«Il Covid non ci ha fermato: ecco perché ci siamo iscritti al MIP»

L’attuale situazione poteva generare dubbi sull’opportunità di confermare la propria iscrizione ai corsi. Così non è stato: ce lo raccontano tre studenti. Tra le loro motivazioni, l’efficacia del digital learning, la solidità del social networking e la volontà di confrontarsi con colleghi provenienti da tutto il mondo.

L’emergenza Covid-19 ha causato un generale rallentamento globale, ma non ha fermato il settore della formazione, che si è rapidamente convertito ai formati digitali. E se da una parte il MIP Politecnico di Milano non ha interrotto i propri servizi, dall’altra non si sono fermati nemmeno i suoi studenti, che nonostante la situazione in atto hanno confermato la volontà di seguire i corsi a cui si erano iscritti. In certi casi, anzi, le soste lavorative forzate hanno persino reso più semplice la scelta. I dubbi, tutt’al più, potevano riguardare l’attualità dei contenuti: avrebbero retto al cambiamento portato dalla pandemia?

L’importanza di contenuti davvero digitali

È bastata una settimana di corsi per fugare questo timore, come ci racconta Micaela Long, iscritta al Flex EMBA e di stanza a Basilea: «Avevo deciso di seguire questo programma per la solidità dei suoi contenuti e per l’elasticità nelle modalità di erogazione, che ben si adattavano alla mia routine lavorativa e famigliare. Mi sono bastati pochi giorni per capire che la flessibilità è anche una caratteristica dei contenuti: tutti i temi che stiamo affrontando, li stiamo trattando anche tenendo conto della situazione attuale». Dopo una settimana, il bilancio è positivo, anche per quanto riguarda l’impatto con il digital learning: «Lavorando per una funzione corporate in una multinazionale farmaceutica, ero già abituata alle interazioni online. Devo dire, però, che questo Flex EMBA mi ha positivamente sorpreso: i contenuti sono concepiti fin dal principio per una fruizione digitale; non sono banali trasposizioni dei classici insegnamenti in presenza, ma sono pensati per sfruttare i punti di forza del digitale. La differenza, rispetto ad altre mie passate esperienze di e-learning, è evidente. Anche perché, nonostante la modalità di apprendimento asincrono, il MIP ha escogitato dei meccanismi che creano comunità, completando così l’esperienza didattica: io e i miei colleghi costituiamo una classe dove lo scambio, tra noi e con i docenti, è continuo», sottolinea Long.

Il social networking funziona anche a distanza

Anche Vanessa Ottone, che lavora per Accenture e segue il corso da New York, ha visto l’attuale situazione come un’occasione per investire nella propria formazione: «La pandemia non ha mai influito sulla mia decisione. Anche se le ricadute economiche e finanziarie ci porranno davanti a sfide impegnative, sono convinta che sul lungo periodo, ora più che mai, i leader dovranno dimostrarsi resilienti e completi. Un programma come l’EMBA può sostenermi in questa direzione e prepararmi a cogliere le opportunità che emergeranno dopo la crisi». Come Long, anche Ottone ha tratto ottime impressioni dalla sua prima settimana di corsi online: «Sono convinta che un programma come il Flex EMBA, che può contare sui migliori strumenti digitali oggi disponibili, possa dare vita a un network di relazioni solide, generando connessioni di valore tra tutti i partecipanti. Dopo una settimana di lezione, ho la sensazione che il tempo che trascorriamo insieme nei gruppi di lavoro ci permette di sviluppare delle interazioni interessanti e di stabilire connessioni durature».

La ricchezza di una classe internazionale

Non ha ancora cominciato il suo MBA full time, ma dall’India ha comunque confermato la sua partecipazione Pretyush Johari, ingegnere civile: «Certo, ho avuto dei dubbi sulla mia iscrizione, anche in vista di eventuali difficoltà logistiche. Diversi elementi, però, mi hanno spinto a non tirarmi indietro. A cominciare dalla ricchezza del programma di studi, così ben strutturato e così calzante con quello che finora è stato il mio percorso lavorativo e formativo. Ma una forte influenza l’hanno avuta anche i commenti positivi di alcune mie conoscenze, sia relativi al MIP, sia all’Italia. La prospettiva di entrare in una classe composta da persone di nazionalità diverse, provenienti da tutto il mondo e in grado di portare punti di vista differenti e innovativi, è assolutamente allettante, perché sono convinto che potremo imparare molto gli uni dagli altri. Infine, non vedo l’ora di potermi cimentare con il project work, dove potrò dare forma alle mie idee, anche grazie alle competenze che avrò affinato durante il master».

Dal pescatore al cliente, passando per il Mip: il caso Orapesce

Lo studio del settore food. L’idea nata sulle spiagge di Rimini. E poi il sostegno del Mip, seguito dalla scelta dell’equity crowdfunding: Giacomo Bedetti, alumnus Emba Pt 2016, ci racconta le origini di Orapesce, servizio di mercato ittico digitale.

L’innovazione nasce tra i banchi del Mip. Lo dimostra Orapesce, startup che opera nel mercato dell’ittico offrendo ai clienti la possibilità di acquistare online pesce fresco recapitato direttamente a casa. «Analizzando le performance del settore grocery, era evidente che la crescita dei consumatori digitali nel food fosse un fenomeno rilevante», ci spiega il fondatore Giacomo Bedetti, alumnus Emba Pt 2016, raccontandoci la genesi del progetto. «Poi, parlando con un amico pescatore di Rimini, si è accesa la scintilla da cui è scaturita l’idea».

Il valore aggiunto del Mip

Fino alla nascita di Orapesce, infatti, «non esisteva un servizio di mercato ittico digitale», racconta Bedetti. «Era un’opportunità da cogliere immediatamente, dando vita a una realtà business oriented». Nella fase di ideazione, il Mip ha avuto un ruolo importantissimo. «Poter approfondire il potenziale di questa idea durante l’Executive Mba che stavo frequentando è stato cruciale. Al fortissimo elemento motivazionale si è aggiunto il contributo del professor Antonio Ghezzi, che ci ha fornito le chiavi per leggere il business e le relative metriche. E poi abbiamo potuto contare sul sostegno e sull’esperienza di professionisti di valore». Una serie di elementi che si sono concretizzati in un’ottima partenza sul mercato: «La fase di project work di Orapesce si è conclusa nel luglio 2018, e abbiamo chiuso il 2019 con un fatturato di 100mila euro. Un risultato straordinario, che non sarebbe stato possibile senza il sostegno del Mip».

L’equity crowdfunding come volano comunicativo

In questo momento, Orapesce, dopo 14 mesi di attività, si trova in una fase delicatissima della propria vita. «È la dura realtà delle startup. O cresci, o muori», spiega Bedetti senza mezzi termini. Crescere significa ottenere numeri importanti, e spesso questi sono legati alla visibilità. «È uno dei motivi per cui abbiamo scelto di finanziare questo business sfruttando il modello di equity crowdfunding, che permette agli iscritti di investire in progetti innovativi. Siamo riusciti a portare Orapesce su Mamacrowd, che in Italia è la miglior piattaforma possibile per questo modello». A fine febbraio, Orapesce ha raccolto sulla piattaforma il 381% del goal minimo prefissato, per un totale di oltre 300mila euro. «Ma il fattore economico non è tutto», rivela Bedetti. «Mamacrowd per Orapesce è stata prima di tutto una vetrina commerciale. Non è facile ottenere l’attenzione di 100mila contatti, invece in questo modo abbiamo potuto sfruttare un vero e proprio effetto volano».

