Mini-bond, il mercato si consolida. Ancora in aumento il numero delle emissioni, scende la raccolta complessiva

School of Management Politecnico di Milano, presentata la 5° edizione del Report italiano sui mini-bond, che si confermano fonte di finanziamento alternativa e complementare al credito bancario. Diminuisce il valore medio dei collocamenti, salgono le Srl emittenti

Il mercato dei mini-bond continua a rafforzarsi: anche nel 2018 infatti è cresciuto il numero delle emissioni, benché si sia ridotto il controvalore raccolto, a causa della diminuzione del valore medio dei collocamenti. Sono i risultati a cui è giunto il 5° Report italiano sui mini-bond redatto dall’omonimo Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano e presentato oggi.

Dal novembre 2012 allo scorso dicembre sono salite a 746 in totale le emissioni di mini-bond (in gran parte obbligazioni) effettuate dalle imprese del campione, per un valore di 25,2 miliardi di euro 4,6 considerando solo quelle fatte da PMI, 4,9 analizzando le 636 sotto i 50 milioni. Il 2018 ha contribuito con 198 emissioni, in aumento rispetto alle 170 del 2017, ma con un controvalore di 4,3 miliardi di euro che risulta in calo (era di 5,5) a causa del valore medio delle emissioni, sceso al minimo storico: 22,40 milioni di euro (contro 45) nel secondo semestre, 20,85 nel primo.

 

Sotto la taglia dei 50 milioni troviamo 159 emissioni, pari a 1,3 miliardi di euro. La raccolta effettuata dalle sole PMI si è dimezzata – 668 milioni contro 1,4 miliardi – mentre le emittenti sono aumentate: 176 (di cui ben 123 “debuttanti”) rispetto alle 137 del 2017. A fine 2018 il mercato ExtraMOT PRO gestito da Borsa Italiana, il listino più ‘adatto’ per i mini-bond italiani, ha raggiunto i 207 titoli quotati, il valore più alto mai visto.

“Per il 2019 le aspettative sono più conservative rispetto al passato – commenta Giancarlo Giudici, Direttore scientifico dell’Osservatorio Mini-Bond della School of Management del Politecnico di Milanoa causa dei primi segnali negativi provenienti dal ciclo economico, dell’incertezza sulle politiche di sviluppo interne e della possibile concorrenza delle operazioni di direct lending che si vanno diffondendo sul mercato. I volumi del 2019 saranno dunque abbastanza simili a quelli del 2018. Ci auguriamo che gli ELTIF riescano dove i PIR non sono riusciti, cioè nel canalizzare risorse verso le PMI”.

I mini-bond – intesi come titoli di debito emessi da società italiane non finanziarie, in particolare società di capitale o cooperative di importo inferiore a 500 milioni di euro non quotate su listini aperti agli investitori retail – si confermano comunque come una fonte di finanziamento alternativa e complementare al credito bancario, soprattutto in preparazione a successive operazioni con investitori istituzionali più complesse come il private equity o la quotazione in Borsa.

Si registrano novità nella normativa di riferimento che riguardano la disciplina sulle cartolarizzazioni, i PIR e la possibilità per i portali autorizzati di equity crowdfunding di collocare mini-bond a investitori professionali. Gli attori che hanno sottoscritto i mini-bond di taglia inferiore ai 50 milioni si confermano essere i fondi chiusi di private debt (il 26% degli investimenti rispetto al campione) e gli investitori esteri (25%). Ancora in aumento il ruolo delle banche nazionali (21%) e delle assicurazioni (9%), che però sottoscrivono poche operazioni di maggiore dimensione. Le finanziarie regionali sono passate dal 6 al 4%, Confidi dall’1 al 3.

Le imprese emittenti

La ricerca ha identificato 498 imprese italiane, di cui 260 PMI, che dal 2012 al 31 dicembre 2018 avevano collocato mini-bond (a fine 2017 erano 326). L’ultimo anno ha contribuito con 176 emittenti, di cui 123 affacciatesi sul mercato per la prima volta e 42 con un fatturato inferiore ai 10 milioni di euro prima del collocamento, mentre la fascia più numerosa ha ricavi compresi fra 100 e 500 milioni. Più che raddoppiate le Srl, da 21 a 45.

Per quanto riguarda il settore di attività, si conferma la netta supremazia del comparto manifatturiero (41%), pur con un aumento nei segmenti meno rappresentati in passato. La collocazione geografica evidenzia come sempre una netta prevalenza delle regioni del Nord: domina la Lombardia con ben 50 emittenti (il 28% su scala nazionale), crescono il Piemonte e le regioni del Sud, scende il Trentino-Alto Adige.

Rispetto alle motivazioni del collocamento, si conferma come dominante l’obiettivo di finanziare la crescita interna dell’azienda (56% dei casi, soprattutto per le PMI), seguono la necessità di ristrutturare le passività dell’impresa (soprattutto per le grandi), le strategie di crescita esterna tramite acquisizioni e il fabbisogno di alimentare il ciclo di cassa del capitale circolante.

“L’analisi dei bilanci consolidati focalizzata sulle 244 PMI non finanziarie emittenti – commenta Giudici – mostra situazioni abbastanza diversificate, con 28 imprese che hanno EBITDA negativo al momento del collocamento. La redditività appare contenuta e in media si riscontra un buon aumento del fatturato già prima dell’emissione, ma per circa un quarto delle aziende non si registrano variazioni significative. Non vi è evidenza quindi di un rapporto di causa-effetto fra emissione del mini-bond e crescita del volume d’affari. Piuttosto, per un buon numero di PMI il mini-bond rappresenta una tappa in un percorso di crescita che inizia ben prima e che prevede una serie di passi importanti, predefiniti”.

