello sviluppo delle proprie imprese e fornire una raccolta di competenze “actionable” e strumenti utili a rafforzare le competenze necessarie per affrontare le sfide dei mercati contemporanei.

Attraverso questa nuova risorsa, aziende e professionisti potranno fare affidamento su un bagaglio di competenze selezionate, creato dalla Faculty MIP per dare un supporto pratico e consistente, pensato con la coscienza del passato e lo sguardo rivolto al futuro.

I contenuti di ciascun toolbox sono disponibili per un periodo di 2 settimane. Ciascun toolbox metterà a disposizione dei partecipanti strumenti ed elementi didattici innovativi (tra cui videoclip e sessioni live con i docenti) per veicolare i contenuti in modalità flessibile e “full Digital”.

Per avere maggiori informazioni e per le iscrizioni, visitare il sito.

 

  • PE PM Flex (Giugno 2020-Aprile 2021):

Il nuovo Percorso Executive in Project Management Flex intende proporre best practices e strumenti necessari alla massimizzazione delle performance di gestione dei progetti, nonché comunicare l’importanza della capacità di reagire alle imprevedibili variazioni della contingenza.

Il Percorso Executive in Project Management FLEX è erogato in lingua italiana, in formato distance learning e si compone in 8 moduli formativi di 3 settimane ciascuno. È previsto un project work finale con la consulenza di un membro della Faculty.

Il percorso tratta le tematiche presenti nei processi di certificazione delle due principali associazioni internazionali di project management: il PMI (Project Management Institute) e l’IPMA (International Project Management Association).

Per avere maggiori informazioni, visitare il sito.

 

L’OFFERTA PER LE AZIENDE

  • D-HUB Management Skills:

D-HUB Management Skills è la piattaforma sviluppata dal MIP Politecnico di Milano che consente ai dipendenti e ai collaboratori di imprese, associazioni e fondazioni di fruire in maniera semplice e intuitiva di contenuti volti a migliorare le competenze in materia di management. Sulla piattaforma sono disponibili infatti 24 corsi e oltre 950 clip relative alle principali aree del management contemporaneo. Lo strumento è attivo dalla metà di aprile e resterà operativo fino alla fine del 2020.

All’interno della piattaforma, i contributi sono organizzati in 7 aree tematiche, ciascuna delle quali è composta da diversi corsi. I programmi potranno essere fruiti in italiano e/o in inglese.

Al termine di ciascun corso ogni partecipante potrà effettuare un test. In caso di esito positivo, sarà rilasciata una certificazione che potrà essere visualizzata anche nel profilo Linkedin dell’allievo.

Per avere maggiori informazioni, visitare il sito.

MIP sostiene le imprese italiane per investire nella formazione del personale nel settore delle tecnologie 4.0

MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business è un istituto di eccellenza, ideale per favorire il miglioramento delle competenze della tua comunità aziendale.

Con MIP al tuo fianco, potrai fare affidamento a un partner con esperienza pluriennale nel campo dell’alta formazione, con una docenza d’eccezione riconosciuta a livello internazionale!

L’innovazione è uno dei pilastri della nostra Scuola: MIP Politecnico di Milano può essere pertanto il perfetto erogatore di corsi relativi al settore delle tecnologie 4.0 per la tua azienda. La Business School rientra tra i Soggetti Formatori riconosciuti per fornire questa tipologia di formazione, rispondendo a tutti i requisiti necessari.

Crediamo fortemente che alla base del progresso ci siano formazione e aggiornamento costante. Per questo, diamo una mano alle imprese italiane che vogliono investire nella formazione del personale sulle materie aventi ad oggetto le tecnologie rilevanti per la trasformazione tecnologica e digitale, attraverso la disciplina del credito di imposta.

Il credito di imposta è riconosciuto come segue:

  • 50% delle spese ammissibili e nel limite massimo annuale di €. 300.000 per le piccole imprese;
  • 40% delle spese ammissibili nel limite massimo annuale di €. 250.000 per le medie imprese;
  • 30% delle spese ammissibili nel limite massimo annuale di €. 250.000 le grandi imprese.

Per maggiori informazioni relativamente ai nostri incentivi riservati alle imprese, contatta: corporaterelations@mip.polimi.it

Global Business Services: al MIP arriva il GBS Certification Program

Filippo Passerini, considerato uno dei maggiori esperti al mondo in Global Business Services, illustra i vantaggi di una strategia GBS.

Una strategia rivolta alle grandi aziende, grazie alla quale è possibile ridurre i costi sfruttando le economie di scala, liberare risorse dalle mansioni più ripetitive e trasformare il modello del proprio business: «Si tratta fondamentalmente di aggregare servizi interni all’azienda, quando questi sono dispersi o duplicati in diverse organizzazioni. È questa l’essenza della GBS (Global business services, ndr)», spiega Filippo Passerini, direttore del GBS Certification Program per il MIP Politecnico di Milano.

La Gbs spiegata dai professionisti del settore

«Ho avuto la fortuna di costruire e gestire GBS in Procter & Gamble (P&G) per oltre 12 anni. Il nostro business ne ha tratto vantaggi enormi, sia in termini di riduzione dei costi che di innovazione. Vorrei ora creare valore per gli altri, aziende ed individui, diffondendo conoscenza e competenze», spiega Passerini. «Sono molto soddisfatto di poter lavorare con il MIP per questo programma: offre un’infrastruttura che permette di andare sul mercato in maniera efficace e certifica il rigore didattico dei contenuti. Questi ultimi saranno sviluppati da Inixia».
Inixia è un servizio di consulenza i cui advisor hanno tutti un’esperienza concreta di GBS e shared services: «Sono persone che, come me, hanno lavorato per P&G, il cui modello di GBS è riconosciuto come un vero e proprio benchmark. Inixia nasce con l’intento di creare un programma di certificazione che permetta alle persone di ottenere una qualifica in questo ambito».
La GBS, infatti, non si improvvisa, avverte Passerini: «Esiste una sequenza specifica di passi da seguire, che conduce a risultati migliori in maniera più rapida. C’è una strategia da seguire e anche per questo è importante acquisire competenze specifiche».
I numeri, d’altra parte, parlano chiaro: nel 2018 il valore di mercato dei global shared services ammontava a 56 miliardi di dollari, cifra che si prevede raddoppierà entro il 2025. Altrettanto tangibili i vantaggi per le aziende: fino al 50% della riduzione dei costi, insieme a una triplicazione nella creazione del valore. Gli ambiti di applicazione riguardano quasi tutti i servizi operativi e i processi di un’azienda, in qualsiasi settore: finanza, risorse umane, supply chain, acquisti, IT, processi di marketing e di vendita, centri di servizio per clienti e consumatori.

La Gbs e la digital transformation

Sarebbe sbagliato, però, pensare che la GBS, con ormai una storia ventennale alle spalle, sia una strategia statica. Basti pensare all’impatto che ha avuto la digital transformation sulla struttura organizzativa delle aziende. «Il digitale è una grande risorsa», illustra Passerini. «L’organizzazione attuale delle aziende costringe a utilizzare risorse, umane e materiali, in processi operativi a basso valore aggiunto, ma necessari. Ad esempio il ciclo di fatturazione, o dei pagamenti ai fornitori, oppure gli stipendi per i dipendenti, il processo degli ordini e numerosissimi altri processi interni: si tratta di attività essenziali, ma costituite da passaggi ripetitivi che non aggiungono valore al core business. GBS è un’ottima piattaforma per la trasformazione digitale: questi processi possono essere automatizzati e ottimizzati ulteriormente applicando nuove tecnologie. In questo modo si accrescono efficienza ed efficacia, le risorse vengono liberate per dedicarsi a compiti più strategici. I benefici possono variare molto, dalla “semplice” riduzione di costi a un motore per l’innovazione del modello operativo. Ed è qui che entra in gioco la competenza».

Come è strutturato il GBS Certification Program

Per questo, dunque, nasce il programma di GBS Certification per il MIP. «Si tratta di corsi brevi online, la cui durata va dalle sei alle 12 ore», spiega Passerini. «Il corso è strutturato in cinque livelli. Si comincia con il livello Foundation, che affronta i principii fondamentali della GBS. A questo seguono quelli che abbiamo definito pillars: Service Management, Operations Management, Transformation. Infine, il livello Leadership, conseguito il quale si ottiene la certificazione. L’abbiamo pensato un po’ come un percorso che segua una sorta di seniority manageriale, rivolto sia a chi è all’inizio dell’esperienza o in ruoli più operativi, sia a manager senior o leader di GBS. È un processo di vera e propria professionalization, per usare un termine inglese che trovo molto calzante in questo caso. L’obiettivo è formare persone altamente competenti».