Obiettivo: diventare un marketplace

Chi ha visitato il sito di Orapesce si sarà poi accorto che non si limita a essere uno shop, ma propone anche una serie di contenuti rivolti agli utenti. «Il nostro obiettivo in questa fase è affermare un brand che vende pesce. Ma questo è solo il primo passo», spiega Bedetti. «Ciò a cui davvero puntiamo è il rafforzamento di un marketplace che metta in contatto consumatori e produttori. Nel nostro sviluppo futuro c’è un modello i cui guadagni si baseranno soprattutto sulle commissioni sugli scambi all’interno di questa rete». Per questo motivo il sito è ricco di ricette e di interviste a chef e pescatori: «Vogliamo usare le possibilità dei nuovi device per proporre un percorso al consumatore, e stabilire una forte identità digitale».

L’importanza delle competenze soft

E se nella struttura di Orapesce l’importanza del digitale va di pari passo con quella della logistica, non bisogna trascurare le competenze di general management che hanno permesso a Bedetti di dare vita a questa startup. «Attenzione, però. Non parlo tanto delle competenze hard, ma di quelle soft. Ho frequentato l’Executive Mba da over 40, avevo già una grande esperienza alle spalle. Non mi serviva un titolo in più da spendere, ma sentivo il bisogno di migliorare me stesso. Per questo ho scelto questo master. Non c’è nulla di più prezioso delle soft skill: saper negoziare, saper creare relazioni, essere un buon leader, oggi, sono competenze imprescindibili per chi aspira a diventare un manager o un imprenditore».

MIP Politecnico di Milano rafforza ulteriormente l’offerta didattica a studenti e imprese che vogliono sviluppare le proprie skill manageriali.

Presentati a studenti e imprese il Management Toolbox, il corso PE PM Flex e il D-HUB Management Skills.

 

MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business innova la propria offerta con corsi e strumenti specifici rivolti a coloro che intendono accrescere le proprie competenze manageriali con strumenti digitali. La Business School ha infatti istituito la raccolta Management Toolbox e il corso PE PM Flex, per i professionisti motivati ad ampliare le proprie conoscenze di management. Per le imprese, invece, MIP ha creato la piattaforma D-HUB Management Skills.

La Business School conferma così il suo impegno nella formazione digitale, riconosciuto anche dal quinto posto ottenuto dall’International Flex MBA nel QS Online MBA Ranking 2020, la classifica annuale che valuta le migliori scuole nell’erogazione di corsi online a distanza. L’International Flex MBA di MIP è anche l’unico programma italiano in distance learning tra i migliori 10 al mondo, il nono a livello internazionale e il quarto se si considerano solo le Business School europee, in base alla graduatoria stilata dal Financial Times, l’FT Online MBA Ranking 2020.

 

L’OFFERTA PER I PROFESSIONISTI

  • Management Toolbox:

Il Management Toolbox nasce con l’intento di supportare i professionisti nello sviluppo delle proprie imprese e fornire una raccolta di competenze “actionable” e strumenti utili a rafforzare le competenze necessarie per affrontare le sfide dei mercati contemporanei.

Attraverso questa nuova risorsa, aziende e professionisti potranno fare affidamento su un bagaglio di competenze selezionate, creato dalla Faculty MIP per dare un supporto pratico e consistente, pensato con la coscienza del passato e lo sguardo rivolto al futuro.

I contenuti di ciascun toolbox sono disponibili per un periodo di 2 settimane. Ciascun toolbox metterà a disposizione dei partecipanti strumenti ed elementi didattici innovativi (tra cui videoclip e sessioni live con i docenti) per veicolare i contenuti in modalità flessibile e “full Digital”.

Per avere maggiori informazioni e per le iscrizioni, visitare il sito.

 

  • PE PM Flex (Giugno 2020-Aprile 2021):

Il nuovo Percorso Executive in Project Management Flex intende proporre best practices e strumenti necessari alla massimizzazione delle performance di gestione dei progetti, nonché comunicare l’importanza della capacità di reagire alle imprevedibili variazioni della contingenza.

Il Percorso Executive in Project Management FLEX è erogato in lingua italiana, in formato distance learning e si compone in 8 moduli formativi di 3 settimane ciascuno. È previsto un project work finale con la consulenza di un membro della Faculty.

Il percorso tratta le tematiche presenti nei processi di certificazione delle due principali associazioni internazionali di project management: il PMI (Project Management Institute) e l’IPMA (International Project Management Association).

Per avere maggiori informazioni, visitare il sito.

 

L’OFFERTA PER LE AZIENDE

  • D-HUB Management Skills:

D-HUB Management Skills è la piattaforma sviluppata dal MIP Politecnico di Milano che consente ai dipendenti e ai collaboratori di imprese, associazioni e fondazioni di fruire in maniera semplice e intuitiva di contenuti volti a migliorare le competenze in materia di management. Sulla piattaforma sono disponibili infatti 24 corsi e oltre 950 clip relative alle principali aree del management contemporaneo. Lo strumento è attivo dalla metà di aprile e resterà operativo fino alla fine del 2020.

All’interno della piattaforma, i contributi sono organizzati in 7 aree tematiche, ciascuna delle quali è composta da diversi corsi. I programmi potranno essere fruiti in italiano e/o in inglese.

Al termine di ciascun corso ogni partecipante potrà effettuare un test. In caso di esito positivo, sarà rilasciata una certificazione che potrà essere visualizzata anche nel profilo Linkedin dell’allievo.

Per avere maggiori informazioni, visitare il sito.

MIP sostiene le imprese italiane per investire nella formazione del personale nel settore delle tecnologie 4.0

MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business è un istituto di eccellenza, ideale per favorire il miglioramento delle competenze della tua comunità aziendale.

Con MIP al tuo fianco, potrai fare affidamento a un partner con esperienza pluriennale nel campo dell’alta formazione, con una docenza d’eccezione riconosciuta a livello internazionale!

L’innovazione è uno dei pilastri della nostra Scuola: MIP Politecnico di Milano può essere pertanto il perfetto erogatore di corsi relativi al settore delle tecnologie 4.0 per la tua azienda. La Business School rientra tra i Soggetti Formatori riconosciuti per fornire questa tipologia di formazione, rispondendo a tutti i requisiti necessari.

Crediamo fortemente che alla base del progresso ci siano formazione e aggiornamento costante. Per questo, diamo una mano alle imprese italiane che vogliono investire nella formazione del personale sulle materie aventi ad oggetto le tecnologie rilevanti per la trasformazione tecnologica e digitale, attraverso la disciplina del credito di imposta.

Il credito di imposta è riconosciuto come segue:

  • 50% delle spese ammissibili e nel limite massimo annuale di €. 300.000 per le piccole imprese;
  • 40% delle spese ammissibili nel limite massimo annuale di €. 250.000 per le medie imprese;
  • 30% delle spese ammissibili nel limite massimo annuale di €. 250.000 le grandi imprese.

Per maggiori informazioni relativamente ai nostri incentivi riservati alle imprese, contatta: corporaterelations@mip.polimi.it

Global Business Services: al MIP arriva il GBS Certification Program

Filippo Passerini, considerato uno dei maggiori esperti al mondo in Global Business Services, illustra i vantaggi di una strategia GBS.

Una strategia rivolta alle grandi aziende, grazie alla quale è possibile ridurre i costi sfruttando le economie di scala, liberare risorse dalle mansioni più ripetitive e trasformare il modello del proprio business: «Si tratta fondamentalmente di aggregare servizi interni all’azienda, quando questi sono dispersi o duplicati in diverse organizzazioni. È questa l’essenza della GBS (Global business services, ndr)», spiega Filippo Passerini, direttore del GBS Certification Program per il MIP Politecnico di Milano.