Dettagli sulle emissioni

Il 54% delle emissioni totali è sotto la soglia dei 5 milioni di euro e nel 2018 la percentuale è salita addirittura al 60%. Fra tutti i mini-bond, il 44% è stato quotato su ExtraMOT PRO, ma nel 2018 la percentuale è scesa al 27%. Cresce il numero di emissioni quotate all’estero (12%). La durata media del 2018 è 5,2 anni, in leggero aumento rispetto ai 4,9 anni del 2017.

Il 50,5% prevede il rimborso del titolo alla scadenza (bullet), ma nelle emissioni a lungo termine e in quelle sotto i 50 milioni è relativamente più frequente la modalità amortizing, con un rimborso graduale fino alla scadenza. La cedola in genere è fissa (valore medio 5,1%, mediano 5%), ma nel 2018 è aumentata la frequenza di quella variabile. Per la prima volta si riscontra un lieve aumento del tasso di interesse (5% di media contro 4,83%).

I mini-bond del campione sono associati a un rating da agenzie autorizzate nel 30% dei casi (di cui il 17% ‘pubblico’, distribuito quasi equamente fra investment grade e speculative grade mentre il 13% è unsolicited o undisclosed). Il ricorso al rating è calato ancora nel 2018 (solo il 22% delle emissioni l’ha ottenuto) ed è riscontrato soprattutto fra le grandi imprese e per le emissioni sopra i 50 milioni. La presenza di una garanzia sul rimborso del capitale, a dare maggiore sicurezza agli investitori, è sensibilmente aumentata nel 2018: 38% dei casi nel 2018 rispetto al 29% dell’intero campione.

 

Polisocial Award 2018

Città e Comunità Smart in Africa, questo il tema dei progetti di cooperazione e sviluppo che sono stati premiati all’interno della competizione Polisocial Award 2018, la quinta edizione della competizione che sostiene i progetti di ricerca ad alto contenuto sociale del Politecnico di Milano, finanziati con il contributo del 5 per mille IRPEF destinato all’Ateneo milanese.

Eritrea, Mozambico e Somalia sono in paesi in cui diversi percorsi di ricerca multidisciplinare hanno identificato piani di sviluppo locale e tra i quattro progetti premiati, due vedono la partecipazione del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, parte della School of Management del Politecnico.

In Mozambico, il progetto SAFARI NJEMA | From informal mobility to mobility policies through big data analysis si focalizza sullo sviluppo di sistemi di mobilità.

La mobilità in Africa spesso non viene considerata tra i problemi prioritari; ancor più spesso non è nota la pessima situazione nei grandi centri urbani: i mezzi pubblici sono scarsi o inesistenti, la maggior parte dei privati non possiede un mezzo, il che porta le persone a creare ed appoggiarsi ad un sistema informale di mobilità condivisa. Ma il sistema è poco organizzato, lento, rischioso e rende difficile spostamenti anche brevi e necessari per accedere a scuole e luoghi di lavoro.

L’obiettivo di SAFARI è contribuire al miglioramento della gestione della mobilità nelle grandi città africane. Attraverso l’uso di strumenti di analytics, come le informazioni offerte dall’utilizzo della telefonia mobile, SAFARI studierà lo stato attuale della mobilità, con focus su Maputo, e proporrà un piano di sviluppo place-based e bottom-up della mobilità.

“Il Dipartimento di Ingegneria Gestionale contribuisce a definire un sistema di misura delle performance profilato sulle città africane” – spiega la prof.ssa Michela Arnaboldi, docente di Accounting, Finance and Control e project manager del progetto – “che consente di confrontare soluzioni alternative e definire come le diverse opzioni migliorano i fattori critici, quali il tempo e la sicurezza negli spostamenti”.

Un modello di sviluppo integrato per Mogadiscio in Somalia è invece la finalità del progetto BECOMe | Business ECOsystem design for sustainable settlements in Mogadishu: affordable housing, local entrepreneurship and social facilities.

Tra i principali bisogni della popolazione somala, infatti, c’è la risoluzione dell’emergenza abitativa determinata dall’intensa crescita della popolazione, gli alti livelli di povertà, il danneggiamento di edifici provocato dalla guerra civile e la generale insicurezza nelle aree di conflitto.

Il progetto si pone l’obiettivo di realizzare moduli abitativi di nuova concezione, che affianchino alla accessibilità del costo di realizzazione (e quindi di acquisto per gli abitanti) la qualità della vita, garantendo comfort e sicurezza e la possibilità di costruire una comunità sociale (spazi comuni, piccole attività, servizi di supporto) secondo le caratteristiche proprie della Somalia.

Il ruolo del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, in particolare, è quello di garantire che le diverse scelte progettuali siano coerenti – dal punto di vista economico – con l’obiettivo di costo di acquisto che ci si è dati. Inoltre, l’apporto del Dipartimento sarà fondamentale per disegnare il business ecosystem che deve ruotare attorno alla realizzazione dei moduli abitativi e che è reso ulteriormente complesso dalla nostra volontà di integrare sistemi di produzione di energia distribuita (soprattutto fotovoltaico) e di immaginare la creazione di una filiera locale “circolare” per la realizzazione di parte dei materiali costruttivi (ad esempio sfruttando le macerie di guerra) e dei servizi necessari per la gestione e manutenzione degli edifici.

Collaborare ad un progetto Polisocial significa mettersi al servizio di chi progetta sistemi reali e con ricadute sociali” – racconta il prof. Davide Chiaroni, docente di Strategy & Marketing – “Vivo con molto piacere, ma soprattutto con grande senso di responsabilità, il mettere a servizio di un paese come la Somalia la nostra esperienza nella valutazione di fattibilità economica e nella costruzione di modelli di business coerenti con il paradigma dell’Economia Circolare.”

I progetti finanziati, che saranno avviati a inizio marzo, avranno durata di 15 mesi.

Fluida, integrata e mista: ecco l’editoria del futuro

Il New York Times ha recentemente annunciato di aver totalizzato nel 2018 ricavi per 700 milioni di euro solo dal digitale. Per contro, a livello globale il fatturato dell’industria dell’informazione è in calo e in molti Paesi, Italia compresa, le testate giornalistiche faticano a interpretare il contesto comunicativo attuale in modo economicamente sostenibile. Come si sta trasformando il mercato dell’informazione?