Eccellenze nella formazione digitale: la School of Management del Politecnico di Milano è l’unica italiana a ottenere la certificazione EOCCS per i master Executive MBA.

Il riconoscimento promosso da EFMD (European Foundation for Management Development) premia l’offerta didattica dedicata alla formazione manageriale di 22 atenei in tutto il mondo.

La School of Management del Politecnico di Milano si conferma l’unica business school italiana a ottenere la certificazione EOCCS (EFMD Online Course Certification System) per i propri corsi erogati in digital learning nei master Executive MBA. EOCCS è un sistema di valutazione d’élite riservato ai corsi online e creato da FMD (European Foundation for Management Development), la più prestigiosa istituzione a livello europeo nella promozione della formazione e dello sviluppo manageriale.

Nel 2017 erano solamente 35 i corsi a poter vantare questo riconoscimento in Europa, distribuiti in 11 atenei. Oggi EOCCS premia in totale 22 scuole al mondo.

Il riconoscimento EOCCS, che ha una durata triennale, è stato attribuito a due corsi del MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business: Innovation Management, percorso presente all’interno dell’offerta International Flex EMBA, in lingua inglese, e il corso in Supply Chain Management and Purchasing che fa parte del programma Flex EMBA, in italiano. Si tratta di una importante riconferma, dal momento che entrambi avevano già ricevuto la certificazione EOCCS nel dicembre 2017. I due corsi sono erogati in modalità full digital.

La certificazione EOCCS rappresenta una ulteriore garanzia di qualità all’interno dell’offerta didattica dedicata ai corsi online che si è rafforzata anche per le necessità suggerite dalla pandemia. Il riconoscimento del marchio EFMD permette di scegliere i migliori percorsi di studio in modalità online, che siano in grado di coniugare la grande flessibilità nella fruizione, il rigore metodologico, il livello di insegnamento, e il mantenimento della qualità nelle relazioni interpersonali confrontabile con i corsi in aula.

Vittorio Chiesa e Federico Frattini, Presidente e Dean di MIP Politecnico di Milano: “Siamo orgogliosi di questa nuova certificazione EOCCS, che segue quella ricevuta nel 2017. Un riconoscimento che premia il lavoro svolto dal nostro istituto accademico dal 2013, per offrire un’offerta didattica sempre più flessibile e coerente alle esigenze di ciascun studente.

Appartenere a questa élite di scuole diventa ancor più gratificante in un periodo che suggerisce la straordinaria importanza di un’adeguata offerta didattica digitale. Il processo di digitalizzazione ha dimostrato di poter moltiplicare le opportunità di apprendimento superandone limiti e confini. Per affermarsi come strumento in grado di garantire un approccio inclusivo all’insegnamento anche in futuro”.

Dall’energia all’arte: il successo di Itisartime

L’esperienza di due alumni del Master in Energy Management che gestiscono insieme Itisartime, pagina Instagram da mezzo milione di follower. Dall’incontro tra i banchi del MIP allo sviluppo di una mentalità imprenditoriale, seguendo i concetti di progresso, innovazione e mutamento.

Che relazione c’è tra il Master in Energy Management del MIP Politecnico di Milano e una pagina Instagram da oltre 450mila follower che parla di arte? Apparentemente nessuna, ma in realtà il legame c’è, e va oltre il fatto che gli animatori di Itisartime, Alessandro Brunelli e Andrea Del Moro, siano entrambi degli alumni del MEM. «Arte ed energia condividono il concetto di progresso. L’arte è creatività per definizione, e a sua volta la creatività è innovazione e mutamento. E quali sono le parole oggi più diffuse nei congressi sull’energia? Progresso e rivoluzione», spiega Brunelli.

Un progetto in divenire

L’esperienza di Itisartime parte da lontano. «In parte coincide con la mia storia personale», racconta Brunelli. «A 19 anni cominciai a collezionare piccoli pezzi d’arte che sembravano parlare di me; mostrarli a tutti attraverso i social mi sembrava un modo innovativo di raccontare me stesso». Una visione che pian piano si è espansa: «Quando mi sono reso conto che il mondo dell’arte era sconfinato, ho deciso di andare oltre quella limitazione e ripostare invece tutte quelle opere che si distinguevano rispetto alle altre. Quello è stato il vero atto di nascita di Itisartime, un progetto che ha visto la luce nel 2015».
Il successo della pagina, che ha portato i due anche all’Affordable Art Fair di Milano, inizialmente ha colto Brunelli di sorpresa. «Non avrei mai pensato di sfiorare il mezzo milione di persone». Grandi numeri che impongono qualche riflessione sul futuro del progetto. E anche da questo punto di vista il Master in Energy Management un ruolo importante l’ha giocato: «Lì ho conosciuto Andrea, che si è quindi unito al progetto in una fase successiva. Ha ottime doti comunicative, un’ampia visione commerciale e di progetto. Per tutti questi motivi è salito a bordo, per trasformare Itisartime in una realtà più solida. Aspiriamo a diventare un riferimento per il settore», rivela Brunelli.

Cinque idee per l’arte in Italia

Sullo stato dell’arte in Italia, e su ciò che riguarda la sua comunicazione e diffusione al grande pubblico, Brunelli ha le idee chiare: «Il potenziale del nostro Paese è enorme, lo sappiamo. Ci sono iniziative che secondo me hanno costituito degli importanti passi avanti. Penso a Domenicalmuseo, ad esempio, che avvicina molte persone ai luoghi dell’arte. Ma anche il connubio tra arte e cinema può destare interesse in chi magari è stanco delle solite mostre». Non mancano, ovviamente gli ambiti in cui sarebbe possibile fare qualcosa in più: «Bisognerebbe mantenere e incrementare le sovvenzioni ai fondi come il Fai o agli spazi espositivi privati, come l’Hangar Bicocca o la Fondazione Prada, per fare degli esempi. L’appeal tra i giovani crescerebbe. In secondo luogo, qualsiasi iniziativa dovrebbe essere veicolata attraverso un canale informativo e divulgativo. Infine, provare a trasformare i problemi in soluzioni. Penso alla street art e all’urban art: investire su progetti a tema potrebbe trasformare gli atti di vandalismo in opere d’arte, grazie alle quali magari riqualificare zone periferiche».

Il valore aggiunto del Master in Energy Management

Tra queste e altre suggestioni, Itisartime guarda al futuro. E lo fa grazie anche ad alcuni insegnamenti che Brunelli e Dal Moro hanno appreso durante il Master in Energy Management: «Io ho una formazione di tipo ingegneristico, Andrea di tipo economico. La prima cosa che fa il master è mettere in relazione persone con percorsi diversi: è dal confronto tra punti di vista ed esperienze differenti che nascono le buone idee. È stato un incontro davvero fortunato, se pensiamo che adesso collaboriamo in un settore così avulso dalle nostre esperienze formative. Il master ci ha poi fornito spunti di miglioramento professionale e più in generale di personal development. Se oggi valutiamo le occasioni lavorative legate a Itisartime con una mentalità imprenditoriale, il merito è del MEM», conclude Brunelli.

E’ economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale nell’ “era coronavirus”?

La profonda crisi causata dall’emergenza sanitaria costringe le imprese ad un taglio dei costi e degli investimenti non indispensabili, con un forte ridimensionamento di quelli finalizzati alla trasformazione ambientale. Con l’incremento complessivo del debito pubblico dei paesi, come sarà possibile sostenere la sostenibilità ambientale e reperire le risorse necessarie per finanziarla?

 

Umberto Bertelè, Professore Emerito di Strategia del Politecnico di Milano

 

Che fine ha fatto Greta?”, si chiedeva La Repubblica in un articolo del 22 marzo di quest’anno. Ancora a fine febbraio, meno di un mese prima, Greta Thunberg era riuscita a portare in piazza 15mila giovani per il “Bristol Youth Strike 4 Climate (BYS4C) event” e a dicembre – al massimo della notorietà – era stata posta dalla rivista Time in copertina come “2019 Person of the Year”, dopo gli interventi a Davos e all’ONU.
Poi di colpo, con l’arrivo del lockdown in Europa e negli US, il quasi oblio: a testimonianza della velocità con cui nel giro di pochi giorni erano radicalmente cambiate le priorità delle persone, meno preoccupate per l’impatto – percepito come lontano nel tempo – del cambiamento climatico generato dal global warming che non per i rischi immediati per la salute e la stessa sopravvivenza e quelli appena successivi connessi con le pesanti conseguenze economiche e occupazionali (30 milioni di disoccupati nell’UE e oltre 30 negli US prima della riapertura) del lockdown. Con il lockdown che viceversa – bloccando larga parte delle attività e riducendo drasticamente gli spostamenti – aveva un effetto benefico, ma temporaneo (a meno di una poco auspicabile caduta permanente dell’economia), su tutti i parametri ambientali.
E meno di un mese dopo, il 14 aprile, il Financial Times titolava un suo corposo servizio su questo tema “How coronavirus stalled climate change momentum – Emissions have fallen but the pandemic will hit policy commitments as nations look to kick-start their economies”. E in due successivi articoli degli inizi di maggio le domande (in evidenza nei titoli) erano: “Can companies still afford to care about sustainability?” e “Can we tackle both climate change and Covid-19 recovery?”.