La Gbs spiegata dai professionisti del settore

«Ho avuto la fortuna di costruire e gestire GBS in Procter & Gamble (P&G) per oltre 12 anni. Il nostro business ne ha tratto vantaggi enormi, sia in termini di riduzione dei costi che di innovazione. Vorrei ora creare valore per gli altri, aziende ed individui, diffondendo conoscenza e competenze», spiega Passerini. «Sono molto soddisfatto di poter lavorare con il MIP per questo programma: offre un’infrastruttura che permette di andare sul mercato in maniera efficace e certifica il rigore didattico dei contenuti. Questi ultimi saranno sviluppati da Inixia».
Inixia è un servizio di consulenza i cui advisor hanno tutti un’esperienza concreta di GBS e shared services: «Sono persone che, come me, hanno lavorato per P&G, il cui modello di GBS è riconosciuto come un vero e proprio benchmark. Inixia nasce con l’intento di creare un programma di certificazione che permetta alle persone di ottenere una qualifica in questo ambito».
La GBS, infatti, non si improvvisa, avverte Passerini: «Esiste una sequenza specifica di passi da seguire, che conduce a risultati migliori in maniera più rapida. C’è una strategia da seguire e anche per questo è importante acquisire competenze specifiche».
I numeri, d’altra parte, parlano chiaro: nel 2018 il valore di mercato dei global shared services ammontava a 56 miliardi di dollari, cifra che si prevede raddoppierà entro il 2025. Altrettanto tangibili i vantaggi per le aziende: fino al 50% della riduzione dei costi, insieme a una triplicazione nella creazione del valore. Gli ambiti di applicazione riguardano quasi tutti i servizi operativi e i processi di un’azienda, in qualsiasi settore: finanza, risorse umane, supply chain, acquisti, IT, processi di marketing e di vendita, centri di servizio per clienti e consumatori.

La Gbs e la digital transformation

Sarebbe sbagliato, però, pensare che la GBS, con ormai una storia ventennale alle spalle, sia una strategia statica. Basti pensare all’impatto che ha avuto la digital transformation sulla struttura organizzativa delle aziende. «Il digitale è una grande risorsa», illustra Passerini. «L’organizzazione attuale delle aziende costringe a utilizzare risorse, umane e materiali, in processi operativi a basso valore aggiunto, ma necessari. Ad esempio il ciclo di fatturazione, o dei pagamenti ai fornitori, oppure gli stipendi per i dipendenti, il processo degli ordini e numerosissimi altri processi interni: si tratta di attività essenziali, ma costituite da passaggi ripetitivi che non aggiungono valore al core business. GBS è un’ottima piattaforma per la trasformazione digitale: questi processi possono essere automatizzati e ottimizzati ulteriormente applicando nuove tecnologie. In questo modo si accrescono efficienza ed efficacia, le risorse vengono liberate per dedicarsi a compiti più strategici. I benefici possono variare molto, dalla “semplice” riduzione di costi a un motore per l’innovazione del modello operativo. Ed è qui che entra in gioco la competenza».

Come è strutturato il GBS Certification Program

Per questo, dunque, nasce il programma di GBS Certification per il MIP. «Si tratta di corsi brevi online, la cui durata va dalle sei alle 12 ore», spiega Passerini. «Il corso è strutturato in cinque livelli. Si comincia con il livello Foundation, che affronta i principii fondamentali della GBS. A questo seguono quelli che abbiamo definito pillars: Service Management, Operations Management, Transformation. Infine, il livello Leadership, conseguito il quale si ottiene la certificazione. L’abbiamo pensato un po’ come un percorso che segua una sorta di seniority manageriale, rivolto sia a chi è all’inizio dell’esperienza o in ruoli più operativi, sia a manager senior o leader di GBS. È un processo di vera e propria professionalization, per usare un termine inglese che trovo molto calzante in questo caso. L’obiettivo è formare persone altamente competenti».

Eccellenze nella formazione digitale: la School of Management del Politecnico di Milano è l’unica italiana a ottenere la certificazione EOCCS per i master Executive MBA.

Il riconoscimento promosso da EFMD (European Foundation for Management Development) premia l’offerta didattica dedicata alla formazione manageriale di 22 atenei in tutto il mondo.

La School of Management del Politecnico di Milano si conferma l’unica business school italiana a ottenere la certificazione EOCCS (EFMD Online Course Certification System) per i propri corsi erogati in digital learning nei master Executive MBA. EOCCS è un sistema di valutazione d’élite riservato ai corsi online e creato da FMD (European Foundation for Management Development), la più prestigiosa istituzione a livello europeo nella promozione della formazione e dello sviluppo manageriale.

Nel 2017 erano solamente 35 i corsi a poter vantare questo riconoscimento in Europa, distribuiti in 11 atenei. Oggi EOCCS premia in totale 22 scuole al mondo.

Il riconoscimento EOCCS, che ha una durata triennale, è stato attribuito a due corsi del MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business: Innovation Management, percorso presente all’interno dell’offerta International Flex EMBA, in lingua inglese, e il corso in Supply Chain Management and Purchasing che fa parte del programma Flex EMBA, in italiano. Si tratta di una importante riconferma, dal momento che entrambi avevano già ricevuto la certificazione EOCCS nel dicembre 2017. I due corsi sono erogati in modalità full digital.

La certificazione EOCCS rappresenta una ulteriore garanzia di qualità all’interno dell’offerta didattica dedicata ai corsi online che si è rafforzata anche per le necessità suggerite dalla pandemia. Il riconoscimento del marchio EFMD permette di scegliere i migliori percorsi di studio in modalità online, che siano in grado di coniugare la grande flessibilità nella fruizione, il rigore metodologico, il livello di insegnamento, e il mantenimento della qualità nelle relazioni interpersonali confrontabile con i corsi in aula.

Vittorio Chiesa e Federico Frattini, Presidente e Dean di MIP Politecnico di Milano: “Siamo orgogliosi di questa nuova certificazione EOCCS, che segue quella ricevuta nel 2017. Un riconoscimento che premia il lavoro svolto dal nostro istituto accademico dal 2013, per offrire un’offerta didattica sempre più flessibile e coerente alle esigenze di ciascun studente.

Appartenere a questa élite di scuole diventa ancor più gratificante in un periodo che suggerisce la straordinaria importanza di un’adeguata offerta didattica digitale. Il processo di digitalizzazione ha dimostrato di poter moltiplicare le opportunità di apprendimento superandone limiti e confini. Per affermarsi come strumento in grado di garantire un approccio inclusivo all’insegnamento anche in futuro”.

Dall’energia all’arte: il successo di Itisartime

L’esperienza di due alumni del Master in Energy Management che gestiscono insieme Itisartime, pagina Instagram da mezzo milione di follower. Dall’incontro tra i banchi del MIP allo sviluppo di una mentalità imprenditoriale, seguendo i concetti di progresso, innovazione e mutamento.

Che relazione c’è tra il Master in Energy Management del MIP Politecnico di Milano e una pagina Instagram da oltre 450mila follower che parla di arte? Apparentemente nessuna, ma in realtà il legame c’è, e va oltre il fatto che gli animatori di Itisartime, Alessandro Brunelli e Andrea Del Moro, siano entrambi degli alumni del MEM. «Arte ed energia condividono il concetto di progresso. L’arte è creatività per definizione, e a sua volta la creatività è innovazione e mutamento. E quali sono le parole oggi più diffuse nei congressi sull’energia? Progresso e rivoluzione», spiega Brunelli.