«Questa situazione non mi sorprende e ha radici molto profonde – afferma Giuliano Noci, docente di Strategia & Marketing presso la School of Management del Politecnico di Milano e Prorettore del Polo territoriale cinese del medesimo ateneo –. In passato qualcuno si aspettava che l’advertising da solo potesse sostenere un’attività di business online, previsione che si è rivelata una chimera. Inoltre, vent’anni fa molti editori hanno reagito all’arrivo del digitale tagliando i costi e abbassando di conseguenza la qualità. Si è rivelato un errore, perché le news oggi sono diventate delle commodity: la notizia non ha più un valore in sé, la può dare chiunque. Bisognava e bisogna saper offrire profondità di analisi, capacità di leggere i fenomeni nel medio e lungo periodo. Gli americani hanno lavorato proprio in questa direzione, rafforzando sempre più la componente di interpretazione rispetto alla pura e semplice notizia di attualità, e facendo leva sulla reputazione derivante dal prestigio dei loro marchi».

Il web non ha portato a un abbassamento della qualità, piuttosto a una polarizzazione fra chi bada solo al prezzo e quindi cerca contenuti gratuiti e chi invece cerca la qualità ed è disposto a pagarla. «C’è poi anche una questione organizzativa, su cui l’Italia è particolarmente in ritardo – prosegue Noci –. Fare informazione oggi non significa solo produrre dei testi ma lavorare in una prospettiva multimediale, il che implica newsroom centralizzate in luogo delle redazioni giornalistiche separate dalle aree web».

Alla base del successo di alcuni modelli editoriali c’è quindi anche un ripensamento del rapporto fra il mezzo digitale e il giornalismo “tradizionale” in un’ottica di maggiore integrazione delle due componenti.
Inoltre si assiste al rovesciamento di alcuni flussi di lavoro, con le notizie che vengono costruite direttamente per i canali digitali e le versioni cartacee dei giornali che fungono da raccolta o “best of” di contenuti apparsi in digitale anche diversi giorni prima.

Non stupisce, dunque, che alcune testate iconiche del giornalismo mondiale vengano rilevate e rilanciate da grandi imprenditori del web. Recentemente Marc Benioff, fondatore e Ceo di Salesforce, e sua moglie hanno annunciato l’acquisto del celebre settimanale Time. E dietro la rinascita del Washington Post c’è Jeff Bezos, che nel 2013 lo raccolse, pieno di debiti, dalle mani della famiglia Graham. A chi gli ha chiesto il perché di quell’acquisto, Bezos ha risposto che Internet ha distrutto la maggior parte dei vantaggi che i quotidiani avevano costruito nel tempo, ma ha offerto loro un regalo: la distribuzione globale gratuita. Per trarre beneficio da quel regalo, Bezos ha implementato un nuovo modello di business basato non più su un alto ricavo per lettore ma sull’acquisizione di un maggior numero di lettori.

Ma l’informazione in lingua inglese oggi trae vantaggio anche dalla numerosità dell’audience e da una sua diversa predisposizione culturale? «No – risponde Giuliano Noci –. Se i media italiani tenevano vent’anni fa, non c’è motivo per cui non possano farlo anche nel contesto attuale, in cui anzi, a saperle cogliere, ci sono prospettive di maggiore crescita. La mia esperienza nell’omnicanalità mi fa dire che la presunta immaturità dei consumatori è in realtà un’inadeguatezza dell’offerta, che poi alla lunga finisce per influenzare negativamente anche la domanda. Se in Italia e in Europa molti editori sono in difficoltà è perché non si sono adeguati ai cambiamenti della società e non offrono qualcosa che viene percepito come valore».

Il digitale è in crescita ma, secondo dati R&S Mediobanca, il 91,6% del giro d’affari mondiale proviene ancora dalla carta stampata. Inoltre, editori interamente digitali come Buzzfeed annunciano tagli, mentre molti nuovi progetti editoriali nascono in forma mista carta-digitale.
L’editoria cartacea è allora destinata a sparire progressivamente o conserverà un suo ruolo? Risponde ancora il Professor Giuliano Noci: «Oggi prevale il modello misto, perché le persone prediligono una fruizione mista. Sbagliano sia gli integralisti del digitale sia quelli della carta. Tutti i più recenti studi ci dicono che i comportamenti di consumo vanno segmentati non sulla base degli individui ma del contesto di vita in cui gli individui sono calati. Così, non c’è chi preferisce in assoluto essere informato via radio, via tv, via web o leggendo un giornale, ma chiunque, in base al momento della giornata e della situazione in cui si trova, fruisce dell’uno o dell’altro mezzo. Si tratta di comportamenti molto fluidi che possono essere intercettati solo da un’offerta altrettanto fluida».

 

 

 

 

 

 

 

 

Il manager di oggi (e di domani)

Il mercato del lavoro del prossimo futuro passerà attraverso manager aperti al cambiamento e capaci di evolversi. La quarta rivoluzione industriale, ovvero la presenza della tecnologia in numerose attività prima svolte esclusivamente dall’uomo, minaccia alcune figure professionali, promette di crearne delle nuove, e richiede uno sforzo di adattamento a tutti, in particolare a chi riveste ruoli decisionali.

Quella del manager è una delle professioni che ha meno da temere dai cambiamenti in atto, e anzi assume un ruolo sempre più centrale. Ma proprio per questo i manager hanno più degli altri bisogno di aggiornare le proprie competenze in base alla continua evoluzione degli scenari. Quell’evoluzione che sono chiamati a interpretare e gestire.