 

Prima del lockdown: con l’uscita dalla “grande crisi” l’ambiente conquista una posizione di testa nella scala delle priorità sociali

Il tema “ambiente” – la guerra contro il global warming ma anche quella contro l’uso della plastica o contro l’inquinamento urbano – aveva assunto, con la ripresa dell’economia mondiale dopo la grande crisi iniziata nel 2008, una rilevanza quasi contagiosa. Non più riservato ai soli ambientalisti, esso riscuoteva ampi consensi (o almeno simpatie) in fasce crescenti della popolazione, fra i giovani in primo luogo, anche se non era altrettanto diffusa la coscienza dei costi e dei trade-off che il perseguimento degli obiettivi ambientali – la decarbonizzazione in primo luogo – avrebbe comportato. L’accordo formalmente sottoscritto da 195 Paesi nella conferenza sul clima di Parigi (COP21) di dicembre 2015 aveva creato un clima di ottimismo sulla possibilità di un’azione internazionale coordinata e proiettata nel tempo contro il global warming, anche se già prima del lockdown ampie crepe si erano manifestate al momento di rendere operativi i primi passi degli accordi: per il rovesciamento di fronte da un lato degli US, dopo l’avvento alla presidenza di Trump, e per l’ambivalenza dall’altro della Cina, formalmente allineata con l’UE ma pronta a ricorrere al carbone per incrementare la produzione elettrica. Con la UE però fortemente determinata non solo a proseguire i suoi programmi (quale quello relativo al mondo dell’auto diventato operativo quest’anno), ma a fare dell’ambiente – con l’European Green Deal lanciato da Ursula von der Leyen al momento dell’assunzione della presidenza della Commissione – il punto focale della strategia di crescita dell’economia comunitaria.
L’attenzione verso l’ambiente sembrava essere diventata una sorta di obbligo pure per le imprese, non solo per obblighi di legge o ragioni di immagine ma anche, per le quotate in particolare, come conseguenza dell’enorme successo dei fondi ESG-Environmental Social and Governance – la cui consistenza era arrivata a molte migliaia di miliardi di $ – per statuto obbligati a investire in imprese eco-friendly, oltre che attente al benessere di dipendenti e collaboratori e al rispetto delle regole di governance. In questo contesto, il CEO di BlackRock (primo gruppo di asset management al mondo) era arrivato, a seguito delle critiche di inazione da parte dei movimenti ambientalisti, a minacciare di votare contro la rielezione di CEO e consiglieri delle imprese partecipate che non si fossero mostrate sufficientemente attive nel promuovere investimenti e comportamenti coerenti con gli obiettivi ESG.
Alle imprese – a partire da quelle quotate di dimensione maggiore – veniva sempre più richiesto non solo di essere eco-friendly, ma anche di evidenziare nei loro bilanci i rischi connessi con l’ambiente. Questo per la convinzione che il cambiamento climatico (in una proiezione temporale più lunga) e (soprattutto e da subito) le misure adottate dagli Stati per combatterlo – un mix di aiuti finanziari e di crescenti divieti – potessero stravolgere gli equilibri del sistema delle imprese, generando quella che in un mio articolo dello scorso anno avevo denominato eco-disruption (in analogia con la digital disruption): mettendo in estrema difficoltà comparti come quello petrolifero (per la spinta alla decarbonizzazione e l’incentivazione di fonti energetiche alternative pulite) e quello automobilistico tradizionale (costretto a chiudere molte attività e a investire pesantemente nell’elettrico) e facendone crescere altri più rispondenti alle nuove esigenze.
Di conseguenza, e coerentemente, i banchieri centrali (a partire da quello UK) spingevano per l’affiancare agli stress test – diventati ormai una consuetudine dopo la “grande crisi” – i “climate” stress test, volti a valutare la resilienza delle banche a fronte dell’accentuarsi di fenomeni di eco-disruption. E si cominciava a parlare di “green” quantitative easing, immaginando interventi simili a quelli attuati da Draghi come capo della BCE, ma a favore questa volta delle grandi risorse che gli Stati e le imprese avrebbero dovuto mettere in gioco per la trasformazione ambientale.

 

Con la profonda crisi causata dal lockdown la sostenibilità economica e occupazionale torna a essere la priorità fondamentale

Con la contrazione dei fatturati della grande maggioranza delle imprese a causa del lockdown, con la conseguente enfasi sulla liquidità – e quindi sul taglio dei costi e degli investimenti non indispensabili – come condizione per la sopravvivenza di molte di esse, con l’enorme crescita dei “non occupati” o “parzialmente occupati”, con l’ovvio aumento delle incertezze sul futuro, le priorità (come detto) sono immediatamente cambiate e tale cambiamento presumibilmente perdurerà almeno in parte sino al consolidarsi del rilancio – auspicato ma assolutamente incerto nei tempi e differenziato per Paesi – dell’economia. La maggior coscienza ambientale sviluppatasi negli ultimi anni permane come valore di fondo della società, come molte indagini svolte in vari Paesi evidenziano, ma con una influenza minore sui comportamenti delle imprese e sulle allocazioni delle risorse pubbliche.
Concentrando il discorso sulle imprese, l’enfasi sulla liquidità come condizione di sopravvivenza comporta per larga parte di esse – al di là delle dichiarazioni ufficiali (soprattutto delle quotate) sull’importanza degli obiettivi ambientali – un forte ridimensionamento o dilazione nel tempo degli investimenti strettamente finalizzati alla trasformazione ambientale. Mentre l’attenzione all’ambiente permane – come obiettivo in sede di progettazione – nella messa a punto degli investimenti finalizzati alle esigenze di business: una attitudine importante, che potrà essere rafforzata ponendola come prerequisito per l’accesso alle risorse pubbliche specificamente erogate per il ridecollo dell’economia.
I fondi ESG a loro volta, che devono proteggere il valore degli investimenti fatti, tendono a non forzare le imprese a investimenti ambientali che ne possano mettere a rischio la sopravvivenza e a limitare gli interventi critici a quelle patrimonialmente solide che palesemente rifiutino di darsi obiettivi ambientali: come di recente avvenuto con LGIM – primo gruppo di asset management inglese – che ha accusato Exxon Mobil, di cui è uno dei principali azionisti, di “lack of strategic ambition around climate change”, a differenza di BP e Shell che si sono date l’obiettivo “net-zero”, e ha deciso di votare contro la riconferma di CEO e chairman.

 

Il lockdown ha avuto un impatto benefico su tutti i parametri ambientali, ma cosa accadrà con il progressivo ritorno a una qualche forma di normalità?

È ovvio che, nel momento in cui – per ordine dei governi – larga parte delle attività produttive e commerciali viene sospesa e gli spostamenti vengono quasi cancellati per il confinamento di una quota elevata della popolazione, le fonti inquinanti si riducono drasticamente e i parametri ambientali presentano tutti rilevanti miglioramenti. È ovvio che, più lenta sarà la ripresa, più lentamente i livelli di inquinamento torneranno ai valori precedenti la crisi da coronavirus. È altrettanto ovvio che questa non è la soluzione per i problemi ambientali, per cui sono necessari interventi più strutturali, anche se le nuove abitudini sviluppate durante il lockdown – quali il più diffuso utilizzo dell’ecommerce, il ricorso massiccio al remote working e alla formazione a distanza, la telemedicina, la disponibilità di strumenti molto più efficienti per le interrelazioni online (per ragioni di lavoro ma non solo) e per l’organizzazione di eventi online (con partecipanti attivi sempre più numerosi) – lasceranno presumibilmente tracce profonde nei nostri stili di vita e di lavoro, riducendo ceteris paribus la pressione sull’ambiente.
Facebook ha ad esempio annunciato un profondo ripensamento della strutturazione delle sue attività, che prevede che nel giro di qualche anno la metà dei dipendenti operi in remote working e abbia una remunerazione correlata con il costo della vita dei luoghi in cui vivono: con un vantaggio economico diretto, dati il costo della vita ormai proibitivo nell’area di San Francisco, ma con un impatto significativo – se saranno molte le imprese della Silicon Valley che (come già Twitter, Square e Shopify) seguiranno la stessa strada – sul decongestionamento del territorio e sulla salute dell’ambiente.
Di converso uno stimolo all’aumento della carbonizzazione potrebbe pervenire dal crollo dei prezzi dei carburanti fossili – del petrolio in primo luogo – legato non solo agli scontri fra Paesi produttori (Arabia Saudita, Russia e US i grandi protagonisti), ma anche e soprattutto dal crollo della domanda causato dal lockdown: crollo destinato ad attenuarsi con la progressiva uscita dal lockdown, ma molto sensibile a quelli che saranno i tempi della ripresa. Prezzi eccessivamente bassi delle materie prime fossili significano, soprattutto in una fase di emergenza economica, scarsi stimoli agli investimenti in energie pulite (quali la solare o l’eolica) o addirittura – come accennato in precedenza per la Cina – ricorso a materie prime come l’economicissimo carbone per alimentare le nuove centrali elettriche.