Un progetto in divenire

L’esperienza di Itisartime parte da lontano. «In parte coincide con la mia storia personale», racconta Brunelli. «A 19 anni cominciai a collezionare piccoli pezzi d’arte che sembravano parlare di me; mostrarli a tutti attraverso i social mi sembrava un modo innovativo di raccontare me stesso». Una visione che pian piano si è espansa: «Quando mi sono reso conto che il mondo dell’arte era sconfinato, ho deciso di andare oltre quella limitazione e ripostare invece tutte quelle opere che si distinguevano rispetto alle altre. Quello è stato il vero atto di nascita di Itisartime, un progetto che ha visto la luce nel 2015».
Il successo della pagina, che ha portato i due anche all’Affordable Art Fair di Milano, inizialmente ha colto Brunelli di sorpresa. «Non avrei mai pensato di sfiorare il mezzo milione di persone». Grandi numeri che impongono qualche riflessione sul futuro del progetto. E anche da questo punto di vista il Master in Energy Management un ruolo importante l’ha giocato: «Lì ho conosciuto Andrea, che si è quindi unito al progetto in una fase successiva. Ha ottime doti comunicative, un’ampia visione commerciale e di progetto. Per tutti questi motivi è salito a bordo, per trasformare Itisartime in una realtà più solida. Aspiriamo a diventare un riferimento per il settore», rivela Brunelli.

Cinque idee per l’arte in Italia

Sullo stato dell’arte in Italia, e su ciò che riguarda la sua comunicazione e diffusione al grande pubblico, Brunelli ha le idee chiare: «Il potenziale del nostro Paese è enorme, lo sappiamo. Ci sono iniziative che secondo me hanno costituito degli importanti passi avanti. Penso a Domenicalmuseo, ad esempio, che avvicina molte persone ai luoghi dell’arte. Ma anche il connubio tra arte e cinema può destare interesse in chi magari è stanco delle solite mostre». Non mancano, ovviamente gli ambiti in cui sarebbe possibile fare qualcosa in più: «Bisognerebbe mantenere e incrementare le sovvenzioni ai fondi come il Fai o agli spazi espositivi privati, come l’Hangar Bicocca o la Fondazione Prada, per fare degli esempi. L’appeal tra i giovani crescerebbe. In secondo luogo, qualsiasi iniziativa dovrebbe essere veicolata attraverso un canale informativo e divulgativo. Infine, provare a trasformare i problemi in soluzioni. Penso alla street art e all’urban art: investire su progetti a tema potrebbe trasformare gli atti di vandalismo in opere d’arte, grazie alle quali magari riqualificare zone periferiche».

Il valore aggiunto del Master in Energy Management

Tra queste e altre suggestioni, Itisartime guarda al futuro. E lo fa grazie anche ad alcuni insegnamenti che Brunelli e Dal Moro hanno appreso durante il Master in Energy Management: «Io ho una formazione di tipo ingegneristico, Andrea di tipo economico. La prima cosa che fa il master è mettere in relazione persone con percorsi diversi: è dal confronto tra punti di vista ed esperienze differenti che nascono le buone idee. È stato un incontro davvero fortunato, se pensiamo che adesso collaboriamo in un settore così avulso dalle nostre esperienze formative. Il master ci ha poi fornito spunti di miglioramento professionale e più in generale di personal development. Se oggi valutiamo le occasioni lavorative legate a Itisartime con una mentalità imprenditoriale, il merito è del MEM», conclude Brunelli.

E’ economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale nell’ “era coronavirus”?

La profonda crisi causata dall’emergenza sanitaria costringe le imprese ad un taglio dei costi e degli investimenti non indispensabili, con un forte ridimensionamento di quelli finalizzati alla trasformazione ambientale. Con l’incremento complessivo del debito pubblico dei paesi, come sarà possibile sostenere la sostenibilità ambientale e reperire le risorse necessarie per finanziarla?

 

Umberto Bertelè, Professore Emerito di Strategia del Politecnico di Milano

 

Che fine ha fatto Greta?”, si chiedeva La Repubblica in un articolo del 22 marzo di quest’anno. Ancora a fine febbraio, meno di un mese prima, Greta Thunberg era riuscita a portare in piazza 15mila giovani per il “Bristol Youth Strike 4 Climate (BYS4C) event” e a dicembre – al massimo della notorietà – era stata posta dalla rivista Time in copertina come “2019 Person of the Year”, dopo gli interventi a Davos e all’ONU.
Poi di colpo, con l’arrivo del lockdown in Europa e negli US, il quasi oblio: a testimonianza della velocità con cui nel giro di pochi giorni erano radicalmente cambiate le priorità delle persone, meno preoccupate per l’impatto – percepito come lontano nel tempo – del cambiamento climatico generato dal global warming che non per i rischi immediati per la salute e la stessa sopravvivenza e quelli appena successivi connessi con le pesanti conseguenze economiche e occupazionali (30 milioni di disoccupati nell’UE e oltre 30 negli US prima della riapertura) del lockdown. Con il lockdown che viceversa – bloccando larga parte delle attività e riducendo drasticamente gli spostamenti – aveva un effetto benefico, ma temporaneo (a meno di una poco auspicabile caduta permanente dell’economia), su tutti i parametri ambientali.
E meno di un mese dopo, il 14 aprile, il Financial Times titolava un suo corposo servizio su questo tema “How coronavirus stalled climate change momentum – Emissions have fallen but the pandemic will hit policy commitments as nations look to kick-start their economies”. E in due successivi articoli degli inizi di maggio le domande (in evidenza nei titoli) erano: “Can companies still afford to care about sustainability?” e “Can we tackle both climate change and Covid-19 recovery?”.

 

Prima del lockdown: con l’uscita dalla “grande crisi” l’ambiente conquista una posizione di testa nella scala delle priorità sociali

Il tema “ambiente” – la guerra contro il global warming ma anche quella contro l’uso della plastica o contro l’inquinamento urbano – aveva assunto, con la ripresa dell’economia mondiale dopo la grande crisi iniziata nel 2008, una rilevanza quasi contagiosa. Non più riservato ai soli ambientalisti, esso riscuoteva ampi consensi (o almeno simpatie) in fasce crescenti della popolazione, fra i giovani in primo luogo, anche se non era altrettanto diffusa la coscienza dei costi e dei trade-off che il perseguimento degli obiettivi ambientali – la decarbonizzazione in primo luogo – avrebbe comportato. L’accordo formalmente sottoscritto da 195 Paesi nella conferenza sul clima di Parigi (COP21) di dicembre 2015 aveva creato un clima di ottimismo sulla possibilità di un’azione internazionale coordinata e proiettata nel tempo contro il global warming, anche se già prima del lockdown ampie crepe si erano manifestate al momento di rendere operativi i primi passi degli accordi: per il rovesciamento di fronte da un lato degli US, dopo l’avvento alla presidenza di Trump, e per l’ambivalenza dall’altro della Cina, formalmente allineata con l’UE ma pronta a ricorrere al carbone per incrementare la produzione elettrica. Con la UE però fortemente determinata non solo a proseguire i suoi programmi (quale quello relativo al mondo dell’auto diventato operativo quest’anno), ma a fare dell’ambiente – con l’European Green Deal lanciato da Ursula von der Leyen al momento dell’assunzione della presidenza della Commissione – il punto focale della strategia di crescita dell’economia comunitaria.
L’attenzione verso l’ambiente sembrava essere diventata una sorta di obbligo pure per le imprese, non solo per obblighi di legge o ragioni di immagine ma anche, per le quotate in particolare, come conseguenza dell’enorme successo dei fondi ESG-Environmental Social and Governance – la cui consistenza era arrivata a molte migliaia di miliardi di $ – per statuto obbligati a investire in imprese eco-friendly, oltre che attente al benessere di dipendenti e collaboratori e al rispetto delle regole di governance. In questo contesto, il CEO di BlackRock (primo gruppo di asset management al mondo) era arrivato, a seguito delle critiche di inazione da parte dei movimenti ambientalisti, a minacciare di votare contro la rielezione di CEO e consiglieri delle imprese partecipate che non si fossero mostrate sufficientemente attive nel promuovere investimenti e comportamenti coerenti con gli obiettivi ESG.
Alle imprese – a partire da quelle quotate di dimensione maggiore – veniva sempre più richiesto non solo di essere eco-friendly, ma anche di evidenziare nei loro bilanci i rischi connessi con l’ambiente. Questo per la convinzione che il cambiamento climatico (in una proiezione temporale più lunga) e (soprattutto e da subito) le misure adottate dagli Stati per combatterlo – un mix di aiuti finanziari e di crescenti divieti – potessero stravolgere gli equilibri del sistema delle imprese, generando quella che in un mio articolo dello scorso anno avevo denominato eco-disruption (in analogia con la digital disruption): mettendo in estrema difficoltà comparti come quello petrolifero (per la spinta alla decarbonizzazione e l’incentivazione di fonti energetiche alternative pulite) e quello automobilistico tradizionale (costretto a chiudere molte attività e a investire pesantemente nell’elettrico) e facendone crescere altri più rispondenti alle nuove esigenze.
Di conseguenza, e coerentemente, i banchieri centrali (a partire da quello UK) spingevano per l’affiancare agli stress test – diventati ormai una consuetudine dopo la “grande crisi” – i “climate” stress test, volti a valutare la resilienza delle banche a fronte dell’accentuarsi di fenomeni di eco-disruption. E si cominciava a parlare di “green” quantitative easing, immaginando interventi simili a quelli attuati da Draghi come capo della BCE, ma a favore questa volta delle grandi risorse che gli Stati e le imprese avrebbero dovuto mettere in gioco per la trasformazione ambientale.