Il Future of Jobs Report 2018, pubblicato dal World Economic Forum, indica le professioni legate al ragionamento e alla presa di decisioni, e quelle legate al coordinamento, allo sviluppo, alla gestione e alla consulenza, come le due categorie in cui il rapporto fra ore lavorate da umani e da macchine resterà più decisamente a vantaggio dei primi. Ma nel medesimo report si sottolinea anche che entro il 2022, a non meno del 54% dei manager verrà richiesto un re-skilling e upskilling significativo. Molte delle aziende intervistate hanno dichiarato la loro intenzione di concentrare i loro sforzi di aggiornamento delle competenze sui dipendenti che ricoprono ruoli ad alto valore aggiunto.

Il manager del futuro, chiamato a operare in una società complessa che cambia continuamente e a ritmi molto rapidi, necessita da un lato di hard skill sempre nuove, soprattutto in ambito tecnologico, e dall’altro di soft skills come il pensiero analitico, la resilienza, la creatività, l’intelligenza emotiva, la flessibilità. Se n’è parlato anche nella tavola rotonda “Human skills and drivers for change”, tenutasi lo scorso 2 febbraio presso il MIP Politecnico di Milano nel corso del primo EMBA Day 2019 (l’evento fa parte del ciclo “Practising Leadership”, il cui prossimo appuntamento è previsto il 6 marzo sul tema “Empower your career”). In quella occasione, Pino Mercuri, Direttore delle Risorse Umane di Microsoft Italia, si è soffermato fra l’altro sul tema dell’obsolescenza delle competenze nell’IT. “Una competenza ingegneristica o tecnologica media ha una shelf life tra i 24 e i 48 mesi – ha dichiarato Mercuri –. Non abbiamo però chiarezza totale e completa delle competenze che saranno necessarie nel prossimo futuro. Parliamo di Machine Learning, di AI, di IoT, ma spesso sono più delle password che non dei reali concetti”.

A fronte di questa crescente instabilità delle competenze richieste, assumono sempre più importanza la capacità di apprendere e la motivazione a farlo lungo tutto l’arco della vita lavorativa. “In Microsoft abbiamo cercato di mettere tutti in condizioni di capire che apprendere non solo è necessario ma è anche un elemento di valutazione – ha proseguito Mercuri –. Nel nostro sistema di performance management chiediamo di dichiarare cosa si intende fare per crescere e apprendere, e la risposta a quella domanda viene verificata nel successivo step di valutazione”.

L’head hunter Jacopo Pasetti, anch’egli presente all’incontro, ha posto l’attenzione su due concetti, consapevolezza e passione: “La consapevolezza va intesa come comprensione del nostro percorso professionale e di quello che ci piace davvero. È necessaria perché l’aggiornamento continuo richiesto dalla veloce evoluzione delle competenze non venga percepito come un peso. Perciò bisogna scegliere il proprio percorso di carriera non in base alle mode del momento ma seguendo le proprie passioni, oltre a una strategia chiara”.

L’importanza delle soft skill non deve però portare a trascurare le hard skill. “Siamo in un momento storico in cui stanno cercando di convincerci che la competenza e la cultura non siano poi così importanti – ha sottolineato Fulvia Fiaschetti, Global Talent Acquisition Associate Director di Amplifon –. Io credo invece che il mondo delle aziende con grande forza si opponga a questo tipo di pensiero”. La competenza tecnica, secondo la manager, è richiesta soprattutto all’ingresso in azienda, mentre le soft skill si formano dopo e servono a compiere passi ulteriori. Comunicazione, empatia, forward thinking sono competenze che non si apprendono sui libri.

La necessità di imparare in fretta porta poi alla diffusione di una cultura dell’errore, intesa come invito a osare e a sperimentare continuamente, utilizzando anche i fallimenti come modalità di apprendimento. “L’errore non solo è possibile ma è necessario per acquistare sempre più competenze – ha fatto notare ancora Pino Mercuri –. Se si sta sbagliando, è probabilmente perché si sta cercando davvero di innovare”.

 

 

 

SaniWelf 4.0


Mefop SpA (società per lo sviluppo del Mercato dei Fondi Pensione) e Politecnico di Milano School of Management propongono il progetto SaniWelf 4.0, iniziativa per contribuire alla ricerca e al dibattito finalizzati a disegnare possibili strategie di intervento da consegnare alle Istituzioni e al mercato in materia di assistenza sanitaria integrativa, con un focus sulle prospettive di sviluppo sul segmento dei servizi socio-sanitari e attraverso l’analisi delle prospettive di integrazione virtuosa e generativa tra sistema pubblico e strumenti/ stakeholders del welfare privato.

Nel corso dei momenti di ricerca e dei seminari, il progetto si propone di studiare meccanismi virtuosi di integrazione pubblico-privato sull’area dei servizi socio sanitari, in modo da valorizzare e sfruttare il ruolo del secondo welfare nelle sue diverse componenti sociali e sanitarie e nella sua imprescindibile dimensione di «welfare di rete».

L’attività del progetto sarà scandita da quattro seminari che si terranno a Roma e Milano da febbraio a maggio 2019.

  • 05/03/19: Invecchiamento e fragilità: il ruolo della sanità integrativa
  • 18/04/19: Ecosistemi per l’impatto sociale a sostegno di sanità e welfare
  • 16/05/19: Investitori istituzionali e finanza per l’impatto sociale

Seguiranno ulteriori comunicazioni con i dettagli di ogni evento.
Per maggiori informazioni: eventi@mefop.it

Dove

School of Management Politecnico di Milano – Via Lambruschini, 4 – 20156 Milano

Milano va sempre più di moda

Dal 19 al 25 febbraio Milano è al centro del mondo. Il motivo? La Settimana della Moda, evento di portata internazionale che celebra uno dei fiori all’occhiello della città: sei giornate dense di incontri che richiamano professionisti e appassionati da ogni continente.