 

Gli elevati costi della “decarbonizzazione” e le difficoltà politiche per attuarla

La trasformazione ambientale non si identifica con la sola guerra al global warming, ma non c’è dubbio che sia quest’ultima a richiedere gli sforzi di gran lunga maggiori se si vuole puntare all’obiettivo – più o meno proiettato nel tempo – di rendere carbon neutral l’economia e la società mondiale: sforzi nel contempo economici, perché senza risorse si fa poca strada, e politici.
L’entità delle risorse da mettere in gioco è molto elevata: da parte in primo luogo delle imprese, non tutte in grado di sopravvivere ai nuovi standard (da cui il termine eco-disruption sopra accennato); da parte delle famiglie, che devono adeguare fra l’altro le loro abitazioni e i loro mezzi di trasporto privati (operazioni tanto più ardue quanto più stagnante è l’economia); da parte degli Stati, per incentivare le imprese e la famiglie e per finanziare gli interventi infrastrutturali necessari. Molto ambizioso ad esempio il Green New Deal, lanciato a fine 2018 negli US dai rappresentanti democratici alla Camera dopo il favorevole esito delle elezioni di mid term ma bocciato dal Senato, che si proponeva di rendere carbon neutral l’economia statunitense entro il 2030. Un obiettivo poi ripreso dai candidati democratici nelle successive primarie, che avevano anche definito le cifre annue (con gli ovvi limiti di credibilità delle promesse elettorali) che avrebbero fatto stanziare a livello federale se eletti presidenti: 170 miliardi di $ all’anno Joe Biden, il più moderato, vincitore in pectore delle primarie; 300 miliardi Elisabeth Warren; addirittura oltre 1.600 Bernie Sanders, il più radicale, principale oppositore di Biden. Meno ambizioso nella scelta dell’orizzonte temporale di raggiungimento della neutralità (il 2050 invece che il 2030) e nelle cifre (1000 miliardi di euro complessivi in 10 anni incluse però le risorse di imprese e Stati membri attivate), l’European Green Deal visto in precedenza, approvato formalmente dal Parlamento Europeo con una richiesta di irrobustimento ma non operativo.
Le cifre citate sono troppo elevate o insufficienti (io propenderei per questa seconda ipotesi) per conseguire gli obiettivi dichiarati? Le cifre tengono conto della necessità di bilanciare l’inevitabile disruption di parte dell’economia provocata dalle nuove regole, prevedendo che sia la crescita delle attività eco-friendly a fornire la compensazione, o sono necessari investimenti addizionali agevolati dalla mano pubblica?
Accanto ai problemi economici, il conseguimento della neutralità su scala mondiale pone problemi politici molto severi: che cosa accade se non si trova un accordo almeno tra i tre principali attori della scena mondiale, US, UE e Cina? È possibile che una singola area si muova da sola, come ufficialmente vuole fare l’UE, senza poi porre vincoli agli scambi commerciali con le aree che – non dovendo rispettare gli stessi vincoli – sono più competitive (non è un caso a tale proposito che la Francia ponga come condizione per gli accordi post-Brexit il rispetto da parte dell’UK degli accordi di Parigi)? Chi si prende l’onere di aiutare finanziariamente le aree più povere del mondo a crescere nel rispetto delle regole di neutralità, affrontando costi sensibilmente maggiori ad esempio nella produzione di energia – almeno fino a quando il prezzo delle materie prime fossili rimarrà basso – o nei trasporti?
Non sono domande cui sono in grado di rispondere, ma che a mio avviso richiederebbero riflessioni molto più approfondite di quelle che molto spesso si sentono nei dibattiti o si trovano in letteratura e sulla stampa.

 

La guerra per la sostenibilità economica “post-lockdown” strappa risorse a quella per la sostenibilità ambientale

“I Paesi ricchi – i Paesi cioè con 1,3 miliardi di abitanti facenti capo all’OCSE stessa – sono destinati a subire un incremento complessivo dei loro debiti pubblici di almeno 17 trilioni di $ (quasi otto volte il PIL italiano) come conseguenza della pandemia, per l’effetto congiunto delle misure di salvataggio e di stimolo già poste in atto e (in misura probabilmente maggiore) della caduta a picco prevista per le entrate fiscali. Il livello di indebitamento medio, pari a oltre 13mila $ per abitante, passerà conseguentemente dal 109 al 137 per cento del PIL, ovvero al livello ante-coronavirus dell’Italia. E le cose potrebbero andare anche peggio, se il recupero richiedesse più tempo di quanto previsto, ponendo addirittura dubbi sulla sostenibilità di lungo termine del debito stesso”. È una mia libera traduzione della dichiarazione dell’OCSE riportata con grandissima evidenza dal Financial Times il 24 maggio.

 

Rimangono ancora risorse per finanziare la “decarbonizzazione”?

È la domanda questa che echeggia il titolo dell’articolo: è economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale oppure il reperimento delle risorse necessarie per finanziare la trasformazione ambientale (la decarbonizzazione in primo luogo) – già arduo prima del coronavirus – sarà sempre più difficile in un mondo sempre più indebitato? È possibile utilizzare a vantaggio anche dell’ambiente almeno parte delle enormi risorse destinate al salvataggio delle imprese e delle famiglie e al rilancio dell’economia, come apparirebbe razionale fare e come da più parti è richiesto?
Per quanto concerne il primo punto, non c’è dubbio che, data la rilevanza delle cifre da mettere in gioco per finanziare la decarbonizzazione e dati i livelli di guardia raggiunti dall’indebitamento complessivo (pubblico più privato), un ulteriore consistente ricorso all’indebitamento non è impossibile – lo si è fatto ad esempio da sempre nei periodi di guerra – ma comporta rischi crescenti di destabilizzazione del sistema economico-finanziario mondiale. Si procederà o meno in questa direzione? Banalmente credo che giocherà un ruolo fondamentale il livello di percezione del pericolo: l’emergenza economica post-lockdown ha attirato grandi risorse perché è immediatamente visibile, i danni che il cambiamento climatico potrebbe provocare (dal rialzo del livello del mare alla desertificazione di un numero crescente di aree ..) al momento lo sono in misura molto ridotta.
Per quanto concerne il secondo punto, la Commissione UE – nelle sue annuali raccomandazioni-Paese pubblicate il 20 maggio – ha auspicato che la grave recessione provocata dalla pandemia sia l’occasione per accelerare la riforma dell’economia, sulla base soprattutto dei due obiettivi, trasformazione ambientale e trasformazione digitale, che l’UE stessa si è data. Simile la raccomandazione che The Economist del 21 maggio ha posto in copertina di un numero in larga parte dedicato alle tematiche ambientali: “A new opportunity to tackle climate change: Countries should seize the moment to flatten the climate curve. The pandemic shows how hard it will be to decarbonize – and creates an opportunity“. Sono considerazioni in linea di principio molto condivisibili, perché si rifanno all’esperienza storica che sono le grandi crisi che creano le opportunità per le grandi trasformazioni. Con un limite però: è a mio avviso molto ridotta la quota di risorse pubbliche post-lockdown
destinate al rilancio dell’economia – l’unica che può essere impiegata anche con finalità ambientali – rispetto a quella volta a evitare i fallimenti delle imprese o a garantire un reddito alle famiglie colpite dalla crisi.
L’Italia, in questo contesto, soffre di una doppia criticità: ha meno risorse da mettere in gioco, dato il livello potenzialmente esplosivo del nostro debito pubblico; destina al rilancio una quota probabilmente più bassa rispetto ad altri Paesi, per la nostra tradizionale preferenza a mantenere in vita le imprese decotte (non faccio nomi) piuttosto che a investire in innovazione.