 

Con la profonda crisi causata dal lockdown la sostenibilità economica e occupazionale torna a essere la priorità fondamentale

Con la contrazione dei fatturati della grande maggioranza delle imprese a causa del lockdown, con la conseguente enfasi sulla liquidità – e quindi sul taglio dei costi e degli investimenti non indispensabili – come condizione per la sopravvivenza di molte di esse, con l’enorme crescita dei “non occupati” o “parzialmente occupati”, con l’ovvio aumento delle incertezze sul futuro, le priorità (come detto) sono immediatamente cambiate e tale cambiamento presumibilmente perdurerà almeno in parte sino al consolidarsi del rilancio – auspicato ma assolutamente incerto nei tempi e differenziato per Paesi – dell’economia. La maggior coscienza ambientale sviluppatasi negli ultimi anni permane come valore di fondo della società, come molte indagini svolte in vari Paesi evidenziano, ma con una influenza minore sui comportamenti delle imprese e sulle allocazioni delle risorse pubbliche.
Concentrando il discorso sulle imprese, l’enfasi sulla liquidità come condizione di sopravvivenza comporta per larga parte di esse – al di là delle dichiarazioni ufficiali (soprattutto delle quotate) sull’importanza degli obiettivi ambientali – un forte ridimensionamento o dilazione nel tempo degli investimenti strettamente finalizzati alla trasformazione ambientale. Mentre l’attenzione all’ambiente permane – come obiettivo in sede di progettazione – nella messa a punto degli investimenti finalizzati alle esigenze di business: una attitudine importante, che potrà essere rafforzata ponendola come prerequisito per l’accesso alle risorse pubbliche specificamente erogate per il ridecollo dell’economia.
I fondi ESG a loro volta, che devono proteggere il valore degli investimenti fatti, tendono a non forzare le imprese a investimenti ambientali che ne possano mettere a rischio la sopravvivenza e a limitare gli interventi critici a quelle patrimonialmente solide che palesemente rifiutino di darsi obiettivi ambientali: come di recente avvenuto con LGIM – primo gruppo di asset management inglese – che ha accusato Exxon Mobil, di cui è uno dei principali azionisti, di “lack of strategic ambition around climate change”, a differenza di BP e Shell che si sono date l’obiettivo “net-zero”, e ha deciso di votare contro la riconferma di CEO e chairman.

 

Il lockdown ha avuto un impatto benefico su tutti i parametri ambientali, ma cosa accadrà con il progressivo ritorno a una qualche forma di normalità?

È ovvio che, nel momento in cui – per ordine dei governi – larga parte delle attività produttive e commerciali viene sospesa e gli spostamenti vengono quasi cancellati per il confinamento di una quota elevata della popolazione, le fonti inquinanti si riducono drasticamente e i parametri ambientali presentano tutti rilevanti miglioramenti. È ovvio che, più lenta sarà la ripresa, più lentamente i livelli di inquinamento torneranno ai valori precedenti la crisi da coronavirus. È altrettanto ovvio che questa non è la soluzione per i problemi ambientali, per cui sono necessari interventi più strutturali, anche se le nuove abitudini sviluppate durante il lockdown – quali il più diffuso utilizzo dell’ecommerce, il ricorso massiccio al remote working e alla formazione a distanza, la telemedicina, la disponibilità di strumenti molto più efficienti per le interrelazioni online (per ragioni di lavoro ma non solo) e per l’organizzazione di eventi online (con partecipanti attivi sempre più numerosi) – lasceranno presumibilmente tracce profonde nei nostri stili di vita e di lavoro, riducendo ceteris paribus la pressione sull’ambiente.
Facebook ha ad esempio annunciato un profondo ripensamento della strutturazione delle sue attività, che prevede che nel giro di qualche anno la metà dei dipendenti operi in remote working e abbia una remunerazione correlata con il costo della vita dei luoghi in cui vivono: con un vantaggio economico diretto, dati il costo della vita ormai proibitivo nell’area di San Francisco, ma con un impatto significativo – se saranno molte le imprese della Silicon Valley che (come già Twitter, Square e Shopify) seguiranno la stessa strada – sul decongestionamento del territorio e sulla salute dell’ambiente.
Di converso uno stimolo all’aumento della carbonizzazione potrebbe pervenire dal crollo dei prezzi dei carburanti fossili – del petrolio in primo luogo – legato non solo agli scontri fra Paesi produttori (Arabia Saudita, Russia e US i grandi protagonisti), ma anche e soprattutto dal crollo della domanda causato dal lockdown: crollo destinato ad attenuarsi con la progressiva uscita dal lockdown, ma molto sensibile a quelli che saranno i tempi della ripresa. Prezzi eccessivamente bassi delle materie prime fossili significano, soprattutto in una fase di emergenza economica, scarsi stimoli agli investimenti in energie pulite (quali la solare o l’eolica) o addirittura – come accennato in precedenza per la Cina – ricorso a materie prime come l’economicissimo carbone per alimentare le nuove centrali elettriche.