Il calendario della manifestazione, organizzata dalla Camera Nazionale della Moda Italiana e dedicata alla moda donna autunno/inverno 2019, è ricco di appuntamenti e prevede 60 sfilate, 81 presentazioni, 33 eventi, per un totale di 173 collezioni. Come già nelle ultime edizioni, non mancano manifestazioni aperte anche ai non addetti ai lavori che permettono al grande pubblico, e in particolare agli studenti del mondo fashion, di conoscere da vicino la realtà del Made in Italy, dalle grandi aziende che ne hanno segnato la storia fino ai talenti emergenti.

“Grande attenzione verso i nuovi talenti e l’internazionalità”, ha dichiarato Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda a proposito di questa edizione. “Sono molti i brand presenti a Milano per la prima volta, grazie al nostro supporto. Sostenere i nuovi talenti è uno dei nostri pillar, accanto alla sostenibilità”. Tra gli esordienti figurano Gilberto Calzolari e Tiziano Guardini, vincitori del Franca Sozzani GCC Award rispettivamente nel 2017 e nel 2018, che presenteranno le loro collezioni. Attesissimi anche i debutti di Marco Rambaldi per Marios, della stilista portoghese Alexandra Moura e del brand di Mayo Loizou e Leszek Chmielewsk. Quanto ai big, questa edizione è segnata dal ritorno di Gucci, Angel Chen e Bottega Veneta con Daniel Lee.

«L’evento milanese è una delle quattro grandi “settimane della moda” che si svolgono due volte all’anno nel mondo: le altre sono quelle di Parigi, Londra e New Yorkracconta Alessandro Brun, Direttore del Master In Global Luxury Management presso la School of Management del Politecnico di Milano –. Si tratta di un appuntamento importante sia per le grandi maison, sia per i giovani designer e per i brand emergenti, che hanno la possibilità di mettersi in mostra in un evento “dal vivo”. Inoltre, è un momento importante per l’intera città: le sfilate si svolgono in diverse location, spesso in zone riqualificate come Tortona, Garibaldi-Porta Nuova-Isola, piazzale Lodi, con grandi benefici anche per le attività commerciali locali».

Insomma, la moda milanese va, come confermano i dati dello scorso anno, ed è più viva che mai e in costante crescita. Le imprese presenti sul territorio cittadino sono 13mila, mentre la Lombardia – prima regione italiana nell’ambito fashion – ne conta quasi 34 mila. L’export di tessili del territorio lombardo ha sfiorato nei primi nove mesi del 2018 i 10 miliardi di euro, con una crescita del 3,6% rispetto all’anno precedente. La sola città di Milano ha superato i 5 miliardi, con una crescita del 6,4%, confermandosi leader assoluta.

La Settimana della Moda dello scorso febbraio ha portato al capoluogo un guadagno di 19 milioni di euro nel solo settore dell’ospitalità, in crescita di 2 milioni rispetto all’edizione del 2017. L’impatto economico complessivo che coinvolge i settori di indotto (trasporti, musei, negozi, ristoranti) ha toccato i 160 milioni di euro, coinvolgendo 137mila addetti e 18mila imprese.

L’edizione 2019, partendo da queste premesse, ha voluto rafforzare, in accordo col Comune di Milano, la connessione tra moda e territorio utilizzando per gli eventi degli spazi inusuali come la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale o lo Spazio Cavallerizze del Museo della Scienza e della Tecnologia. Prevista inoltre la presentazione, da parte della Camera Nazionale della Moda Italiana, il film “Welcome to Milano”, realizzato da The Blink Fish, in cui un gruppo di modelle conduce gli spettatori alla scoperta di Milano e dei suoi luoghi più segreti.

Passano gli anni, quindi, ma la moda a Milano non passa mai di moda. «Però è bene guardare con attenzione ai cambiamenti – racconta ancora Alessandro Brun –. I grandi brand stanno prestando sempre più interesse ai costi rispetto a un tempo. E poi ci sono le nuove tecnologie e le nuove abitudini: Burberry ha lanciato la prima sfilata globale nel 2010 presentando la collezione autunno-inverno in diretta streaming su sette diversi siti e proiettata in 3D nei teatri di cinque diverse città, e qualche anno dopo ha offerto la possibilità di acquistare nei negozi gli stessi capi esibiti contemporaneamente sulle passerelle, rivoluzionando di fatto il paradigma che vedeva le sfilate presentare gli abiti con largo anticipo rispetto alla vendita. Ma non credo che questo possa mettere in crisi l’appuntamento milanese, che vanta una storia di oltre 60 anni. La città, infatti, resta un punto di riferimento dell’intero sistema moda italiano, il cui fatturato complessivo è passato dai 52 miliardi di euro del 2011 ai 54 miliardi del 2017 grazie al contributo di 46mila aziende e oltre 400mila lavoratori. La qualità dei nostri prodotti e la capacità artigianale italiana sono ancora delle eccellenze a livello internazionale».

Milano, la capitale delle startup

Una città a misura di innovazione. Lo dicono i numeri: in un panorama italiano sempre più dinamico, Milano si conferma il luogo più amato dai giovani imprenditori. All’ombra della Madonnina, infatti, si concentra ben il 15% delle nascenti PMI innovative. Su 9.742 realtà imprenditoriali, fra startup e piccole imprese, nate in Italia nell’ultimo anno, ben 1.505 sono sorte a Milano. Ma, al di là del numero, è forse ancora più importante l’altissimo tasso di sopravvivenza (ben il 98%) delle nuove imprese, a riprova di un ambiente molto favorevole allo sviluppo di nuovi business.

Le cifre sono state presentate di recente da Cristina Tajani, assessore al Lavoro del Comune di Milano, che ha anche sottolineato come quest’ultimo abbia investito dal 2012 al 2018 circa 11,5 milioni di euro destinati a nuove imprese. Nello stesso periodo, il fatturato generato da nuove attività è stato di oltre un miliardo di euro.