Al via illimity academy: primo master in gestione del credito in collaborazione con MIP Politecnico di Milano

Illimity, gruppo bancario ad alto tasso tecnologico fondato e guidato da Corrado Passera, ha istituito illimity academy, la corporate business school studiata per creare percorsi di alta formazione economica e finanziaria per i nuovi professionisti del credito attraverso programmi didattici e training sul campo. 

Il primo Master di illimity academy è dedicato alla gestione del credito ed è stato strutturato in collaborazione con MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business che ne cura la direzione scientifica. Il Master, in partenza a settembre 2020, mira a formare gli Asset Manager di nuova generazione di neprix, il servicer specializzato nella gestione dei crediti distressed corporate di illimity. 

Il percorso formativo, che combina stage retribuito per 6 mesi con la formazione diretta curata da docenti provenienti dal mondo universitario e della consulenza, oltre che dal management di illimity, avrà una durata di sei mesi ed è rivolto a 25 laureandi e neolaureati in materie sia umanistiche che scientifiche che abbiano conseguito un titolo di studio (Laurea o Master) da non oltre 1 anno. 

Al termine del Master i profili che si distingueranno per capacità, motivazione e potenziale verranno assunti a tempo indeterminato come Junior Asset Manager. 

La selezione dei candidati al Master avverrà in due fasi: la prima prevede l’invio entro il 30 giugno della candidatura e di un video motivazionale attraverso www.illimity.com/mastercredito, mentre nella seconda fase i candidati selezionati affronteranno interviste volte a valutare competenze, potenziale e profilo in linea con i valori e la cultura aziendale di illimity. 

Per gli studenti selezionati, la frequenza del Master sarà giornaliera e alternativamente distribuita in aula (400 ore) e presso la sede milanese di illimity dove si svolgerà lo stage (540 ore). 

Il gruppo illimity si farà carico della maggior parte dei costi del Master il cui valore è di 10.000€. Ai candidati selezionati verrà infatti richiesto un contributo di 2.000€ che verrà rimborsato in caso di assunzione. Saranno inoltre messe a disposizione borse di studio e il percorso di stage sarà interamente retribuito (700€ lordi al mese oltre ai buoni pasto). 

Marco Russomando, Head of Human Resources di illimity, ha dichiarato: “abbiamo deciso di promuovere illimity academy per scommettere ancora una volta su giovani donne e uomini di talento e formare le nuove professionalità del futuro. In illimity le persone sono la nostra vera forza e risorsa e i numeri lo dimostrano: in poco più di un anno, contiamo già quasi 500 illimiters di ogni età, provenienti da 120 settori, 19 Paesi e con un’età media di 36 anni. Abbiamo puntato sulle nuove generazioni fin dall’inizio e vogliamo continuare a farlo. Siamo quindi estremamente felici di intraprendere questo percorso e di avere riscosso interesse e disponibilità dal mondo accademico a partire da un partner di altissimo livello come il MIP Politecnico di Milano”. 

Laura Grassi, docente del MIP in area finance e Direttore Scientifico del Master: “Puntare alla formazione continua, selezionare giovani talenti, promuovere l’innovazione del business dell’azienda e coinvolgere gli stessi manager che guideranno il cambiamento sono le caratteristiche distintive di questo Master. Un Master in cui MIP, la business school del Politecnico di Milano, ha messo a disposizione le sue competenze e conoscenze e ha creduto nello spirito collaborativo dell’iniziativa dove Professori di importanti Atenei italiani si alterneranno in aula insieme a rinomati Professionisti e al Top Management di illimity”. 

Come le aziende del lusso si stanno preparando al post Covid-19

L’emergenza legata alla pandemia del virus Covid-19 sta avendo impatti significativi anche sull’industria del lusso: i più importanti player del settore hanno già iniziato a rivedere le loro strategie, alla luce del fatto che le minacce legate a cambiamenti strutturali nel mercato potrebbero per alcuni trasformarsi in opportunità.

 

Alessandro Brun, Professore di Quality Management, Direttore del Global Executive Master of Luxury Management e fondatore Sustainable Luxury Academy
Co-autrice Cecilia Castelli, Extended Faculty MIP Graduate School of Business

School of Management Politecnico di Milano

Nella prima parte di questo articolo (L’impatto del Covid-19 sulle abitudini di acquisto dei clienti del lusso) abbiamo mostrato i principali cambiamenti che ci attendiamo nel settore. I manager dell’industria del lusso non stanno certo fermi a guardare.
Mentre le fabbriche sono state convertite a – e dal New York Post [i] al the Guardian [j] arrivano i plausi ad Armani che realizza camici, Prada e Gucci mascherine, Bulgari si focalizza sull’hand-sanitizer, e anche la tecnologia di Ferrari viene messa al servizio dell’emergenza per realizzare Respiratori – nelle stanze dei bottoni si pensa già alle strategie per il dopo-Covid.

 

Le reazioni dei brand

Come si stanno muovendo i brand del lusso oggi? Ce ne parlano Lorenzo Bertelli, Head of Marketing and Head of CSR di Prada, Giorgio Ravasio, Country Manager Vivienne Westwood Italia, ed Eugenia Di Muzio, Worldwide Commercial Manager Rene Caovilla.

Per Bertelli: “Riteniamo che verrà assegnata più importanza al valore intrinseco del prodotto (ad esempio per l’eccellenza delle lavorazioni, dei materiali), ma non a scapito del valore del brand, non è un trade-off. I valori rappresentati dal brand saranno ancora più importanti nel momento in cui saranno percepiti come credibili. Il consumatore chiederà maggiore trasparenza e l’attenzione ai temi della sostenibilità diventerà ancora più centrale, non solo rispetto al prodotto ma anche con riferimento alla mission aziendale. Ipotizziamo una rinnovata scoperta delle relazioni interpersonali nei comportamenti d’acquisto, con rapporti più diretti e umani. Attendiamo una maggiore elasticità della domanda al prezzo anche nelle fasce premium quale conseguenza di un atteggiamento d’acquisto più consapevole e orientato a prediligere prodotti con un riconoscibile valore intrinseco”.

E’ simile la percezione di Ravasio: “Gli acquisti saranno più consapevoli per due motivi principali: la diminuzione dei redditi e la riflessione generata da una situazione nuova che ha reso l’umanità più fragile e meno certa. Sopravviveranno i brand che hanno una forte identità, che lavorano con bene in mente la qualità del prodotto, l’affidabilità del servizio, la garanzia di continuità e che rappresentino dei forti valori in tema etico, ambientale e sociale. Chi non sarà in grado di dare questi messaggi non sopravviverà a lungo e il Covid-19 non ha fatto altro che accelerare un processo di trasformazione già in atto”.

Per Vivienne Westwood l’on-line è “esploso letteralmente. I negozi fisici saranno di meno ma saranno tutti rinnovati per dare la migliore presenza e immagine possibile ai brand. Diventeranno ambasciatori dei valori del brand e consulenti del cliente per valorizzare la propria immagine. Chi sarà semplicemente alternativo all’on-line senza offrire nulla di più non avrà futuro. La tendenza che sarà accelerata sarà legata alla “maisonizzazione” della filiera distributiva. Come già successo per la produzione, ci si avvierà verso la gestione diretta della catena retail. Sarà un processo graduale ma credo inesorabile” conclude Ravasio.

Anche la risposta di Prada è all’insegna della continuità, in quanto – prosegue Bertelli “Il retail non sarà accantonato e rimarrà centrale in una strategia omnichannel dove conterà ancora di più l’integrazione tra i vari canali diretti, retail ed e-commerce diretto, e indiretti, market place e wholesale. Il consumatore premium, ma anche i marchi di questa fascia, vogliono sempre meno intermediari, sia nel fisico che nel digitale; si tratta [per Prada] di un trend già in essere che sta subendo un’accelerazione a seguito di questa crisi”.

Per Caovilla, “In un’integrata ottica multichannel, non avremo più assortimenti e stock segregati per punto vendita o città, ma un unico grande stock, orientato all’unico risultato che conta: la vendita del prodotto al cliente a prescindere dalla location in cui essa avviene.
Ciò richiederà sforzi di ammodernamento di sistemi gestionali e operativi nonché di flussi logistici e di un rodato meccanismo di consegne, spedizioni e resi. Anche il mondo dei negozi retail cambierà sia in ottica di assortimento delle collezioni, sia in ottica di esperienza di vendita. Le nuove norme improntate al rispetto della social distance, renderanno necessario ridisegnare gli spazi dei punti vendita, in chiave di maggiore separazione e distanza. Tuttavia, squisitamente nell’ambito del lusso questa nuova esperienza di vendita, lascia intravedere anche un’opportunità di ridisegnare per il cliente una esperienza di ulteriore unicità ed esclusività. Una esperienza di vendita one-to-one simile agli appuntamenti negli atelier di Haute Couture. Ancora una volta una potenziale opportunità derivata da una nuova restrizione imposta”.