 

Gli elevati costi della “decarbonizzazione” e le difficoltà politiche per attuarla

La trasformazione ambientale non si identifica con la sola guerra al global warming, ma non c’è dubbio che sia quest’ultima a richiedere gli sforzi di gran lunga maggiori se si vuole puntare all’obiettivo – più o meno proiettato nel tempo – di rendere carbon neutral l’economia e la società mondiale: sforzi nel contempo economici, perché senza risorse si fa poca strada, e politici.
L’entità delle risorse da mettere in gioco è molto elevata: da parte in primo luogo delle imprese, non tutte in grado di sopravvivere ai nuovi standard (da cui il termine eco-disruption sopra accennato); da parte delle famiglie, che devono adeguare fra l’altro le loro abitazioni e i loro mezzi di trasporto privati (operazioni tanto più ardue quanto più stagnante è l’economia); da parte degli Stati, per incentivare le imprese e la famiglie e per finanziare gli interventi infrastrutturali necessari. Molto ambizioso ad esempio il Green New Deal, lanciato a fine 2018 negli US dai rappresentanti democratici alla Camera dopo il favorevole esito delle elezioni di mid term ma bocciato dal Senato, che si proponeva di rendere carbon neutral l’economia statunitense entro il 2030. Un obiettivo poi ripreso dai candidati democratici nelle successive primarie, che avevano anche definito le cifre annue (con gli ovvi limiti di credibilità delle promesse elettorali) che avrebbero fatto stanziare a livello federale se eletti presidenti: 170 miliardi di $ all’anno Joe Biden, il più moderato, vincitore in pectore delle primarie; 300 miliardi Elisabeth Warren; addirittura oltre 1.600 Bernie Sanders, il più radicale, principale oppositore di Biden. Meno ambizioso nella scelta dell’orizzonte temporale di raggiungimento della neutralità (il 2050 invece che il 2030) e nelle cifre (1000 miliardi di euro complessivi in 10 anni incluse però le risorse di imprese e Stati membri attivate), l’European Green Deal visto in precedenza, approvato formalmente dal Parlamento Europeo con una richiesta di irrobustimento ma non operativo.
Le cifre citate sono troppo elevate o insufficienti (io propenderei per questa seconda ipotesi) per conseguire gli obiettivi dichiarati? Le cifre tengono conto della necessità di bilanciare l’inevitabile disruption di parte dell’economia provocata dalle nuove regole, prevedendo che sia la crescita delle attività eco-friendly a fornire la compensazione, o sono necessari investimenti addizionali agevolati dalla mano pubblica?
Accanto ai problemi economici, il conseguimento della neutralità su scala mondiale pone problemi politici molto severi: che cosa accade se non si trova un accordo almeno tra i tre principali attori della scena mondiale, US, UE e Cina? È possibile che una singola area si muova da sola, come ufficialmente vuole fare l’UE, senza poi porre vincoli agli scambi commerciali con le aree che – non dovendo rispettare gli stessi vincoli – sono più competitive (non è un caso a tale proposito che la Francia ponga come condizione per gli accordi post-Brexit il rispetto da parte dell’UK degli accordi di Parigi)? Chi si prende l’onere di aiutare finanziariamente le aree più povere del mondo a crescere nel rispetto delle regole di neutralità, affrontando costi sensibilmente maggiori ad esempio nella produzione di energia – almeno fino a quando il prezzo delle materie prime fossili rimarrà basso – o nei trasporti?
Non sono domande cui sono in grado di rispondere, ma che a mio avviso richiederebbero riflessioni molto più approfondite di quelle che molto spesso si sentono nei dibattiti o si trovano in letteratura e sulla stampa.

 

La guerra per la sostenibilità economica “post-lockdown” strappa risorse a quella per la sostenibilità ambientale

“I Paesi ricchi – i Paesi cioè con 1,3 miliardi di abitanti facenti capo all’OCSE stessa – sono destinati a subire un incremento complessivo dei loro debiti pubblici di almeno 17 trilioni di $ (quasi otto volte il PIL italiano) come conseguenza della pandemia, per l’effetto congiunto delle misure di salvataggio e di stimolo già poste in atto e (in misura probabilmente maggiore) della caduta a picco prevista per le entrate fiscali. Il livello di indebitamento medio, pari a oltre 13mila $ per abitante, passerà conseguentemente dal 109 al 137 per cento del PIL, ovvero al livello ante-coronavirus dell’Italia. E le cose potrebbero andare anche peggio, se il recupero richiedesse più tempo di quanto previsto, ponendo addirittura dubbi sulla sostenibilità di lungo termine del debito stesso”. È una mia libera traduzione della dichiarazione dell’OCSE riportata con grandissima evidenza dal Financial Times il 24 maggio.

 

Rimangono ancora risorse per finanziare la “decarbonizzazione”?

È la domanda questa che echeggia il titolo dell’articolo: è economicamente sostenibile la sostenibilità ambientale oppure il reperimento delle risorse necessarie per finanziare la trasformazione ambientale (la decarbonizzazione in primo luogo) – già arduo prima del coronavirus – sarà sempre più difficile in un mondo sempre più indebitato? È possibile utilizzare a vantaggio anche dell’ambiente almeno parte delle enormi risorse destinate al salvataggio delle imprese e delle famiglie e al rilancio dell’economia, come apparirebbe razionale fare e come da più parti è richiesto?
Per quanto concerne il primo punto, non c’è dubbio che, data la rilevanza delle cifre da mettere in gioco per finanziare la decarbonizzazione e dati i livelli di guardia raggiunti dall’indebitamento complessivo (pubblico più privato), un ulteriore consistente ricorso all’indebitamento non è impossibile – lo si è fatto ad esempio da sempre nei periodi di guerra – ma comporta rischi crescenti di destabilizzazione del sistema economico-finanziario mondiale. Si procederà o meno in questa direzione? Banalmente credo che giocherà un ruolo fondamentale il livello di percezione del pericolo: l’emergenza economica post-lockdown ha attirato grandi risorse perché è immediatamente visibile, i danni che il cambiamento climatico potrebbe provocare (dal rialzo del livello del mare alla desertificazione di un numero crescente di aree ..) al momento lo sono in misura molto ridotta.
Per quanto concerne il secondo punto, la Commissione UE – nelle sue annuali raccomandazioni-Paese pubblicate il 20 maggio – ha auspicato che la grave recessione provocata dalla pandemia sia l’occasione per accelerare la riforma dell’economia, sulla base soprattutto dei due obiettivi, trasformazione ambientale e trasformazione digitale, che l’UE stessa si è data. Simile la raccomandazione che The Economist del 21 maggio ha posto in copertina di un numero in larga parte dedicato alle tematiche ambientali: “A new opportunity to tackle climate change: Countries should seize the moment to flatten the climate curve. The pandemic shows how hard it will be to decarbonize – and creates an opportunity“. Sono considerazioni in linea di principio molto condivisibili, perché si rifanno all’esperienza storica che sono le grandi crisi che creano le opportunità per le grandi trasformazioni. Con un limite però: è a mio avviso molto ridotta la quota di risorse pubbliche post-lockdown
destinate al rilancio dell’economia – l’unica che può essere impiegata anche con finalità ambientali – rispetto a quella volta a evitare i fallimenti delle imprese o a garantire un reddito alle famiglie colpite dalla crisi.
L’Italia, in questo contesto, soffre di una doppia criticità: ha meno risorse da mettere in gioco, dato il livello potenzialmente esplosivo del nostro debito pubblico; destina al rilancio una quota probabilmente più bassa rispetto ad altri Paesi, per la nostra tradizionale preferenza a mantenere in vita le imprese decotte (non faccio nomi) piuttosto che a investire in innovazione.

Al via illimity academy: primo master in gestione del credito in collaborazione con MIP Politecnico di Milano

Illimity, gruppo bancario ad alto tasso tecnologico fondato e guidato da Corrado Passera, ha istituito illimity academy, la corporate business school studiata per creare percorsi di alta formazione economica e finanziaria per i nuovi professionisti del credito attraverso programmi didattici e training sul campo. 

Il primo Master di illimity academy è dedicato alla gestione del credito ed è stato strutturato in collaborazione con MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business che ne cura la direzione scientifica. Il Master, in partenza a settembre 2020, mira a formare gli Asset Manager di nuova generazione di neprix, il servicer specializzato nella gestione dei crediti distressed corporate di illimity. 

Il percorso formativo, che combina stage retribuito per 6 mesi con la formazione diretta curata da docenti provenienti dal mondo universitario e della consulenza, oltre che dal management di illimity, avrà una durata di sei mesi ed è rivolto a 25 laureandi e neolaureati in materie sia umanistiche che scientifiche che abbiano conseguito un titolo di studio (Laurea o Master) da non oltre 1 anno. 