In Italia, Milano può quindi vantare un primato conquistato ormai da decenni e un ecosistema di servizi, istituzioni e infrastrutture che offrono agli imprenditori tutti gli strumenti necessari per far funzionare al meglio la propria impresa, non ultimo un più facile accesso al credito. Del resto, l’attrattività imprenditoriale del capoluogo lombardo è ormai consolidata e riconosciuta anche a livello internazionale. Nel 2016 il Financial Times aveva eletto Milano come la capitale italiana delle startup. Negli ultimi tre anni, poi, la città ha saputo capitalizzare l’esperienza di Expo 2015, che l’ha riproposta con successo sul palcoscenico mondiale. E, con il Regno Unito alle prese con la Brexit, numerose istituzioni e grandi aziende meditano di abbandonare Londra guardando proprio a Milano come loro prossima sede. D’altra parte, prestigiose multinazionali l’hanno già scelta da tempo per i propri uffici italiani: Microsoft, IBM, Google, Deloitte, Adecco, Gartner e molte altre.

Anche la Regione Lombardia fa la sua parte nel concedere prestiti e finanziamenti alle startup innovative: ne è un esempio concreto il bando Intraprendo, che offre fino a 65mila euro di finanziamenti e si inserisce in un Programma Strategico Triennale di ricerca e innovazione dal respiro più ampio con risorse complessive quantificabili in 750 milioni di euro.

A suffragare empiricamente questa consapevolezza diffusa del ruolo di primo piano giocato dalla Lombardia e, in particolare, da Milano all’interno dell’ecosistema startup italiano, sono anche i dati dell’Osservatorio Startup Hi-tech della School of Management del Politecnico di Milano. L’Osservatorio quantifica gli investimenti effettuati da investitori formali, quali fondi di Venture Capital, e informali, come Business Angel e piattaforme di Crowdfunding, in startup ad alto contenuto innovativo nei comparti Digital, Cleantech & Energy e Life Science.

Dal 2012, anno che ha visto sia la nascita dell’Osservatorio che la promulgazione del Decreto Startup Innovative da parte del Ministero dell’Innovazione e dello Sviluppo Economico, le startup hi-tech lombarde hanno raccolto un totale di oltre 600 milioni di euro, mentre quelle con sede nella provincia di Milano hanno superato i 550 milioni di euro di raccolta. Nel solo 2018, il capitale raccolto dalle 43 startup milanesi finanziate è stato pari a quasi 250 milioni di euro, intorno alla metà dei finanziamenti totali effettuati in Italia.

Oltre alla forte presenza di startup dall’elevata qualità e potenziale di crescita, in città è presente un articolato ecosistema di supporto composto sia da investitori, che con il loro apporto di capitale consentono alle startup di mettere a terra il loro potenziale di crescita, sia da accelerator e incubator, che si concentrano invece sulle realtà nella fase embrionale offrendo supporto e competenze per validare il modello di business.

Tali attori sono talvolta legati agli atenei del territorio, come il fondo di investimento Poli360 – che vede una partnership tra il Politecnico di Milano e il fondo di VC 360 Capital Partners per il finanziamento di idee tecnologiche – e PoliHub, incubatore e acceleratore del Politecnico di Milano, terzo incubatore di startup nel mondo secondo Ubi Index, società di ricerca internazionale specializzata nel settore.

Il terreno è quindi fertile per tutti gli aspiranti startupper che vogliono inserirsi in un tessuto economico e in una fitta rete di relazioni business destinata a crescere. Per conferma, si può chiedere al palermitano Giovanni De Lisi, che a Milano ha trovato l’occasione per fondare Greenrail, progetto basato su una traversa ferroviaria ecosostenibile ottenuta da materiale riciclato e che può già vantare un contratto negli Usa da 75 milioni di euro. Oppure al calabrese Osvaldo De Falco, che ha scelto Milano per la sua Biorfarm, vera e propria azienda “agricola digitale” che ha attirato l’attenzione del Sole 24 Ore grazie a un crowdfunding da record: chiedeva 80mila euro, ne ha ottenuti 300mila. E ora guarda all’estero.

Il richiamo esercitato da Milano, peraltro, non è limitato alle strette questioni di business: la moda, il cibo, il patrimonio artistico, l’offerta culturale la rendono una città in cui la vita è gradevole e stimolante. Un mix vincente.

Startupper si nasce o si diventa? Indubbiamente il talento e l’intuito sono fondamentali. Ma per fare l’imprenditore oggi servono anche competenze in tema di business e innovazione. Così se il PoliHub offre un ecosistema perfetto per incubare e far sbocciare nuove idee imprenditoriali, è sempre all’interno dell’Ateneo milanese, con la School of Management del Politecnico, che gli aspiranti startupper possono acquisire le competenze necessarie allo sviluppo di nuove idee imprenditoriali.

I programmi MBA ed Executive MBA, per esempio, integrano nel proprio programma corsi in ambito Startup & Strategy, ma esistono anche dei master specifici come l’Advanced Master in Innovation and Entrepreneurship, offerto in collaborazione con Solvay Brussels School.

Inoltre, la MIP Management Academy offre un ampio catalogo di corsi rivolti al pubblico executive che vuole esplorare il tema Entrepreneurship & Strategy.

 

LUCI E OMBRE DELLA COP24 DI KATOWICE

All’umanità restano appena dodici anni per salvare il clima del Pianeta. L’allarme lanciato dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ben sintetizza l’importanza della COP24, la conferenza internazionale sui cambiamenti climatici conclusasi lo scorso dicembre a Katowice, in Polonia.

Che bilancio si può tracciare di questo importante summit, ideale seguito di quello di Parigi del 2015? Emerge un quadro in chiaroscuro, con gli esperti divisi tra chi lamenta l’insufficienza dei progressi conseguiti e chi, invece, si concentra soprattutto sull’importanza dei risultati – benché parziali – raggiunti.