Ma ciascun canale dovrà trovare il modo di raggiungere il break-even, come spiega Di Muzio: “Un grosso interrogativo, per le aziende con negozi retail, sarà come sostenere finanziariamente la rete di punti vendita e flagship stores con elevati costi di gestione, a fronte di una vendita che avviene sempre di più online. Il retail rimarrà sempre e comunque la massima espressione dei valori visibili del brand e dovrà fare lo sforzo di cambiare, di rendersi meno ovvio e di provare al consumatore l’effettivo vantaggio di una store experience. Che sia con collezioni dedicate, con momenti di puro intrattenimento tramite eventi dedicati o inviti a esperienze uniche per i clienti più loyal, o offrendo ai clienti servizi in più – dal made to order alla consulenza di immagine, al supporto in ottica cross-selling e total look. Certamente contare solo sulla disponibilità dell’assortimento in attesa che il cliente varchi l’ingresso non sarà più percorribile”.

Di Muzio racconta come stanno gestendo l’emergenza nel breve in Rene Caovilla, per tenere in vita le piccole realtà locali: “Certamente pur non esistendo la ricetta perfetta, un buon mix di interventi mirati alla riduzione dei costi del personale in un’ottica di maggiore efficienza, uniti agli aiuti stanziati dai vari governi, insieme ad una stretta collaborazione tra aziende della filiera, sono gli ingredienti primari. In un momento in cui il flusso di cash-in è ridotto o inesistente, occorre collaborare in maniera organica e organizzata con tutti i fornitori e partner della filiera, cercando soluzioni. Tempi di pagamento più lenti, ma costanti; scontistiche più favorevoli a fronte di pagamenti a vista; piccoli ordini scadenzati nel tempo anziché un unico grosso ordine. Tutto deve essere ribilanciato con un’ottica di “contagocce”, il sistema non deve e non può entrare in stasi: sarebbe la fine accertata per molti piccoli fornitori e vari distretti di eccellenza delle nostre regioni italiane”.

In attesa delle decisioni dei Governi, Prada ha già pronto un piano per la riapertura delle fabbriche che consentirà agli operatori di poter lavorare nel rispetto degli standard di sicurezza sanitaria più elevati (distanza, dispositivi di protezione, controlli, sanificazione, turni, etc..).
Tutti i brand intervistati hanno confermato che l’arrivo della collezione Autunno Inverno 20-21 verrà leggermente posticipato.

Una mobilità ancora limitata potrebbe influenzare le campagne vendita per il mercato wholesale, per questo Ravasio ci parla di come stiano lavorando “alla creazione di showroom digitali che consentiranno di evitare viaggi e trasferte a buyer di tutto il mondo”. In quest’ottica le settimane della moda cambierebbero la loro vocazione, continua Ravasio “Le sfilate manifesteranno la vera realtà di show per il pubblico. Valori ma non prodotti – o prodotti con valore. Non più funzionali al business”.

Con i buyer impossibilitati a viaggiare da tutto il mondo per recarsi negli showroom per gli ordini di collezione, l’intero sistema subirà una stasi fisica a favore di una maggiore vivacità virtuale: appuntamenti su showroom e piattaforme virtuali per conoscere le collezioni e finalizzare i propri ordini. Incrementando la domanda per la produzione di contenuti digitali e piattaforme di condivisione in grado di restituire in maniera sempre più chiara la realtà dei prodotti”, prosegue Di Muzio, “Sarà una fase di sperimentazione in cui capiremo cosa funziona e cosa no… cosa è possibile fare a distanza e cosa non è possibile. Il lusso segue delle logiche ben precise che la contingenza sta modificando, ma che non riuscirà a eliminare o sradicare. I prodotti del lusso che presentano prezzi elevati, richiedono in fase di selezione ed acquisto dei buyer (ma anche dei clienti) una amplificata attenzione alla qualità e ad ogni singolo dettaglio. E già nella passata FW20 si sono evidenziati chiari limiti e perplessità sulla fattibilità degli ordini a distanza. Anche e soprattutto quando i volumi di acquisto sono importanti. Più facile quando il prodotto è già noto, ma difficilissimo quando il prodotto non è conosciuto o nelle fasi di start-up o negoziazione di nuove opportunità di business”.

 

Quali suggerimenti quindi dare ai brand del lusso per la ripresa?

I brand dovrebbero innanzitutto riprendere piena coscienza del vero significato del lusso: tornare alle origini del savoir faire artigianale, del bello fatto bene, prendersi una pausa dai ritmi incessanti del fast fashion, o quantomeno rallentare – e tornare a fare sentire i propri clienti “esclusivi”. Come sottolineato da tutti gli intervistati, la disintermediazione dei canali di vendita porterà ad un rapporto più “intimo” con i clienti.
Per non risultare fuori luogo, in un clima di morigeratezza sociale, l’approccio al marketing dovrà essere da un lato più discreto e al tempo stesso responsabile. Una parte significativa del budget per comunicazione “above the line” potrebbe essere utilizzato per “cause related marketing” o trasformato in budget per comunicazione “below the line”.
Per evitare il rischio di financial distress nel breve periodo, sarà fondamentale iniziare la ripresa da quei canali, mercati, e categorie merceologiche che ripartiranno più velocemente: online e discount i canali su cui scommettere; per le economie mature, e per la Cina, cercare di incontrare i clienti localmente (anche se i Cinesi in viaggio in Europa sono più incentivati a fare shopping di lusso Tax Free); e, in termini di categorie di prodotto, beauty, fine food and wine, art de la table, personal mobility, articoli evergreen e no logo e, ovviamente, esperienze. Ma per sopravvivere nel lungo periodo i brand dovranno completare la transizione da player brick and mortar a player omnipresenti.
Infine per superare la crisi le aziende dovranno fare leva sulle tecnologie digitali, con impatto sia sulla semplificazione dei processi che sull’organizzazione del lavoro, e attivare meccanismi di collaborazione e condivisione con i vari partner della filiera, che vadano dai dati alle strategie, per essere più forti assieme.

Già c’è chi parla di “selezione della specie”. Probabilmente, come dice Lorenzo Bertelli, “Attendiamo, verosimilmente, un ritorno alla normalità pre-pandemia solo con l’arrivo del vaccino, quando le persone potranno tornare a circolare liberamente. Per noi quest’emergenza richiede sicuramente degli adattamenti, ma non mette in discussione i fondamentali del settore del lusso, né ci richiede di modificare il nostro modello di business.”

Presenza online e strategia digitale consolidate; collezioni fluide senza una vera e propria dicotomia Primavera-Estate e Autunno-Inverno; focus sul valore intrinseco del prodotto e investimenti sulla sostenibilità a livello di intera filiera: alcuni brand si sono presentati a inizio 2020 meglio preparati di altri per affrontare l’inaspettata emergenza Covid. Per tutti gli altri, la capacità di adattamento si rivelerà, oggi più che mai, indispensabile per superare la crisi.

 

______________________________

[i] A. Moussavian. Luxe Labels Gucci, Armani, Bulgari make protective gear to fight coronavirus. New York Post, 26 Marzo 2020 https://nypost.com/2020/03/26/luxe-labels-gucci-armani-bulgari-make-protective-gear-to-fight-coronavirus/
[j] E. V. Bramley. Prada the latest fashion brand to make medical face masks. The Guardian, 24 Marzo 2020 https://www.theguardian.com/fashion/2020/mar/24/prada-the-latest-fashion-brand-to-make-medical-face-masks

L’impatto del Covid-19 sulle abitudini di acquisto dei clienti del lusso

Un cambiamento di paradigma che andrà oltre la stagione Autunno Inverno 20/21.

 

Alessandro Brun, Professore di Quality Management, Direttore del Global Executive Master of Luxury Management e fondatore Sustainable Luxury Academy
Co-autrice Cecilia Castelli, Extended Faculty MIP Graduate School of Business
School of Management Politecnico di Milano

 

L’emergenza legata alla pandemia del virus Covid-19 è lungi dall’essere finita, e già molti esperti sono concordi nel prevedere che vi saranno impatti significativi sull’industria del lusso che andranno ben oltre il breve termine, in quanto la quarantena potrebbe portare a cambiamenti duraturi nel comportamento di acquisto dei clienti del segmento top di gamma: meno viaggi e più occasioni sociali tra le mura domestiche; un consumo più responsabile, che privilegi oggetti di qualità e produzioni locali, ma con attenzione al portafoglio; e gli acquisti online che cresceranno ulteriormente…
I più importanti player del settore hanno già iniziato a rivedere le loro strategie, alla luce del fatto che – come già avvenuto nelle precedenti crisi globali – le minacce legate a cambiamenti strutturali nel mercato potrebbero per alcuni trasformarsi in opportunità.