Al termine del Master i profili che si distingueranno per capacità, motivazione e potenziale verranno assunti a tempo indeterminato come Junior Asset Manager. 

La selezione dei candidati al Master avverrà in due fasi: la prima prevede l’invio entro il 30 giugno della candidatura e di un video motivazionale attraverso www.illimity.com/mastercredito, mentre nella seconda fase i candidati selezionati affronteranno interviste volte a valutare competenze, potenziale e profilo in linea con i valori e la cultura aziendale di illimity. 

Per gli studenti selezionati, la frequenza del Master sarà giornaliera e alternativamente distribuita in aula (400 ore) e presso la sede milanese di illimity dove si svolgerà lo stage (540 ore). 

Il gruppo illimity si farà carico della maggior parte dei costi del Master il cui valore è di 10.000€. Ai candidati selezionati verrà infatti richiesto un contributo di 2.000€ che verrà rimborsato in caso di assunzione. Saranno inoltre messe a disposizione borse di studio e il percorso di stage sarà interamente retribuito (700€ lordi al mese oltre ai buoni pasto). 

Marco Russomando, Head of Human Resources di illimity, ha dichiarato: “abbiamo deciso di promuovere illimity academy per scommettere ancora una volta su giovani donne e uomini di talento e formare le nuove professionalità del futuro. In illimity le persone sono la nostra vera forza e risorsa e i numeri lo dimostrano: in poco più di un anno, contiamo già quasi 500 illimiters di ogni età, provenienti da 120 settori, 19 Paesi e con un’età media di 36 anni. Abbiamo puntato sulle nuove generazioni fin dall’inizio e vogliamo continuare a farlo. Siamo quindi estremamente felici di intraprendere questo percorso e di avere riscosso interesse e disponibilità dal mondo accademico a partire da un partner di altissimo livello come il MIP Politecnico di Milano”. 

Laura Grassi, docente del MIP in area finance e Direttore Scientifico del Master: “Puntare alla formazione continua, selezionare giovani talenti, promuovere l’innovazione del business dell’azienda e coinvolgere gli stessi manager che guideranno il cambiamento sono le caratteristiche distintive di questo Master. Un Master in cui MIP, la business school del Politecnico di Milano, ha messo a disposizione le sue competenze e conoscenze e ha creduto nello spirito collaborativo dell’iniziativa dove Professori di importanti Atenei italiani si alterneranno in aula insieme a rinomati Professionisti e al Top Management di illimity”. 

Come le aziende del lusso si stanno preparando al post Covid-19

L’emergenza legata alla pandemia del virus Covid-19 sta avendo impatti significativi anche sull’industria del lusso: i più importanti player del settore hanno già iniziato a rivedere le loro strategie, alla luce del fatto che le minacce legate a cambiamenti strutturali nel mercato potrebbero per alcuni trasformarsi in opportunità.

 

Alessandro Brun, Professore di Quality Management, Direttore del Global Executive Master of Luxury Management e fondatore Sustainable Luxury Academy
Co-autrice Cecilia Castelli, Extended Faculty MIP Graduate School of Business

School of Management Politecnico di Milano

Nella prima parte di questo articolo (L’impatto del Covid-19 sulle abitudini di acquisto dei clienti del lusso) abbiamo mostrato i principali cambiamenti che ci attendiamo nel settore. I manager dell’industria del lusso non stanno certo fermi a guardare.
Mentre le fabbriche sono state convertite a – e dal New York Post [i] al the Guardian [j] arrivano i plausi ad Armani che realizza camici, Prada e Gucci mascherine, Bulgari si focalizza sull’hand-sanitizer, e anche la tecnologia di Ferrari viene messa al servizio dell’emergenza per realizzare Respiratori – nelle stanze dei bottoni si pensa già alle strategie per il dopo-Covid.

 

Le reazioni dei brand

Come si stanno muovendo i brand del lusso oggi? Ce ne parlano Lorenzo Bertelli, Head of Marketing and Head of CSR di Prada, Giorgio Ravasio, Country Manager Vivienne Westwood Italia, ed Eugenia Di Muzio, Worldwide Commercial Manager Rene Caovilla.

Per Bertelli: “Riteniamo che verrà assegnata più importanza al valore intrinseco del prodotto (ad esempio per l’eccellenza delle lavorazioni, dei materiali), ma non a scapito del valore del brand, non è un trade-off. I valori rappresentati dal brand saranno ancora più importanti nel momento in cui saranno percepiti come credibili. Il consumatore chiederà maggiore trasparenza e l’attenzione ai temi della sostenibilità diventerà ancora più centrale, non solo rispetto al prodotto ma anche con riferimento alla mission aziendale. Ipotizziamo una rinnovata scoperta delle relazioni interpersonali nei comportamenti d’acquisto, con rapporti più diretti e umani. Attendiamo una maggiore elasticità della domanda al prezzo anche nelle fasce premium quale conseguenza di un atteggiamento d’acquisto più consapevole e orientato a prediligere prodotti con un riconoscibile valore intrinseco”.

E’ simile la percezione di Ravasio: “Gli acquisti saranno più consapevoli per due motivi principali: la diminuzione dei redditi e la riflessione generata da una situazione nuova che ha reso l’umanità più fragile e meno certa. Sopravviveranno i brand che hanno una forte identità, che lavorano con bene in mente la qualità del prodotto, l’affidabilità del servizio, la garanzia di continuità e che rappresentino dei forti valori in tema etico, ambientale e sociale. Chi non sarà in grado di dare questi messaggi non sopravviverà a lungo e il Covid-19 non ha fatto altro che accelerare un processo di trasformazione già in atto”.

Per Vivienne Westwood l’on-line è “esploso letteralmente. I negozi fisici saranno di meno ma saranno tutti rinnovati per dare la migliore presenza e immagine possibile ai brand. Diventeranno ambasciatori dei valori del brand e consulenti del cliente per valorizzare la propria immagine. Chi sarà semplicemente alternativo all’on-line senza offrire nulla di più non avrà futuro. La tendenza che sarà accelerata sarà legata alla “maisonizzazione” della filiera distributiva. Come già successo per la produzione, ci si avvierà verso la gestione diretta della catena retail. Sarà un processo graduale ma credo inesorabile” conclude Ravasio.

Anche la risposta di Prada è all’insegna della continuità, in quanto – prosegue Bertelli “Il retail non sarà accantonato e rimarrà centrale in una strategia omnichannel dove conterà ancora di più l’integrazione tra i vari canali diretti, retail ed e-commerce diretto, e indiretti, market place e wholesale. Il consumatore premium, ma anche i marchi di questa fascia, vogliono sempre meno intermediari, sia nel fisico che nel digitale; si tratta [per Prada] di un trend già in essere che sta subendo un’accelerazione a seguito di questa crisi”.

Per Caovilla, “In un’integrata ottica multichannel, non avremo più assortimenti e stock segregati per punto vendita o città, ma un unico grande stock, orientato all’unico risultato che conta: la vendita del prodotto al cliente a prescindere dalla location in cui essa avviene.
Ciò richiederà sforzi di ammodernamento di sistemi gestionali e operativi nonché di flussi logistici e di un rodato meccanismo di consegne, spedizioni e resi. Anche il mondo dei negozi retail cambierà sia in ottica di assortimento delle collezioni, sia in ottica di esperienza di vendita. Le nuove norme improntate al rispetto della social distance, renderanno necessario ridisegnare gli spazi dei punti vendita, in chiave di maggiore separazione e distanza. Tuttavia, squisitamente nell’ambito del lusso questa nuova esperienza di vendita, lascia intravedere anche un’opportunità di ridisegnare per il cliente una esperienza di ulteriore unicità ed esclusività. Una esperienza di vendita one-to-one simile agli appuntamenti negli atelier di Haute Couture. Ancora una volta una potenziale opportunità derivata da una nuova restrizione imposta”.