«Quello sul cambiamento climatico è un processo di negoziazione complicato che coinvolge molti paesi. Perciò è naturale aspettarsi progressi lenti», ha dichiarato Massimo Tavoni, professore di Climate Change Economic presso la School of Management del Politecnico di Milano. «L’obiettivo principale della riunione della COP di quest’anno è stato quello di fare il punto su dove siamo arrivati ed elaborare linee guida per l’implementazione di ciò che è stato già deciso. Questi obiettivi nel complesso sono stati raggiunti, ma hanno anche mostrato quanto piccoli siano stati i progressi finora compiuti. In particolare, l’incontro di Katowice ha sottolineato la fragilità politica dell’accordo sul clima di Parigi firmato nel 2015. Le posizioni scettiche dei governi degli Stati Uniti e del governo brasiliano appena eletto, oltre all’opposizione dei paesi del Golfo, hanno fatto sorgere dubbi sulla capacità dell’accordo di Parigi di compiere reali progressi aggiuntivi sulle riduzioni delle emissioni. Questo mentre la scienza ha accumulato nuovi preoccupanti segnali dell’impatto potenzialmente devastante dei cambiamenti climatici sull’uomo e sugli ecosistemi», spiega Tavoni, vincitore di un ERC grant sui temi dell’economia comportamentale e dell’ambiente.

Va detto però che l’obiettivo tecnico della COP24, cioè l’approvazione di un regolamento sull’applicazione dell’accordo di Parigi, è stato centrato, anche se non si è raggiunto un impegno collettivo per portare a termine i cosiddetti Nationally Determined Contributions (NDC), ossia gli obiettivi di azione sul clima a livello nazionale. L’obiettivo dell’accordo di Parigi era contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 °C rispetto ai livelli preindustriali, o, meglio ancora, entro gli 1,5 °C. Come fa notare Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia, “Per farlo, si devono fissare obiettivi di riduzione volontari su base nazionale, ma è necessario garantire metodi coerenti, comuni e trasparenti in modo da poter confrontare i diversi obiettivi e le azioni dei vari Paesi con la stessa metodologia. Senza di ciò, ogni Paese misurerebbe le cose a modo suo. Lo scopo di Katowice era dunque avere le basi tecniche per andare avanti. Scopo che, con fatica, è stato raggiunto. Al contempo, però, si è registrato un calo di leadership”.

Questo “calo di leadership” si è notato fin dall’inizio dei lavori. Di fronte ai risultati presentati, si è aperto un confronto su come citare l’ultimo Rapporto dell’IPCC che valuta la differenza degli impatti tra un aumento di 1,5 °C e uno di 2 °C. Onufrio fa notare che c’è una bella differenza tra “usare la parolina ‘welcome’ (‘accogliere’) oppure ‘prendere nota’, che significa prendere atto senza però necessariamente agire”. Paesi come Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e Kuwait, tutti produttori di petrolio, hanno deciso di non “accogliere” i risultati esposti dai climatologi. Quindi, alla fine della COP24 il Rapporto dell’IPCC è stato citato con una formula derivante da un compromesso al ribasso.

Quanto agli aspetti positivi, oltre al già citato conseguimento dell’obiettivo tecnico, che consente al negoziato sul clima di andare avanti, bisogna segnalare che la discussione ha anche toccato i temi dell’agricoltura, del suolo e delle foreste, che proprio a Katowice sono entrati in maniera più precisa nella discussione. Infine, per la prima volta, si è aperto un vero dibattito sul carbone. La Pontificia Accademia delle Scienze del Vaticano e l’Accademia delle Scienze polacca hanno presentato un documento in cui si chiede una transizione che comporti l’abbandono del carbone entro il 2030 in Polonia. Un orientamento, quest’ultimo, che avrebbe delle conseguenze positive anche dal punto di vista dell’occupazione, come spiega Giuseppe Onufrio: “I settori da chiudere, come quelli del fossile, sono ad altissima intensità di capitale e a bassa intensità di lavoro, escludendo le miniere, che comunque perderanno forza lavoro perché anche lì sta entrando l’automazione. Invece, nelle fonti rinnovabili, distribuite a bassa densità, c’è molta più occupazione in funzione dell’energia prodotta”.

 

Francesco De Lorenzis

 

Francesco De Lorenzis, candidato EMBA, è oggi CEO di Financière Fideuram SA a Parigi. Ecco la sua storia!

 

Perchè un MBA?

A più di 10 anni dalla Laurea in “Economia delle Istituzioni e dei Mercati Finanziari” ho iniziato a notare che il mondo lavorativo aziendale stava subendo un profondo cambiamento. Ecco che ho avvertito la necessità d’intraprendere un Executive MBA che mi consentisse una comprensione e una visione delle principali sfide e decisioni che un’azienda si ritrova ad affrontare. Inoltre l’MBA poteva garantirmi, contestualmente, un linguaggio adeguato per interloquire con profili eterogenei.

 

Come hai raggiunto la tua attuale posizione a Financière Fideuram?

La mia esperienza in Financière Fideuram mi ha portato a sviluppare un percorso di crescita professionale ed umano che è stato sempre guidato dal motto “tu fai il tuo dovere e poi lascia che siano gli altri a giudicarti”.
Seguendo sempre il mio motto di vita sono stato chiamato a ricoprire,  negli anni, il ruolo di Financial Controller e poi di Responsabile Investimenti della Società.
Durante tutti questi anni mi sono guadagnato la fiducia ed il rispetto dei colleghi e del Top Management ed ora sono sono stato scelto per guidare Financière Fideuram.
Ringrazio ancora Fideuram per l’opportunità e la fiducia, tutti i miei sforzi saranno mirati a soddisfare gli interessi dei stakeholders.

 

Qual  è la lezione più importante che hai imparato al MIP?

Non penso a una lezione specifica, ma all’apprendimento continuo di un linguaggio trasversale d’innovazione e trasformazione. La capacità di affrontare, analizzare e risolvere in tempi brevi problemi complessi, ricercando soluzioni non tradizionali e sviluppando una capacità di ragionamento laterale. L’affinamento costante delle tecniche per lo sviluppo di capacità per la gestione della multiculturalità dei team e dei contesti in cui l’impresa opera.