L’effetto delle chiusure

Nel recente Luxury Study Spring 2020, Bain&Co e Altagamma [1] prevedono un 2020 con una riduzione del giro d’affari tra il 20% (nel migliore degli scenari – quello che vede una ripresa importante già dal terzo quarter) e il 35% (qualora gli effetti negativi della pandemia si trascinassero a lungo) per i cosidetti “personal luxury goods”, ovvero quelle categorie su cui si sono concentrati negli scorsi anni gli acquisti aspirazionali di una classe media in cerca di legittimazione. Già quando la crisi muoveva i primi passi, l’indagine di BCG e Altagamma[2] prospettava una contrazione importante, con un valore complessivo che ci riporta ai livelli del 2015 e una riduzione dei margini oltre il 13%. Nonostante la ripartenza del Dragone Asiatico, quindi, sembra che i numeri delle prime analisi vengano confermati. Numeri impressionanti, che – nello scenario più pessimistico – in valore assoluto corrisponderebbero ad un calo di fatturato di quasi 100 miliardi di € per i soli beni personali di lusso, e che sintetizzano difficoltà non trascurabili per tre categorie di attori:

  • Retailer finanziariamente molto esposti, che si trovano in carico buona parte della collezione Primavera-Estate 2020, invenduta e probabilmente invendibile;
  • Player di piccole dimensioni, su cui gli impatti di una chiusura prolungata possono essere devastanti;
  • Attori a monte delle filiera, che nel migliore dei casi sono messi in difficoltà da dilazioni a tempo indeterminato dei pagamenti e contestuale assenza di ordini.
I cambiamenti nel comportamento di acquisto

Con la ripresa, il mercato non sarà più quello di prima. Nella nostra indagine abbiamo intervistato una dozzina di manager delle aziende del lusso e numerosi consumatori, e abbiamo ricevuto conferme sui cambiamenti più verosimili:

  • Patrimonio, non reddito – con l’avvento del cosiddetto “Mass Marketing of Luxury”[a], i brand di lusso hanno spostato il target principale al ceto medio. Nello scenario ha caratterizzato gli ultimi due decenni, gli HENRY di tutto il mondo hanno speso una frazione significativa del proprio “disposable income” in beni ed esperienze di lusso[b], ma, dopo il lockdown, le famiglie della classe media potrebbero aver limitate disponibilità finanziarie da dedicare ad acquisti non di prima necessità, mentre gli HNWI si troverebbero con una capacità di spesa non modificata. Una dozzina di anni fa svolgemmo una ricerca nel mercato delle auto di lusso, per capire se la crisi dei mercati finanziari avesse portato ad una perdita di vendite o ad uno spostamento in avanti nel tempo delle stesse. Un giovane banker londinese dichiarò che si sarebbe dovuto comprare una Ferrari con il bonus di fine anno – niente bonus, e l’acquisto della Rossa di Maranello sfumò. Un imprenditore italiano dichiarò di aver rinunciato all’acquisto di una Maserati per “solidarietà” con i propri dipendenti – anche se, nonostante la crisi aziendale, il patrimonio di famiglia gli avrebbe permesso acquisti ben più consistenti di una berlina del tridente. In questo caso, l’acquisto venne semplicemente posticipato a momenti migliori. Lo stesso potrebbe succedere nel post-Covid: i brand e le categorie di beni di lusso che hanno come target il patrimonio soffriranno di meno.
  • Per chi continua a rimanere a casa. Le riduzioni di viaggi – legate a restrizioni normative che potrebbero perdurare a lungo, paura di nuovi contagi, sostituzione di meeting di persona non strategici con più efficienti videoconferenze – porteranno ad una riduzione del fatturato di canali specifici (travel retail), destinazioni specifiche (e.g. Las Vegas), di segmenti specifici di mercato nei flagship store delle capitali mondiali del lusso (Cinesi in visita a Parigi, Milano, Londra per turismo o viaggio d’affari) e di categorie di prodotto quali trolley e valigie. Per contro, il fatto di continuare a rimanere a casa potrebbe trasformarsi in una opportunità per altre categorie quali Art de La Table, che negli ultimi hanni ha sofferto di un tasso di crescita ridotto rispetto alla media del comparto lusso[c]. Nelle categorie che a Marzo 2020 hanno avuto il maggior incremento di vendite su internet[d], seconde dopo ai guanti usa e getta, troviamo le macchine per fare il pane (+652% rispetto a Marzo 2019). Con il ritorno alla normalità, questo ritorno forzato ai fornelli potrà portare a maggior occasioni sociali tra le mura domestiche. I brand che ne sapranno approfittare, potranno spingere su acquisti in servizi tavola (per chi ospita), fiori, vini, superalcolici (per chi è ospitato). Della paura di viaggiare su mezzi pubblici, inoltre, potrebbe beneficiare anche la mobilità personale – automotive, ma magari anche yacht e jet privati.
  • Appagamento personale – Sin dai tempi più lontani, i beni di lusso hanno costituito acquisti emotivi fatti da una clientela abbiente “per sentirsi meglio”. Dopo i sacrifici della quarantena, i consumatori torneranno ad avere voglia di spendere, ma lo faranno privilegiando l’esperienza edonistica al possesso materiale; peraltro, anche dopo un allentamento della quarantena, le occasioni di vita sociale potrebbero rimanere rarefatte per un periodo di tempo piuttosto lungo, e quindi beni e brand di lusso che prima della crisi venivano prevalentemente acquistati in quanto “Social Marker”[e] potrebbero lasciare il posto a brand meno appariscenti o a esperienze particolarmente intense (fine food & drinks, beauty, SPA e centri benessere, …).
  • Lusso Responsabile – l’ineluttabilità del contagio e della Perdita di persone care ha portato molti ad interrogarsi su temi quali “dove sta andando l’umanità?”. La crescente sensibilità verso temi di sostenibilità ambientale e sociale non potrà che risultarne ulteriormente rinforzata; i brand e le categorie di prodotto (ad esempio beni artigianali piuttosto che industriali) che permettano un “consumo responsabile” verranno privilegiati. Giorgio Armani ha scritto una lettera aperta a WWD[f], nella quale lo stilista italiano ringrazia l’autorevole magazine per aver alimentato il dialogo su quanto assurdo sia l’attuale stato delle cose – caratterizzato da sovrapproduzione di abiti e un “disallineamento criminale” tra la stagione metereologica e quella commerciale.
  • Alla ricerca di saldi e sconti – se, da un lato, ci possiamo aspettare un’ondata di anti-consumismo, l’abitudine di aspettare i saldi o di fare pellegrinaggi ai c.d. Factory Outlet verrà esacerbata dal generale autorichiamo alla frugalità[g]. Se brand e retailers dovessero ricorrere a pesanti scontistiche per liberarsi dello stock della stagione PE 2020, rischierebbero di alimentare ulteriormente il circolo vizioso dell’attesa dei saldi.
  • Online per vendere, per comunicare, per intercettare – durante il lockdown, siamo tutti testimoni in prima persona di come la transizione ad una vita nel mondo digitale abbia subito un salto quantico. I consumatori acquistano di più online, consumano più contenuti digitali, e in generale trascorrendo più tempo online sono più propensi al dialogo con le aziende. I brand del lusso dovranno rivedere la propria strategia digitale, per cogliere la triplice opportunità di incrementare le vendite del canale eCommerce, incrementare la frequenza e la profondità della comunicazione ai propri clienti, e raccogliere un prezioso bottino di informazioni con il quale arricchire il proprio database CRM[h].
  • Un rinnovato senso di orgoglio per le produzioni locali – questo purtroppo potrebbe dipendere dallo specifico mercato, ma già si sono visti i primi segni che presagiscono la nascita di veri e propri movimenti di “buy local”.

In conclusione, senza dubbio vedremo un ruolo diverso dei canali di vendita: la crescita costante del travel retail si fermerà inevitabilmente; si consoliderà l’abitudine di acquistare online, soprattutto per quei clienti che spinti dall’emergenza hanno superato le barriere psicologiche, con un boost double digit quanto più anche le attività branding si sposterà online; il ruolo delle boutique fisiche sarà certamente da ripensare; i canali discount dovranno essere gestiti con attenzione per mantenere un posizionamento coerente del band pur andando a catturare quel 56% di clienti che (secondo il report BoF-Mc Kinsey) andranno a caccia di occasioni. In questo tipo di scenario, assumerà un ruolo ancora più importante la comunicazione – non solo di brand e prodotto, ma anche il racconto delle strategie che si stanno mettendo in atto sia per rispondere all’emergenza sanitaria che per dare solidità al business – che deve essere vista come un investimento prioritario.