Ma ciascun canale dovrà trovare il modo di raggiungere il break-even, come spiega Di Muzio: “Un grosso interrogativo, per le aziende con negozi retail, sarà come sostenere finanziariamente la rete di punti vendita e flagship stores con elevati costi di gestione, a fronte di una vendita che avviene sempre di più online. Il retail rimarrà sempre e comunque la massima espressione dei valori visibili del brand e dovrà fare lo sforzo di cambiare, di rendersi meno ovvio e di provare al consumatore l’effettivo vantaggio di una store experience. Che sia con collezioni dedicate, con momenti di puro intrattenimento tramite eventi dedicati o inviti a esperienze uniche per i clienti più loyal, o offrendo ai clienti servizi in più – dal made to order alla consulenza di immagine, al supporto in ottica cross-selling e total look. Certamente contare solo sulla disponibilità dell’assortimento in attesa che il cliente varchi l’ingresso non sarà più percorribile”.

Di Muzio racconta come stanno gestendo l’emergenza nel breve in Rene Caovilla, per tenere in vita le piccole realtà locali: “Certamente pur non esistendo la ricetta perfetta, un buon mix di interventi mirati alla riduzione dei costi del personale in un’ottica di maggiore efficienza, uniti agli aiuti stanziati dai vari governi, insieme ad una stretta collaborazione tra aziende della filiera, sono gli ingredienti primari. In un momento in cui il flusso di cash-in è ridotto o inesistente, occorre collaborare in maniera organica e organizzata con tutti i fornitori e partner della filiera, cercando soluzioni. Tempi di pagamento più lenti, ma costanti; scontistiche più favorevoli a fronte di pagamenti a vista; piccoli ordini scadenzati nel tempo anziché un unico grosso ordine. Tutto deve essere ribilanciato con un’ottica di “contagocce”, il sistema non deve e non può entrare in stasi: sarebbe la fine accertata per molti piccoli fornitori e vari distretti di eccellenza delle nostre regioni italiane”.

In attesa delle decisioni dei Governi, Prada ha già pronto un piano per la riapertura delle fabbriche che consentirà agli operatori di poter lavorare nel rispetto degli standard di sicurezza sanitaria più elevati (distanza, dispositivi di protezione, controlli, sanificazione, turni, etc..).
Tutti i brand intervistati hanno confermato che l’arrivo della collezione Autunno Inverno 20-21 verrà leggermente posticipato.

Una mobilità ancora limitata potrebbe influenzare le campagne vendita per il mercato wholesale, per questo Ravasio ci parla di come stiano lavorando “alla creazione di showroom digitali che consentiranno di evitare viaggi e trasferte a buyer di tutto il mondo”. In quest’ottica le settimane della moda cambierebbero la loro vocazione, continua Ravasio “Le sfilate manifesteranno la vera realtà di show per il pubblico. Valori ma non prodotti – o prodotti con valore. Non più funzionali al business”.

Con i buyer impossibilitati a viaggiare da tutto il mondo per recarsi negli showroom per gli ordini di collezione, l’intero sistema subirà una stasi fisica a favore di una maggiore vivacità virtuale: appuntamenti su showroom e piattaforme virtuali per conoscere le collezioni e finalizzare i propri ordini. Incrementando la domanda per la produzione di contenuti digitali e piattaforme di condivisione in grado di restituire in maniera sempre più chiara la realtà dei prodotti”, prosegue Di Muzio, “Sarà una fase di sperimentazione in cui capiremo cosa funziona e cosa no… cosa è possibile fare a distanza e cosa non è possibile. Il lusso segue delle logiche ben precise che la contingenza sta modificando, ma che non riuscirà a eliminare o sradicare. I prodotti del lusso che presentano prezzi elevati, richiedono in fase di selezione ed acquisto dei buyer (ma anche dei clienti) una amplificata attenzione alla qualità e ad ogni singolo dettaglio. E già nella passata FW20 si sono evidenziati chiari limiti e perplessità sulla fattibilità degli ordini a distanza. Anche e soprattutto quando i volumi di acquisto sono importanti. Più facile quando il prodotto è già noto, ma difficilissimo quando il prodotto non è conosciuto o nelle fasi di start-up o negoziazione di nuove opportunità di business”.

 

Quali suggerimenti quindi dare ai brand del lusso per la ripresa?

I brand dovrebbero innanzitutto riprendere piena coscienza del vero significato del lusso: tornare alle origini del savoir faire artigianale, del bello fatto bene, prendersi una pausa dai ritmi incessanti del fast fashion, o quantomeno rallentare – e tornare a fare sentire i propri clienti “esclusivi”. Come sottolineato da tutti gli intervistati, la disintermediazione dei canali di vendita porterà ad un rapporto più “intimo” con i clienti.
Per non risultare fuori luogo, in un clima di morigeratezza sociale, l’approccio al marketing dovrà essere da un lato più discreto e al tempo stesso responsabile. Una parte significativa del budget per comunicazione “above the line” potrebbe essere utilizzato per “cause related marketing” o trasformato in budget per comunicazione “below the line”.
Per evitare il rischio di financial distress nel breve periodo, sarà fondamentale iniziare la ripresa da quei canali, mercati, e categorie merceologiche che ripartiranno più velocemente: online e discount i canali su cui scommettere; per le economie mature, e per la Cina, cercare di incontrare i clienti localmente (anche se i Cinesi in viaggio in Europa sono più incentivati a fare shopping di lusso Tax Free); e, in termini di categorie di prodotto, beauty, fine food and wine, art de la table, personal mobility, articoli evergreen e no logo e, ovviamente, esperienze. Ma per sopravvivere nel lungo periodo i brand dovranno completare la transizione da player brick and mortar a player omnipresenti.
Infine per superare la crisi le aziende dovranno fare leva sulle tecnologie digitali, con impatto sia sulla semplificazione dei processi che sull’organizzazione del lavoro, e attivare meccanismi di collaborazione e condivisione con i vari partner della filiera, che vadano dai dati alle strategie, per essere più forti assieme.

Già c’è chi parla di “selezione della specie”. Probabilmente, come dice Lorenzo Bertelli, “Attendiamo, verosimilmente, un ritorno alla normalità pre-pandemia solo con l’arrivo del vaccino, quando le persone potranno tornare a circolare liberamente. Per noi quest’emergenza richiede sicuramente degli adattamenti, ma non mette in discussione i fondamentali del settore del lusso, né ci richiede di modificare il nostro modello di business.”

Presenza online e strategia digitale consolidate; collezioni fluide senza una vera e propria dicotomia Primavera-Estate e Autunno-Inverno; focus sul valore intrinseco del prodotto e investimenti sulla sostenibilità a livello di intera filiera: alcuni brand si sono presentati a inizio 2020 meglio preparati di altri per affrontare l’inaspettata emergenza Covid. Per tutti gli altri, la capacità di adattamento si rivelerà, oggi più che mai, indispensabile per superare la crisi.

 

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[i] A. Moussavian. Luxe Labels Gucci, Armani, Bulgari make protective gear to fight coronavirus. New York Post, 26 Marzo 2020 https://nypost.com/2020/03/26/luxe-labels-gucci-armani-bulgari-make-protective-gear-to-fight-coronavirus/
[j] E. V. Bramley. Prada the latest fashion brand to make medical face masks. The Guardian, 24 Marzo 2020 https://www.theguardian.com/fashion/2020/mar/24/prada-the-latest-fashion-brand-to-make-medical-face-masks