 

In che modo applichi gli insegnamenti dell’MBA nella tua attuale posizione?

Lavorando prima di tutto su me stesso, per essere percepito dai miei colleghi non come un Capo ma come un Leader.
Come tale, le mie personali sfide sono: fissare una direzione strategica che sia chiara a tutti i membri della Società; incoraggiare le idee innovative e concordare tempi e modalità di lavoro con i colleghi, sostenere e sviluppare le capacità dei colleghi; costruire un team coeso che affronti gli eventuali conflitti senza lasciarsi travolgere da essi; delegare quanto possibile per creare un clima di fiducia e per responsabilizzare; elogiare i dipendenti per la qualità del loro operato, rilasciando dei feedback e quindi fornire reali opportunità di carriera.

 

Che consiglio daresti agli allievi MBA che vogliono avanzare professionalmente?

Il mio consiglio è che se oggi si vuole intraprendere o si è intrapreso un Executive MBA solo per ottenere un attestato da citare in un CV, si stanno perdendo tempo e soldi.
La competizione sul mercato del lavoro non è solo sugli attestati ma sul saper gestire le idee, innovare dialogando da leader con i colleghi ed il top management.

 

 

 

 

 

 

Premio Richard R. Nelson: congratulazioni a Chiara Franzoni

Chiara Franzoni, docente di Economia e Organizzazione aziendale, è stata premiata con il premio Richard R. Nelson 2018 per la sua ricerca sulla “crowd science“.

Che cos’è la crowd science?

Il termine si riferisce a progetti scientifici che consentono a cittadini di qualunque età e grado di istruzione di contribuire attivamente ai progetti di ricerca scientifica condotti dai ricercatori.
La partecipazione su larga scala dei cittadini è in genere organizzata tramite piattaforme online. Le attività possono spaziare dalla visione di immagini di laboratorio per rintracciare nuovi pianeti, ad ‘giochi’ logico-visuali che sfruttano le abilità dei giocatori per comprendere le forme tridimensionali delle molecole, alla risoluzione collettiva di teoremi di matematica.
La crowd science, anche detta “citizen science“, ha prodotto risultati eclatanti, sia dal punto di vista della partecipazione diffusa e del contributo alla popolarizzazione della scienza, sia dal punto di vista scientifico. Ad esempio, alcuni studi hanno portato a scoperte di nuovi corpi celesti mai osservati prima, detto ‘quasar light echos’ e a pubblicazioni su riviste del calibro di Nature Molecular Biology.

 

La ricerca

Lo studio premiato, di cui è co-autore anche Henry Sauermann, Professore Associato di Strategy presso ESMT di Berlino, ha avuto il merito di introdurre questa nuova forma di organizzazione della scienza nelle scienze manageriali.

Il lavoro è stato pubblicato su Research Policy nel 2014, ed ha fornito il quadro concettuale per comprendere e potenziare l’applicazione della crowd science su scala più vasta.
Come lo studio prevedeva, la citizens science si è espansa rapidamente, interessando pressoché ogni disciplina e sperimentando nuove tecniche di coinvolgimento dei cittadini.
Lo studio inoltre suggerisce che la libertà di partecipazione e la condivisione libera (open science) dei risultati intermedi sono le caratteristiche chiave che distinguono la crowd science dalla scienza “tradizionale”.

All’interno del panorama scientifico esiste una vasta gamma di approcci diversi, che lo studio ha classificato in due assi principali: competenze richieste ai volontari che intendono partecipare e complessità/interdipendenza delle attività dei partecipanti.
Mentre alcuni progetti, come “Galaxy Zoo“, hanno reclutato oltre 250.000 volontari che non avevano un background scientifico specifico e che hanno potuto lavorare in autonomia, altri progetti richiedono un livello di competenza ed interazione che limita il numero a pochi esperti. “Polymath“, ad esempio, coinvolge matematici sia professionisti che non, i quali discutono in piccoli gruppi per risolvere quesiti di matematica che ciascuno di loro non sarebbe in grado di risolvere da solo. Come lo studio prevedeva, i progetti del primo tipo rimangono quelli largamente più diffusi.

Poiché i cittadini sono una risorsa preziosa e a basso costo per i gruppi di ricerca, la crowd science è particolarmente interessante perché fornisce importanti contributi ‘in natura’ che complimentano o sostituiscono finanziamenti monetari. Inoltre, questo tipo di progetti fornisce anche maggiori benefici generali per il progresso della scienza attraverso la divulgazione aperta dei risultati intermedi che possono stimolare la successiva innovazione.

Spiega la Prof.ssa Franzoni: “Un ulteriore valore aggiunto della Citizens Science è quello di avvicinare gli studenti, gli appassionati ed i cittadini comuni alla scienza, abbattendo le barriere all’ingresso.
Ad esempio esistono molti progetti interessanti, che spaziano dallo studio delle migrazioni degli uccelli, alla comprensione del linguaggio delle balene, alla ricerca sul cambiamento climatico, che i docenti delle scuole di ogni grado (dalla primaria in poi) possono svolgere con le loro classi di alunni. Un modo intelligente e coinvolgente di far capire anche ai più piccoli il lavoro meticoloso che è alla base del progresso scientifico.”

In una ricerca successiva, Franzoni e Sauermann hanno quantificato alcuni di questi benefici, dimostrando il potenziale della crowd science nell’accelerazione del progresso della scienza.

 

Il premio

Il premio Richard R. Nelson viene assegnato ogni due anni per il miglior articolo selezionato pubblicato o sulla rivista “Reasearch Policy” o sula rivista “Industrial and Corporate Change”, entrambe specializzate in studi sull’innovazione. Il premio 2018 ha preso in considerazione gli articoli della rivista Research Policy nel periodo 2013-2017. La cerimonia di consegna del premio avverrà alla presenza di Richard R. Nelson, lo scienziato al cui merito scientifico è intitolato il premio, nel giugno 2019 presso l’università di Berkeley.