_________________________________________________________

[1] L. Zargani. Personal Luxury Goods expected to contract 20% to 35% in 2020. Women’s Wear Daily, 7 Maggio 2020 https://wwd.com/business-news/business-features/personal-luxury-goods-expected-to-contract-20-to-35-in-1203628347/
[2] A. Biondi. Coronavirus could cause a €40 billion decline in luxury sales in 2020. Vogue Business, 21 Febbraio 2020 https://www.voguebusiness.com/companies/coronavirus-luxury-brands-impact-sales-altagamma

[a] Nueno e Quelch. “The Mass Marketing of Luxury”. Business Horizons, Novembre-Dicembre 1998
[b] Silverstein e Fiske. Trading up: the new American Luxury. Penguin Group, 2003
[c] S. Lazzaroni. Altagamma Consensus 2019 – June update. Altagamma, Giugno 2019
[d] J. Styrk. The top 100 fastest growing and declining categories in eCommerce. Stackline, 31 Marzo 2020
[e] Kapferer e Bastien. The Luxury Strategy: break the rules of marketing to build luxury brands. Kogan Page publishers, 2012.
[f] L. Zargani. “Giorgio Armani writes open letter to WWD”. WWD, April 3rd, 2020
[g] Amed, Berg, Balchandani, Hendrich, Rölkens, Young, Jensen. The State of Fashion 2020: Coronavirus Update. BoF e McKinsey&Company
[h] M. Nicolelli. The Covid-19 Carousel. Challenges and Disruptions in the Fashion Luxury Sector. Hydra Advisory.

L’Internet of Things ai tempi di Covid-19: servizi di valore per cittadini e imprese

La situazione di emergenza legata a Covid-19 sta portando alla ribalta diverse applicazioni IoT, sull’onda di un interesse generale verso soluzioni in grado di assicurare tracciabilità, monitoraggio, raccolta dati. Un patrimonio informativo, quello generato dalle soluzioni IoT, che permette di sviluppare servizi di valore e di pubblica utilità per i cittadini.

 

Di Giulio Salvadori e Angela Tumino, Direttori dell’Osservatorio Internet of Things della School of Management del Politecnico di Milano

 

L’Internet of Things ai tempi di Covid-19: servizi di valore per cittadini e imprese
Un tema al centro del dibattito nazionale (e non solo), in cui l’Internet of Things può fornire un valido supporto, è quello legato al monitoraggio degli spostamenti degli utenti grazie alla localizzazione tramite telefoni cellulari (es. con App ad hoc, dati di rete cellulare, ecc.), al fine, nel caso ad esempio degli utenti risultati positivi a Covid-19, di risalire la catena del contagio, identificando le persone con cui sono entrati in contatto e isolarle a loro volta. Questo è un approccio che stanno adottando anche grandi player, come ad esempio Google e Apple, che – tramite un approccio collaborativo senza precedenti – stanno lavorando insieme per sviluppare un nuovo sistema per smartphone che può aiutare a identificare coloro che sono stati vicini a persone contagiate. La tecnologia, basata su Bluetooth, inizierà a essere implementata su dispositivi iOS e Android a partire da metà maggio. Sono tante le applicazioni in corso di sviluppo e c’è grande aspettativa sul ruolo che potranno giocare nella cosiddetta “fase 2”, e forse oltre.

Un altro caso interessante di applicazione è quello delle consegne basate su veicoli a guida autonoma, senza conducente. Ne è un esempio Neolix, un piccolo veicolo per le consegne urbane totalmente robotizzato che è stato di grande utilità in Cina durante l’emergenza sanitaria Covid-19: le misure di contenimento della pandemia hanno temporaneamente svuotato le strade dagli altri veicoli e, allo stesso tempo, hanno portato i consumatori a riflettere sui vantaggi derivanti dal far consegnare merci a sistemi robotici che, ovviamente, non possono contagiare né restare contagiati. Complici le strade rimaste vuote, tra febbraio e marzo Neolix ha ricevuto più di 200 prenotazioni per l’acquisto di veicoli autonomi, quando negli otto mesi precedenti aveva venduto solo 125 mezzi. Stesso trend per Starship Technologies, azienda americana che produce robot per la smart delivery e che ha notato un aumento della domanda nei grandi centri urbani come New York e San Francisco.

Un altro esempio lo possiamo trovare nel settore alimentare e, più nello specifico, per il supporto alla spesa. La startup italiana FrescoFrigo ha sviluppato una soluzione con l’obiettivo di supportare i condomini nell’acquisto di generi alimentari senza dover uscire dal proprio complesso residenziale. La società ha installato nel moderno e tecnologico complesso residenziale “Social Village Cascina Merlata”, situato a nord-ovest di Milano, cinque frigoriferi intelligenti per soddisfare le esigenze delle oltre 900 persone residenti nei 397 appartamenti del complesso. In questo modo gli abitanti del condominio possono rispettare le norme dettate dall’emergenza sanitaria ed evitare lunghe code ai supermercati per rifornirsi di generi alimentari di prima necessità. L’assortimento presente all’interno dei frigoriferi è fornito da negozi locali e prevede un mix di cibi sani e freschi. I condomini possono visionare i prodotti dalla grande vetrina frontale, sbloccare e aprire il frigo tramite la mobile App dedicata, scegliere i prodotti e concludere l’acquisto semplicemente chiudendo la porta del frigo. Sarà il sistema a rilevare l’operazione e addebitare al cliente il costo dei prodotti scelti sul sistema di pagamento inserito al momento dell’iscrizione.

Un altro ambito su cui certamente l’emergenza in corso sta accendendo i riflettori è quello della sanità, e in particolare dei servizi di tele-assistenza per la cura delle persone anziane o malate in casa. Le difficoltà vissute in questo periodo stanno facendo emergere chiaramente – qualora ce ne fosse stato ancora bisogno – il potenziale di poter disporre di dispositivi hardware connessi per il monitoraggio di parametri vitali da remoto. In questo modo diventa possibile coniugare servizi volti a migliorare la qualità della cura (come ad esempio l’invio dei farmaci a domicilio o la videochiamata con un medico) con la riduzione del ricorso all’ospedalizzazione.

Ma non finiscono qui le opportunità che le tecnologie IoT possono abilitare anche in una situazione di emergenza come questa. Negli ultimi mesi stiamo infatti assistendo a una forte evoluzione dell’offerta verso nuovi modelli di pricing con cui è possibile acquistare gli oggetti connessi, che includono logiche legate al pay-per-use o pay-per-performance e che – proprio in un periodo critico come questo – potrebbero permettere a tante aziende e cittadini in difficoltà di dilazionare il pagamento dei propri acquisti nel tempo, solo nel momento in cui se ne fa uso. I primi esempi che iniziano a popolare il mercato spaziano dalla Smart Factory alla Smart Car, fino allo Smart Building. Ad esempio, in fabbrica si iniziano a vedere i primi progetti in cui il macchinario può essere pagato sulla base delle ore di utilizzo o delle quantità di materiale prodotto. Nel settore automotive sono state definite formule d’acquisto “Pay-per-Drive”, in cui il piano dei pagamenti viene adattato in base all’effettivo utilizzo dell’auto, comunicato direttamente dalla vettura. Non solo: anche le nuove offerte di dispositivi e sistemi smart per gli edifici stanno evolvendo nella stessa direzione. È il caso delle soluzioni per l’illuminazione, in cui al cliente viene data la possibilità di pagare solo la luce “consumata”, senza divenire proprietario dei dispositivi d’illuminazione utilizzati. Il numero di progetti è ancora limitato, ma sicuramente le esperienze positive già effettuate nell’ultimo anno possono rappresentare un buon punto di partenza per lo sviluppo di un’offerta che vada incontro alle difficoltà economiche legate a questo periodo.

Un elemento che accomuna la maggior parte degli esempi citati è la possibilità – grazie all’Internet of Things – di raccogliere grandi quantità di dati, che possono essere utilizzati per sviluppare servizi di valore o di pubblica utilità. Questo elemento non è emerso solo nel corso dell’emergenza, ma è un carattere peculiare delle soluzioni IoT, come emerge chiaramente dalla ricerca realizzata dall’Osservatorio Internet of Things del Politecnico di Milano, e in particolare dall’analisi del mercato pre-Covid-19. Nel corso nel 2019, quasi il 40% del valore del mercato IoT in Italia era già generato da servizi abilitati dai dati resi disponibili da soluzioni IoT. Ci aspettiamo che questa emergenza evidenzi ancora più chiaramente il potenziale del grande patrimonio informativo generato dalle soluzioni IoT: per i cittadini, per le imprese e per le pubbliche amministrazioni.